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Federico Rampini
Nella Valley dei Templi
4 Maggio 2014
Città quale futuro
Un bel reportage in diretta dalla mecca dell'innovazione tecnologica globale, dove la ricerca di soluzioni avanzatissime a certi problemi pare corrispondere a indifferenza rispetto ad altri.

Un bel reportage in diretta dalla mecca dell'innovazione tecnologica globale, dove la ricerca di soluzioni avanzatissime a certi problemi pare corrispondere a indifferenza rispetto ad altri. La Repubblica 4 maggio 2014, postilla (f.b.)

SAN FRANCISCO – Se il nostro futuro sta nascendo qui, finora si è ben nascosto. Ritorno a guidare sull’autostrada 101, che da San Francisco verso Sud attraversa la Silicon Valley. Ora che abito a New York, mi colpisce di più ciò che davo per scontato quando vivevo qui: la banalità. Incolonnato nel traffico denso e monotono a 55 miglia orarie obbligatorie, vedo scorrere ai due lati un paesaggio fatto di insegne dei fast food McDonald’s e Taco Bell, di ipermercati Costco, Home Depot e Office Max, benzinai, concessionari d’auto, magazzini, depositi. La Highway 101, leggendaria nel mondo intero perché attraversa la più alta concentrazione di tecnologia, innovazione e ricchezza, ha partorito negli ultimi quarant’anni tutte le rivoluzioni del nostro tempo: dall’elettronica all’informatica, da internet ai social network. Eppure potrei essere sul raccordo anulare di Dallas o di Atlanta, in qualunque sconfinata periferia americana: stesse insegne sempre uguali, stesso anonimato. La standardizzazione della bruttura.

Poi il paesaggio s’ingentilisce, con palmizi rigogliosi sotto il sole californiano, giardini e parchi ben curati, quando abbandono l’autostrada e mi addentro nelle cittadine, da Palo Alto (Stanford University) in giù. Immersi nel verde, tuttavia, i quartieri generali dei Nuovi Padroni dell’Universo sono anch’essi una delusione garantita. A Menlo Park, al numero uno della Hacker Way, diverte l’ironia della toponomastica (è come se i banchieri newyorchesi avessero ribattezzato Wall Street la Via dei Predoni), ma è l’unico guizzo di fantasia: a parte il nome della strada, il quartier generale di Facebook è segnalato solo da un cartello col pollice rivolto in alto, il segno “like” (mi piace) del social network. Non fosse per le tante auto Tesla elettriche da cinquantamila dollari che ricaricano le batterie (gratis) nel parking aziendale, l’anonimo edificio di mattoni rossi è un casermone squadrato che potrebbe ospitare un scuola o la posta. Proseguo il mio viaggio fino a Cupertino, che mi accoglie come una città sino-coreana: le insegne dei negozi pubblicizzano ristoranti asiatici, massaggio dei piedi, corsi di taekwondo, serate karaoke, e la filiale della Cathay Bank. Prima ancora di arrivare al mitico numero uno dell’Infinite Loop (“cerchio infinito”) mi rendo conto che Apple si è appropriata di questa cittadina come una metastasi: occupando via via tutti i palazzi di uffici lungo il De Anza Boulevard. Una crescita a casaccio, senza un filo conduttore, senza una linea estetica. Che vergogna, per un’azienda che nel design dei suoi prodotti ha imposto la sublime eleganza zen come tratto distintivo.

Certo la banalità della Silicon Valley scompare quando varchi le porte d’ingresso e penetri nei luoghi di lavoro. Googleplex sembra un villaggio vacanze per hippy, con ragazzi in bermuda e infradito che giocano a beachvolley. Le sue celebri mense salutiste (che furono fondate dall’ex cuoco della rock band Grateful Dead) sono ubique, ispirate dall’idea che “nutrirsi deve essere un divertimento gratuito”, i magnifici giardini sono essenziali per incoraggiare la “biofi- lia”, l’amore della natura che “è la migliore cura antistress”. L’unico dei giganti digitali che ha scelto di rimanere in città (a San Francisco) cioè Twitter, ti accoglie in uffici dove ha abolito i telefoni fissi, le pareti e le porte, dove la reception d’ingresso è un “nido” (i tweet sono cinguettii di uccelli), dove le riunioni strategiche conservano quel tono d’improvvisazione giovanile che serve a ribadire un concetto: nulla è permanente, nulla è codificato e gerarchizzato, la vita nell’economia hi-tech è un flusso di cambiamento incessante.

Non sono certo il primo a notare che la Silicon Valley è una gran delusione estetica. L’esteta capo, Steve Jobs, lo avvertì come una sconfitta personale. Quattro mesi prima di morire, nel giugno 2011, il fondatore di Apple si presentò alla seduta del consiglio comunale di Cupertino con un annuncio clamoroso: la costruzione di un nuovo quartier generale. Affidato a una delle archistar globali, l’inglese Sir Norman Foster celebre per monumenti grandiosi come il Nido d’Uccello (Pechino, Olimpiadi 2008) e il Reichstag di Berlino. Jobs si presentò all’amministrazione cittadina col progetto già bell’e pronto. Il disco volante, o l’astronave, l’hanno chiamato. Un disco gigantesco, appoggiato in mezzo al verde, di dimensioni colossali: il più grande e costoso (cinque miliardi di dollari) edificio d’America, più ampio del Pentagono. Potrebbe contenere cinque stadi di football, ci staranno diecimila dipendenti. Fu l’ultimo grande sogno di Jobs, orchestrato con cura, fino alla presentazione spettacolo che fece ricordare le sue performance al lancio dei nuovi prodotti di Apple.

E così da quel giugno 2011 la Silicon Valley ha deciso di redimersi, di riscattare la propria banale bruttezza. Scatenata da Jobs, è partita subito la gara dell’emulazione di tutti gli altri. Il centro mondiale delle tecnologie, dopo avere generato la più vasta ricchezza capitalistica in un arco di tempo così breve (nessun altro distretto industriale nella storia ha raggiunto in pochi anni la capitalizzazione di Borsa di Apple più Google più Facebook più Twitter eccetera), ora vuole lasciare un segno durevole anche nel paesaggio. Come Bill Gates arrivato alla maturità s’innamorò del Rinascimento italiano, così tutta l’economia digitale scopre il mecenatismo a fini estetici. La Silicon Valley avrà le sue piramidi, la sua valle dei templi.

Appena divulgato il progetto Jobs-Foster, immediatamente Facebook si è messa alla rincorsa. Il fondatore Mark Zuckerberg ha ingaggiato un’altra archistar, l’americano Frank Gehry. Il cui progetto, volutamente, è una sorta di anti-Foster. Mentre il vascello spaziale di Apple sarà imponente e ingombrante, smisuratamente visibile da lontano, al contrario la nuova sede Facebook disegnata da Gehry vuole scomparire nella natura. Imitando il museo di scienze ambientali di Renzo Piano a San Francisco, Gehry ha adottato la soluzione del “tetto verde”: il campus Google sarà semi-interrato, interamente coperto di vegetazione, sotto giardini pensili che lo assorbiranno e lo mimetizzeranno.

Google ha lanciato il suo progetto pochi mesi dopo Facebook. I fondatori Sergey Brin e Larry Page hanno esaminato vari progetti concorrenti, scartandone uno dell’architetto tedesco Christoph Ingenhoven, per selezionare una società di design di Seattle, la Nbbj. «La sfida — spiega l’esperto di architettura Paul Goldberger — è molto ardua. I giganti delle tecnologie digitali hanno sconvolto e rivoluzionato ogni altro aspetto della nostra vita quotidiana, resta da vedere se possano avere un impatto altrettanto potente sull’ambiente urbanistico e la costruzione ». Un aspetto colpisce Goldberger. Le piramidi dei nuovi faraoni della nostra epoca, pur diverse come lo sono i progetti di Foster e Gehry, sembrano avere una cosa in comune: «Guardano verso se stessi, sono degli ambienti auto-sufficienti, più simili ai campus universitari che alle città, anzi del tutto scollegati dalle cittadine attorno».

Tutto accadrà molto in fretta, le cattedrali della Silicon Valley sorgeranno entro il 2016. La velocità non fa difetto, da queste parti. E allora il pellegrinaggio in quest’angolo della California ci offrirà emozioni nuove, forse anche una chiave di lettura aggiuntiva sull’ideologia dei faraoni digitali. L’informalità e la mediocrità estetica si addiceva alla fase pionieristica: dopotutto questi giovani cervelli hanno quasi sempre cominciato a reinventare il mondo dentro un garage. Ora che del mondo sono diventati i padroni, devono decidere che forma dargli.

postilla


Più che simili a campus universitari, i parchi uffici delle mega-imprese tecnologiche assomigliano alla cittadella suburbana ripiegata su sé stessa da cui l'idea di campus discende. E la vera questione, di cui Rampini cita solo l'aspetto secondario dell'anonimato di un territorio architettonicamente seriale, è l'impatto ambientale dello sprawl fatalmente indotto da questo modello organizzativo: di qui i parchi uffici aggrappati all'autostrada, di là i baccelli chiusi delle aree residenziali cul-de-sac socialmente omogenee, di là ancora i servizi e il commercio a offrire quella caricatura di spazio pubblico e di relazione creata via via dal novecento automobilistico. Il tono minaccioso con cui Steve Jobs presentava a Cupertino il progetto di astronave suburbana di Foster, spiegando al consiglio comunale “o me lo accettate così, o me ne vado altrove con la sede”, non riguardava tanto le forme architettoniche, ma proprio quel genere di zoning esclusivo che tutti additano come colpevole di tante cose, incluso il cambiamento climatico da emissioni. Le amministrazioni locali della California stanno cercando da anni con alcune leggi urbanistiche di arginare questa deriva, promuovendo nuclei urbani polifunzionali più densi e adatti alla mobilità dolce e pubblica, ma faticano assai nello scontro con questi innovatori ma non troppo, rigorosamente a modo loro. Pur di rifugiarsi nel vecchio american dream delle sicurezze infantili, Steve Jobs ha inventato la Macchina del Tempo (f.b.)

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