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è il cardine del programma che il sindaco Luigi Brugnaro sta portando a compimento con il plauso delle categorie economiche, in gran parte esentasse, che più se ne avvantaggiano. Da un lato, così, la pubblica amministrazione, che si vanta di aver appena chiuso la moschea ospitata in un edificio di proprietà della comunità musulmana, è impegnata nella eliminazione delle mense per i poveri, nell’adozione di misure speciali contro i mendicanti “aggressivi” e nella spietata demolizione dei rifugi dei senza tetto; dall’altro moltiplica i favori alla cosiddetta industria del turismo e regala sostanziosi incentivi agli sviluppatori immobiliari che stanno distruggendo il territorio lagunare.

Di questa situazione si trova conferma nelle notizie di ogni giorno, ma è con l’inaugurazione della Biennale, che quest’anno rimarrà aperta quasi sette mesi, e lo sbarco delle sue truppe di occupazione, che la città oscena si esibisce nel suoi aspetti più laidi, tra i quali vanno citati, almeno, il padiglione Venezia, le installazioni che invadono e deturpano gli ormai residuali spazi pubblici, inclusa l’acqua del canal Grande, le cene al museo delle grandi firme della moda.

1. Luxus è l’inequivocabile titolo del padiglione che, secondo il sindaco, “rappresenta Venezia e il cuore dei suoi cittadini”. Al suo interno elefanti di cartapesta argentata e sandali rinchiusi in una teca assieme a un pitone (vero) si mischiano a sfilate di boccette di profumo e a lampadari, tra cui uno prodotto dall’azienda vetraria Abate Zanetti, un tempo pubblica ed ora di proprietà di una società dello stesso sindaco.

Il palese conflitto di interessi e l’assenza di artigiani veneziani - l’unico è Giovanni Giusto, capogruppo della Lega in consiglio comunale - hanno suscitato numerose reazioni negative. Ad esempio, il presidente del consorzio Promovetro ha detto: «il padiglione è veramente imbarazzante e danneggia oggettivamente l’immagine dell’artigianato veneziano di qualità che non rappresenta minimamente».

Il sindaco, però, è molto soddisfatto, perché «così si promuove il made in Italy» ed inoltre, il padiglione e «le iniziative dei privati possono corroborare a rafforzare la Biennale, la cui ricchezza per la città è fuori di ogni discussione. Possiamo diffonderla in tutto il centro insulare e a Mestre. Diffondere la Biennale in tutto il territorio è il nostro vero obiettivo».

Concetti simili sono stati ribaditi dal ministro Franceschini, che ha anche colto l’occasione per esprimere la sua contrarietà all’introduzione di limiti all’accesso di turisti. Anzi, ha sottolineato, «questa Biennale avrà grandi numeri e l’Italia deve esserne orgogliosa». Parole mielate per le orecchie del sindaco, i cui collaboratori stanno predisponendo un “libretto di istruzioni” su come visitare Venezia, che comprende “norme sull’abbigliamento”.

2. Non si sa quando tale libretto (pagato con le tasse dei residenti) manifesterà i suoi prodigiosi effetti, ma i grandi numeri auspicati da Brugnaro e Franceschini sembrano un obiettivo già raggiunto.

La stampa locale parla di un “business certamente non inferiore ai trenta milioni di euro, senza contare l’indotto per alberghi, ristoranti e affittanze turistiche” e la mappa con le location della Biennale indica una ulteriore espansione delle posizioni conquistate: chiese, palazzi, magazzini, nonché suolo pubblico e l’acqua, assimilata a plateatico gratuito o usata come basamento su cui collocare grandi oggetti che servono da sfondo ai selfie dei turisti.

Delle due installazioni che gli addetti ai lavori segnalano come “imperdibili”, una consiste in due enormi mani, alte nove metri che sbucano dal canal Grande davanti all’hotel ca' Sagredo a santa Sofia. L’opera inaugurata dal sindaco, che ha concesso il patrocinio del comune, si chiama Support ed è «particolarmente significativa perché da sempre i privati sono quelli che supportano e portano avanti la città. L’idea della sussidiarietà è proprio questa. Iniziative come questa valorizzano Venezia, e soprattutto suscitano l’orgoglio di chi la abita».

Forse il sindaco non è al corrente del curriculum dei recenti proprietari dell’albergo, comprato nel 2008 da Giuseppe Malaspina, un imprenditore calabrese dai trascorsi interessanti. Emigrato in Brianza, nel 1981 era stato condannato per omicidio e poi tornato in libertà, dopo cinque anni, era diventato immobiliarista. In un’intervista del 2008 si era dichiarato interessato a “progetti ambiziosi sulla fascia del turismo di lusso e pronto a valutare altri investimenti nella città lagunare”. Qualcosa, però, non deve aver funzionato, tant’è che, nel 2015, Malaspina risulta indagato per bancarotta fraudolenta ed ora tutte le sue società sono state sciolte.

Al momento la situazione di Cà Sagredo è incerta (donde la ricerca di support?). Si sa solo che, proprio in questi giorni, trattative per la sua gestione sono in corso tra Hilton e Marseglia, una società pugliese “leader mondiale nella lavorazione e nella commercializzazione degli oli vegetali”, che ha diversificato i propri investimenti nei settori immobiliare, turistico e finanziario e che a Venezia ha di recente già acquisito l’Hilton Stucky alla Giudecca.

L’altra installazione è golden tower in campo san Vio, il cui autore per quarant’anni ha sognato di realizzare «un monumento dorato più alto del faro di Alessandria che rappresentasse l'unificazione dell'umanità protesa verso il cielo«. “ Venti metri d’oro da instagrammare al volo!” è la sintetica e appropriata definizione che ne dà un corrispondente delle cronache culturali.

3. Mentre le grandi folle fanno la coda per fotografarsi davanti a queste opere “iconiche”, i padroni, che come è noto hanno buon gusto, preferiscono cenare all’interno di musei veri. L’inserto Cultura (?) del Corriere della Sera dà conto della «lunga gara tra i marchi della moda: Fendi, quest’anno sponsor principale della Biennale (scuola grande di san Rocco), Bulgari (gallerie dell’Accademia), Dolce & Gabbana (palazzo Ducale), Vuitton (museo Correr), Prada a ca’ Corner della Regina e Swatch alla Guggenheim collection» e commenta compiaciuto «ce ne vorrebbe una ogni tre mesi, a Venezia, di settimane così».

Se i dettagli delle cene con l’arte sono ampiamente descritti in tutti i giornali, l’inviata di Vogue è rimasta particolarmente affascinata dallo «spettacolare dinner nella sala Capitolare della scuola grande di san Rocco dove i tavoli di specchio permettevano una immersione totale nell’opera sublime di Tintoretto. Come dire: arte a tutto tondo».

Ma certamente la festa più vistosa è stata quella di Pinault, che ha occupato il sagrato della chiesa di san Giorgio con centinaia di piante di limoni per accogliere al ritmo dei tamburi i suoi mille e trecento invitati. Come racconta ammirata la cronista del Corriere del Veneto, la padrona di casa (da quando san Giorgio è sua?) ha accolto gli ospiti «nei saloni senza tempo della fondazione Cini, con un lusso ostentato nell’addobbo dei tavoli e con il gusto tutto italiano di disporre le quattro mila ostriche, arrivate da Parigi con due camion frigoriferi». La cronista non dice se i suddetti camion hanno poi riportato indietro i gusci delle ostriche o se il mecenate ce li ha regalati.

Comunque, invece di entusiasmarsi di fronte alle volgari manifestazioni di pacchianeria dalle quali siamo circondati, i veneziani non dovrebbero dimenticare che pochi giorni fa un gruppo di bambini è stato multato dai vigili urbani per aver montato un tavolino in un campo in occasione di una “piccola” festa di compleanno. E soprattutto dovrebbero capire che più che l’entità della sanzione pecuniaria, conta il forte e intenzionale messaggio educativo di tale punizione, con la quale le autorità hanno detto ai nostri bambini (i pochi che ancora ci sono) che lo spazio pubblico, per loro, non c’è più.

4. Il clamore pubblicitario che la stampa di complemento ha suscitato attorno al via vai di bella gente che in questa settimana si è esibito durante i riti inaugurali della Biennale - per consegnare i leoni d’oro è appositamente calata da Roma Maria Elena Boschi - è di tale intensità che rischia di distogliere l’attenzione dai grandi affari che alcuni degli sponsor /mecenati stanno perfezionando in laguna.

A questo proposito va ricordato che uno degli sponsor della Biennale 2017 è Coima sgr, società di gestione patrimoniale di fondi di investimento immobiliare per conto di investitori istituzionali italiani e internazionali, che il 9 maggio ha finalizzato gli accordi con il partner britannico London & Regional Properties per la costituzione di un nuovo fondo denominato "Lido di Venezia II" (il "Fondo") a cui è stato apportato il portafoglio alberghiero composto dall'Hotel Excelsior, dall'Hotel Des Bains, da Palazzo Marconi, dalle concessioni sulle spiagge e dai beni ancillari (non meglio definiti) dei due alberghi.

Secondo Manfredi Catella, fondatore e amministratore delegato di Coima «l'accordo rappresenta un primo risultato determinante nell'avvio della riqualificazione del Lido di Venezia, in collaborazione con le istituzioni cittadine e con la comunità, al fine di comporre un progetto turistico culturale che possa affermare la capacità italiana delle istituzioni ed imprenditoriale e contribuire alla competitività del Paese. La rigenerazione del Lido di Venezia può rappresentare un importante progetto pilota nel turismo per l'Italia». Catella non menziona altre iniziative, ma contemporaneamente a questo annuncio sono riprese a circolare voci circa la rinnovata pretesa degli investitori immobiliari di costruire un porto marina nel compendio dell’ospedale al mare e di ulteriori interventi di riqualificazione dell’isola.

In attesa che i relativi progetti vengano esposti l’anno prossimo, quando la Biennale non sarà dedicata all’arte bensì all’architettura, non ci resta che goderci quella che il Sole 24 ore definisce «una mostra ispirata al neo- umanesimo».

Il respiro delle rovine può far rinascere le città, apparso oggi su Repubblica, Salvatore Settis tesse l’elogio della trasformazione in parco urbano della high line...(segue)

Il respiro delle rovine può far rinascere le città, apparsooggi su Repubblica, Salvatore Settistesse l’elogio della trasformazione in parco urbano della high line, una linea ferroviaria sopraelevata di New York, e definiscel’opera una “promessa per il futuro”.
La indubbia eleganza e qualità del progetto non dovrebbero, però, farcidimenticare il suo impatto sulla struttura sociale di un’area che, dopo esserestata stravolta al momento della costruzione della linea ferroviaria, lo èstata nuovamente in occasione della suariconversione.
Aperto al pubblico nel 2009, il parco insiste sulla sede della ferrovia sopraelevatacostruita negli anni ‘30 per rendere meno pericoloso il traffico delle mercitra il meat district, il quartiere dove si concentravano mercati e stabilimentialimentari, con il resto del paese. Parte di un ambizioso progetto di rinnovourbano e di stimolo all’economia, denominato West Side improvement, la costruzione della high line aveva comportato ladistruzione di 640 abitazioni, due scuole, una chiesa.
Dopo un periodo di intensa attività, lahigh line ha progressivamente perso importanza, sia in conseguenza dellepolitiche a favore del traffico su gomma, che per l’abbandono di molte attivitàmanifatturiere insediate lungo l’Hudson nella parte meridionale di Manhattan,fino alla sua definitiva chiusura, nel 1980.
Negli anni successivi, mentre la zona subiva un rapido degrado economico esociale, le società immobiliari proprietarie delle aree contermini si sonoadoperate per imporre la demolizione della highline e usarne il sedime per nuove costruzioni - abitazioni di lusso,uffici, commercio, uno stadio in vista della candidatura di New York a sede delleOlimpiadi del 2012. La vicenda si è trascinata a lungo, rallentata dallaimpossibilità per il comune di sostenere gli enormi costi della bonificaambientale dell’area, finché nel 2001 il sindaco Giuliani ha ordinato lademolizione.
Ma la decisione non è stata eseguita. Un gruppo di residenti, che nel 1999si era riunito nella associazione amici della high line, ha citato l’amministrazione comunale in tribunale perviolazioni alle norme urbanistiche, ottenendo dalla corte un verdettofavorevole e, soprattutto, il nuovo sindaco Bloomberg ne ha capito ilpotenziale valore dichiarandosi favorevolea usarla come catalizzatore per innescare un nuovo sviluppo dell’area eaccelerare la trasformazione già avviata con il re-zoning del special district di Chelsea da zona dipiccole industrie a zona mista, commercialee residenziale.
Gli amici della high line,quindi, hanno indetto un concorso per ilriutilizzo della vecchia infrastruttura, che nel frattempo si era riempita di unaricca vegetazione spontanea, ospitando un vasto campionario di biotipi che sierano distribuiti adattandosi alle diverse condizioni, parti in ombra, partisoleggiate, parti più o meno umide.
Il progetto vincitore, di James Corner Fieldoperation insieme a Diller Scofidio Renfro, si basa sull’idea di“proteggere la high line dall’architettura“,realizzando una sorta di “agritettura” che eviti la rigida demarcazione fra leparti naturali e quelle architettoniche.
L’intera superficie è stata suddivisadal computer in una serie di particelle, ognuna delle quali viene usata in mododiverso, secondo una gamma che varia dalla prevalenza di vegetazione allaassoluta mancanza di vegetazione. Sull’ossatura restaurata della ferrovia poggiano delle travi prefabbricatedi calcestruzzo, che si assottigliano alle estremità e hanno delle giuntureaperte per favorire l’attecchimento e la crescita dell’erba e delle piante. Inalcuni punti, le stesse travi si sollevano e diventano sedute che, isolate odisposte a gruppi, consentono pause di contemplazione o di socializzazione.
Come ogni operazione di naturalizzazione forzata o di socializzazioneselettiva, il parco non è privo di ambiguità- cartelli con l’invito a keep it wild si mescolano a quelli conil divieto a chiedere l’elemosina - ma nel complesso l’alternarsi di momenti wild e cultivated e di momenti intimatee social, crea un’armonia che, secondo Scofidio, ha una valenza quasi musicale.
Un edificio di Zara Hadid. in basso a destra un pezzo del parco
Dice ancora Scofidio che “di solito un parco è sinonimo di fuga dalla città,qui invece porta dentro la città”. E’ uno walkableconnector che offre visuali e punti di vista inconsueti sulla città. Lungo il percorso, ci si può trovareall’altezza del terzo piano di una casa o al livello del tetto, in altridavanti ad un ingresso o in uno spiazzo libero. Ad accentuare la caratteristicadi punto adatto all’osservazione dell’ambiente circostante, che secondo alcunirichiama il film “la finestra sul cortile”, è stata anche realizzataun’apposita finestra sulla città.
Attorno al raffinato intervento si moltiplicano i progetti e, dopol’apertura dello Standard Hotel, un edificio di venti piani a cavallo della high line e con viste spettacolarisull’Hudson fino alla statua della libertà, sono arrivati musei, centriculturali e condomini di lusso, tutti firmati da archistar. Se la prima fase dell’intervento ha riguardato solo un tratto di mezzomiglio, la sua capacità di valorizzare l’area, dalla quale piccole attività emodesti residenti sono stati cacciati, è già evidente, come dimostra il boomdei valori immobiliari e la capacità di attrarre turisti. Giustamente, quindi,è stata definita dal Guardian un esempioda manuale di eco-gentrification.

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Nel luglio 2016, Matteo Renzi ha invitato a pranzo Jeff Bezos, fondatore e presidente di Amazon (pappa al pomodoro, filetto, gelato alla crema e vini tutti toscani) e, dopo averlo portato a spasso al museo, ha così commentato l’incontro: «bello discutere con Jeff Bezos a Firenze e belli i progetti di Amazon per l’Italia».

Tra i progetti che hanno suscitato l’ammirazione dell’ex capo del governo figurano i due centri di distribuzione, rispettivamente a Passo Corese, ad una trentina di chilometri da Roma, e a Vercelli, con i quali la multinazionale del commercio online si appresta a consolidare la sua presenza sul suolo italiano, dove è sbarcata nel 2011 insediandosi a Piacenza, nel polo logistico di Castel San Giovanni.

Le tappe del processo che porta alla realizzazione degli enormi magazzini sono ovunque le stesse. La location viene scelta fra un certo numero di città che lottano fra di loro per attrarre l’investitore e allo scopo offrono infrastrutture, vantaggi economici e rilassamento di norme e regole. Nelle trattative tra istituzioni locali e capitale privato, i cui termini non vengono resi noti ai cittadini, sono coinvolte grandi società immobiliari e di costruzione che si accaparrano i terreni, realizzano le opere e le affittano ad Amazon. Accortamente, i pubblici amministratori lasciano trapelare solo indiscrezioni riguardanti l’arrivo miracoloso di migliaia di posti di lavoro, il che stronca ogni possibile opposizione e fa si che i progetti vengano approvati senza una realistica valutazione dei danni ambientali e sociali che la costruzione di queste e vere e proprie città per le merci comporta.

Lo stabilimento di Passo Corese, alto quindici metri, occuperà cento dieci mila metri quadrati su una superficie fondiaria di duecento venti mila, all’interno dell’omonimo parco di sviluppo industriale istituto dalla provincia di Rieti per mettere a profitto una “naturale vocazione alla logistica, a servizio del sistema-Roma, ma anche dell’intera Italia centrale e meridionale. Un investimento reale, che punta sulla crescita economica locale per creare lavoro, specie per i più giovani.”

L’area del parco industriale coincide con quella che avrebbe dovuto essere riservata al parco archeologico della Sabina, di fatto cancellato, malgrado le proteste di alcuni gruppi di cittadini e del FAI che, nel 2011, aveva segnalato alla sopraintendenza per i beni archeologici del Lazio i rischi di danni ambientali e deturpazione del paesaggio. La sopraintendente aveva risposto che «la normativa vigente permette di contemperare le istanze di tutela del patrimonio archeologico con la realizzazione dell’intervento che risulta provvisto delle necessarie autorizzazioni». I lavori per il parco industriale sono proceduti a rilento per molti anni - la vicenda è stata oggetto anche di una delle inchieste del programma televisivo Report - ma ora, grazie al bel progetto di Amazon, il cantiere è in piena attività.

Subito dopo il vertice di Firenze, Amazon e la regione Lazio hanno sottoscritto un accordo per dare il via a "uno dei più grandi progetti di sviluppo del territorio". La regione ha messo “nero su bianco gli impegni al fine di dotare l’area di tutte le infrastrutture ed i servizi necessari all’arrivo di un gigante come Amazon”. Più specificamente, si è impegnata "a investire sulle infrastrutture materiali e immateriali e a impartire direttive ai centri per l'impiego presenti nella provincie di Rieti e Roma affinché promuovano le offerte di lavoro, consigliando gli strumenti legislativi per procedere all'assunzione del personale e prevedendo altresì agevolazioni per la formazione”.

La regione si è altresì impegnata a incrementare il servizio pubblico di trasporto ferroviario e su gomma dalle città di Roma e Rieti a quella di Fara in Sabina; a realizzare un percorso ciclo-pedonale protetto tra la stazione e il parco industriale, istituendo anche un sistema di bike sharing, e ponendo a disposizione, in via sperimentale, due postazioni di car sharing; a stanziare le risorse necessarie per consentire al consorzio di avviare un parcheggio attrezzato per i camion che operano nel parco industriale, munito di servizi per autisti (bagni e docce). E’ prevista anche la costruzione di una palestra, un mini-market, uno sportello bancario e un bar, nonché la modernizzazione della stazione ferroviaria di Fara in Sabina, con l'incremento degli sportelli automatici e dei collegamenti con la rete ferroviaria laziale, anche in periodi notturni.

Inoltre, le parti pubbliche dovranno completare la bretella di collegamento tra la strada statale Salaria e la strada regionale di Passo Corese. Per questo, “senza oneri alle parti private”, la regione s'impegna a concedere un finanziamento affinché venga realizzato, entro il 31 dicembre 2017, il raddoppio della strada regionale nel tratto compreso tra la bretella di collegamento e l'asse di penetrazione all'area del polo.

Gli edifici per Amazon verranno costruiti dalla Vailog real estate investment sui terreni che, dopo essere stati espropriati al valore di suolo agricolo, risultano di proprietà della SECI real estate (una branca del gruppo Maccaferri di Bologna) che fa parte della società per il parco industriale della Sabina spa, e verranno attrezzati con sistemi di gestione e movimentazione della merce robotizzati, automatizzati e standardizzati.

«Finalmente arriva il lavoro» è stato il commento entusiasta del presidente della regione Nicola Zingaretti, alla posa della prima pietra, il 10 febbraio 2017. Alla cerimonia è intervenuto anche il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio che ha detto: «la scelta di Amazon di continuare a investire sul nostro paese è la prova della nostra capacità di offrire una rete infrastrutturale e amministrazioni locali che funzionano». In passato, ha aggiunto «l'Italia è rimasta indietro nelle infrastrutture, anche perché la logistica non è mai stata al centro dell'attenzione. Ciò che serve sono investimenti accompagnati da una forte semplificazione burocratica in un quadro di scelte strategiche concrete. L'Italia è davvero la porta d'ingresso delle merci per l'Europa». «Oggi, e così nei prossimi anni» - ha concluso il ministro - «l'Italia è chiamata ad affrontare la sfida della crescita del commercio online anche ai fini dell'internazionalizzazione delle nostre imprese, e al centro di ciò deve esserci l'innovazione della logistica e l'ottimizzazione dei trasporti».

A conferma che l’Italia è stata scelta dalla multinazionale del commercio online come uno dei fronti di penetrazione in Europa, nel dicembre 2016 Amazon ha annunciato che costruirà un centro di distribuzione anche a Vercelli.

«Vercelli è, per noi, un posto strategicamente molto importante», ha detto Tareq Rajjal, il country manager di Amazon Italia. «Abbiamo l'autostrada vicino, che ci permette di essere ben connessi con il resto del paese, ma non solo. Noi siamo un network continentale, abbiamo 31 siti in tutto il contesto europeo e Vercelli sarà inserita in questa scacchiera, per noi l'Europa è un paese unico, e noi siamo un'unica city”.

Lo stabilimento occuperà cento mila metri quadrati di terreno agricolo. «La trattativa è stata gestita tutta da privati e i giochi sono ormai fatti. Il consiglio comunale ha concesso uno sconto sui terreni e la (tanto vituperata) macchina amministrativa ha fatto il suo lavoro», gongola la stampa locale. E a rassicurare Amazon, è intervenuto anche il presidente della regione Sergio Chiamparino che ha dichiarato «la regione considera l’investimento strategico per il territorio e si impegna a cooperare con Amazon in modo da creare e mantenere un ambiente positivo che permetta alle aziende di crescere, innovarsi ed espandersi».

La scelta di Vercelli è avvenuta dopo una fiera battaglia a colpi di sconti con Biella e Novara, al termine della quale i vincitori si vantano di essere «il luogo ideale, perché costiamo meno anche come oneri di concessione», e il Sole 24 ore ha incluso la città nella lista delle “grandi città della logistica”, lista la cui prima posizione è occupata da Piacenza, dove ormai un lavoratore su dieci è impiegato nella logistica.

Piacenza è stata la prima località italiana scelta da Amazon, perché offre “la possibilità di attingere a una forza lavoro di eccellenza, ottimi collegamenti con le principali autostrade, una valida collaborazione con il comune e i suoi enti”.

Avviato nel 2011 e più volte ampliato, anche il centro di distribuzione di Piacenza è di proprietà della società Vailog e si estende su circa cento mila metri quadrati. E’ stato oggetto di inchieste e denunce per le infami condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori, il cui unico risultato è l’operazione Porte Aperte, cioè la possibilità per gli estranei di effettuare visite guidate al suo interno.

Oltre ai tre centri di distribuzione, Amazon ha in Italia un centro di servizio a Cagliari e una serie di magazzini e depositi in diverse località e, secondo “indiscrezioni”, sta cercando di farsi vendere dall’Enel alcune centrali elettriche in disuso per installarvi i suoi data center. Probabilmente ci riuscirà, grazie ai buoni rapporti che i padroni di Amazon hanno con il governo italiano, e soprattutto con Renzi che, nel febbraio del 2016, ha nominato Diego Piacentini, il vicepresidente della multinazionale, “commissario del governo per il digitale e l’innovazione”.

Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti... (segue)

Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti è quella di essere usati come schiavi, il che, del resto, già avviene nei campi e nei cantieri.

Alcuni commentatori hanno criticato i provvedimenti che intendono istituzionalizzare lo sfruttamento di migliaia di persone accomunate dal fatto di essere state costrette ad abbandonare la loro terra, interpretandoli come il segnale di un cedimento alla propaganda razzista. Minor attenzione si è posta alla dimensione territoriale di programmi che, prevedendo la concentrazione forzata in appositi insediamenti, da creare ex novo o attraverso il ri-popolamento di zone abbandonate dai nativi, rischiano di dare origine a un vero e proprio regime di apartheid.

Tale prospettiva è tutt’altro che remota e trova conferma in una serie di progetti che economisti e gruppi di investitori hanno elaborato per realizzare “insediamenti a statuto speciale nei quali ai profughi sia consentito intraprendere lavori dignitosi, per provvedere alle proprie famiglie e contribuire allo sviluppo economico, sia dei paesi ospitanti che di quelli di provenienza”. Alcune idee sono state abbandonate, ad esempio quella del miliardario egiziano Naguib Sawiris (fondatore di Wind e insignito del titolo onorifico di commendatore dell’ordine della Stella della solidarietà italiana) che voleva comprare un’isola nel Mediterraneo per metterci cento mila profughi e impiegarli nella costruzione di una nuova città. “La chiamerò Little Siria”, aveva detto, e “assumerò grandi architetti per restituire lo stile architettonico del loro paese d’origine”.

Altre proposte, invece, godono del sostegno ampio e crescente da parte di influenti istituzioni internazionali. Una delle più ambiziose è Refugee cities, messa a punto dalla omonima organizzazione con sede negli Stati Uniti, con l’obiettivo di fornire una risposta “pragmatica e fattibile per trasformare i profughi da onere a beneficio, da peso sulle risorse pubbliche e fonte di disagio sociale a produttivi generatori di reddito, lavoro e investimenti stranieri”.

Michael Castle Miller, il direttore esecutivo di Refugee cities, è un avvocato che vanta una pluridecennale esperienza nello sviluppo di “zone economiche speciali”. E delle zone economiche speciali il progetto, destinato a “liberare il potenziale dei rifugiati”, riprende molte caratteristiche, a partire da una solida partnership tra pubblico e privato, indicata come indispensabile precondizione per il suo successo.

Nella fase iniziale, lo stato dovrebbe elaborare il quadro legislativo e normativo per consentire la formazione di “città speciali” e il rilascio di permessi di lavoro validi solo al loro interno; i profughi, infatti, conserveranno il loro passaporto d’origine, ma non potranno uscire dai confini della città. Contemporaneamente, un’impresa privata di riconosciuta esperienza formerà un team di economisti, avvocati e scienziati sociali che eseguirà uno studio di fattibilità, prendendo in considerazione le aree a disposizione e tenendo conto della domanda di mercato, dell’impatto ambientale e sociale e delle competenze e capacità dei profughi. Una volta individuati i luoghi più adatti, l’impresa presenterà il progetto alle autorità, alle popolazioni locali e agli investitori nazionali e internazionali, che saranno attirati dalla “disponibilità di forza lavoro addestrata e da un quadro normativo eccezionalmente favorevole”.

Quindi, un’altra impresa, specializzata in infrastrutture, comprerà, o affitterà con un contratto a lungo termine, i terreni necessari, vi costruirà le opere di base, dalle strade alle reti idriche ed elettriche e affiderà a una terza impresa il compito di fornire tutti i servizi, dall’istruzione dei bambini alla raccolta dei rifiuti, incluso l’addestramento professionale.

Per garantire il rientro dell’investimento delle imprese private, lo stato si impegnerà ad erogare sussidi ai profughi, affinché il loro reddito sia tale da metterli in grado di “pagare merci e servizi a prezzi di mercato”. Inoltre, per migliorare il business environment di questi enormi campi di lavoro recintati, delegherà il governo dei territori speciali ad apposite autorità nazionali o sopranazionali, la cui “efficienza” stimolerà l’avvio di riforme anche nel paese ospitante.

Fra i molti sostenitori di Refugee cities, uno dei più importanti è Middle east investment initiative che, dal 2005 raggruppa una serie di economisti, finanzieri e diplomatici. Ne fanno parte, tra gli altri, John Negroponte, già ambasciatore americano in Honduras (era chiamato l’ambasciatore della tortura), alle Nazioni Unite e in Iraq; Thomas Pickering già ambasciatore in Russia, India e Israele e Madeleine Albright, già segretario di stato durante la presidente Clinton e principale azionista di un fondo di investimento che ha fatto ottimi affari grazie alle privatizzazioni imposte al Kosovo. Una serie di personaggi, cioè, che dopo aver esportato la democrazia in tutto il mondo , adesso si offrono come investitori in progetti umanitari.

Sul fronte accademico, il direttore di Refugee cities è particolarmente legato a Paul Romer, consulente della Banca mondiale e direttore del Marron institute of urban management, il dipartimento della New York university specializzato in ricerche e progetti per promuovere l’urbanizzazione a scala globale.

Romer è noto per la proposta di creare nei paesi “poveri” una serie di città stato, denominate charter cities, governate dai paesi “ricchi”. In queste “enclaves illuminate all’interno di uno stato da educare, avamposti liberisti e zone per promuovere le riforme”, dovrebbero confluire e trovare lavoro tutti gli abitanti “non contenti dei loro governi corrotti e inefficienti”. Il modello a cui Romer si ispira è Hong Kong, dove si sono “rifugiati i profughi che scappavano dal maoismo” e la cui creazione è stata decisiva per introdurre il libero mercato in Cina. Finora, i tentativi di costruire charter cities in Magadascar e Honduras non hanno avuto buon esito, ma Romer continua a propagandare la sua idea. In Italia, l’ha presentata al festival dell’economia del 2016, organizzato a Trento dal professor Tito Boeri, presidente dell’INPS.

Forse l’INPS non investirà i soldi delle pensioni in città per schiavi (con charter cities li aiutiamo a casa loro, con refugee cities li aiutiamo a casa nostra!) E’ certo, però, che il moltiplicarsi di imprese internazionali che si specializzano nella fornitura di prodotti per rifugiati, e di gruppi di pressione che spingono i governi nazionali a privatizzare “la valorizzazione della risorsa rifugiato” è una tragica conferma che il dislocamento forzato di milioni di persone non è un fenomeno inevitabile provocato da conflitti irrazionali, ma fa parte di un lucido e articolato progetto di messa in schiavitù della maggioranza dell’umanità.

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Lo studio di architettura danese Bjarke Ingels Group ha vinto il concorso indetto dalla San Pellegrino, società controllata della multinazionale Nestlé Waters che possiede 50 marchi di acqua in bottiglia, per l’ammodernamento e l’ingrandimento dello stabilimento di Ruspino nel comune di San Pellegrino Terme, destinato a diventare «il biglietto da visita del gruppo e ad accogliere i visitatori provenienti da tutto il mondo», con un progetto che «rivisita gli elementi classici dell’architettura e dell’urbanistica italiana: le arcate, il portico, il viale, la piazza».

Secondo i dirigenti della società, l’iniziativa rappresenta «un esempio concreto della nostra filosofia di creazione di valore condiviso e di sviluppo di benefici tangibili per le persone, il territorio e l'economia… l'obiettivo è quello di rendere il sito produttivo sempre più in grado di sostenere il business nei prossimi anni, di migliorare il luogo di lavoro per i dipendenti e di creare un dialogo fra l'immagine dell'azienda e il territorio circostante». Inoltre il progetto, scelto da una giuria presieduta da Luca Molinari, rinomato critico e storico di architettura, ha l’enorme merito di «integrare e migliorare il territorio d’origine dell’acqua minerale aggiungendo un tocco di stile moderno».

Il progetto si estende su 17 mila metri quadrati e non si limita a rinnovare i fabbricati che attualmente ospitano produzione e uffici. All’interno di quello che gli autori del progetto chiamano Campus San Pellegrino, infatti, saranno realizzati nuovi volumi per il cosiddetto Experience Lab, una serie di spazi dove “avvicinare fruitori e visitatori al mondo San Pellegrino con contenuti tecnologici e interattivi” e una piazza da utilizzare per manifestazioni ed eventi aperti al pubblico, al cui centro si innalzerà una grande scultura, che riproduce la stratigrafia della roccia e mostra il percorso trentennale durante il quale l’acqua naturale si mineralizza e acquista il gusto “puro e inconfondibile di S. Pellegrino”. Saranno anche ampliati i parcheggi e costruito un nuovo ponte per collegare il sito con il comune di Zogno.

Gli amministratori locali hanno accolto con entusiasmo l’idea di far sorgere questa sorta di parco a tema dell’acqua minerale. «E’ una prova dell’attenzione concreta e dell’attaccamento verso il nostro territorio», ha detto Vittorio Milesi, sindaco di San Pellegrino Terme, «che si inserisce nel clima di sviluppo turistico della nostra cittadina e siamo convinti che possa innestare altre iniziative partite in questi anni, ma che hanno trovato difficoltà a causa della crisi economica». Dichiarazioni simili sono state rilasciate dal sindaco di Zogno, Giuliano Ghisalberti : «la nostra comunità guarda con favore al progetto, siamo convinti che la cooperazione tra pubblico e privato sia un modello virtuoso per riqualificare il nostro territorio e rilanciare l’immagine di tutta la valle Brembana nel mondo, generando certamente effetti positivi sull’occupazione». Anche i sindacati sono d’accordo, perché «davanti a un investimento così importante (si parla di 90 milioni di euro), il giudizio non può che essere positivo».

Nessuna perplessità è stata espressa sui possibili oneri e “imprevisti” effetti negativi per la collettività. E nessuno ha messo in discussione le concessioni (12 pozzi nel comune di San Pellegrino) ed i ridicoli canoni d’affitto di cui beneficia la ditta, che il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina ha definito «ambasciatrice del made in Italy».

In questo clima di unanime gratitudine per i padroni- «l’eccellenza si può costruire anche in questo paese quando ci sono imprenditori e grandi aziende che investono nei territori» ha detto Molinari durante la presentazione ufficiale presso la Fondazione Feltrinelli a Milano, merita di essere segnalato l’unico commento negativo che è apparso su un sito che ha pubblicato il progetto, dove una sconosciuta lettrice ha lasciato un sintetico messaggio: Boycott Nestlé.

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progettato e prodotto grazie al sostegno di Ikea Foundation, la branca “umanitaria” creata nel 1982 dalla omonima società svedese.

Negli ultimi anni, la fondazione ha sempre più concentrato l’attenzione verso i “bambini in situazioni disagiate” ed ha individuato quattro temi cruciali per migliorarne le condizioni di vita: un luogo da chiamare casa, salute, educazione, reddito familiare. Nel 2013 ha deciso di finanziare Better Shelter, un’impresa “sociale” che aspira a diventare “leader nella messa a punto di soluzioni abitative di emergenza”, consentendole di realizzare il progetto e di sperimentarlo in situazioni concrete. Il risultato è una serie di elementi modulari, che smontati stanno in una confezione piatta facilmente trasportabile, e che possono essere assemblati in 4 ore. Better Shelter costa il doppio di una tenda, ma dura molto di più, è più spazioso, consente un migliore controllo della temperatura interna e garantisce sufficiente energia solare per poter accendere una luce di sera.

Oltre che a finanziare la ricerca e la sperimentazione, il contributo della fondazione è stato determinante per mettere in contatto la società con l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati e della quale Ikea è uno dei partners più importanti. Va tenuto presente, a questo proposito, che “dal momento che il numero di profughi continua a crescere e che i finanziamenti a disposizione di UNHCR continuano a diminuire”, l’agenzia sta incoraggiando la collaborazione con il settore privato per trovare “nuove soluzioni e innovazioni tecnologiche” e meglio assistere le persone che sono state obbligate a lasciare le loro case.

Nel 2015, quindi, UNHCR ha comprato le prime 30000 confezioni di Better Shelter ed è molto soddisfatta di questa “partnership strategica”, che mostra come “le imprese globali possano fornire soluzioni che funzionano veramente, aiutandoci a rispondere alle emergenze, a individuare nuove idee e a creare più opportunità per i rifugiati di vivere una vita dignitosa”.

Se non c’è dubbio che, da un punto di vista tecnico, Better Shelter sembra un riparo più confortevole delle tende e baracche che normalmente si trovano nei campi dei profughi, colpisce la eccezionale spettacolarizzazione che ha preceduto e accompagnato l’assegnazione del premio ai suoi progettisti.

Non si è trattato, infatti, solo di una ben orchestrata campagna pubblicitaria, ma di una serie di iniziative da parte di prestigiose istituzioni culturali a livello mondiale. Prima è stato ospitato dal museo di architettura di Stoccolma, poi è stato esposto a New York nella grande mostra dal titolo Insecurities: tracing displacement and shelter organizzata dal MOMA, il museo d’arte moderna che l’ha addirittura incluso nelle sue collezioni permanenti. Adesso, è installato in Kensington Road, a Londra, davanti alla sede del museo del design.

Da più parti sono stati avanzati dubbi sul rischio che simili iniziative alimentino l’illusione che la cosiddetta emergenza profughi sia un problema che l’innovazione tecnologica e le imprese private possono risolvere. In quest’ottica, inoltre, il rifugiato viene ridotto ad uno dei tanti tipi di cliente alle cui particolari esigenze e necessità il mercato è in grado di rispondere con appositi prodotti. Secondo UNCHR, però, questa è solo la prima parte di una collaborazione a lungo termine con la fondazione Ikea che l’agenzia “auspica si estenda alle cure sanitarie e all’istruzione”.

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Il 4 novembre 2016, si è celebrato a Venezia il cinquantesimo anniversario della grande alluvione. Per l’occasione sono stati allestiti convegni, mostre e spettacoli nel corso dei quali notabili locali ed esperti internazionali si sono esibiti in rimembranze e autocelebrazioni. Uno dei pochi interventi interessanti è l’intervista che il sindaco Brugnaro ha rilasciato all’inviato della Stampa, Giuseppe Salvaggiulo. E’ un documento che dovrebbe essere tenuto presente da coloro che spesso ridicolizzano le dichiarazioni del sindaco, al quale non si dovrebbe negare, invece, il merito di enunciare in modo esplicito e inequivocabile gli obiettivi che la sua amministrazione persegue e gli interessi che rappresenta e tutela.

Nell’intervista, Brugnaro ha espresso con chiarezza la sua “visione” ed ha elencato i quattro punti principali sui quali si incardina la sua azione di governo: «il turismo non è un’emergenza, tutt’altro»; «le grandi navi non fanno male a nessuno»; «sul waterfront grattacieli fino a cento metri con terziario e residenziale»; «i soldi pubblici servono a portare qui le multinazionali».
Tra le molte iniziative avviate in conformità a tali intendimenti, di particolare rilievo, per la dimensione e per il tipo di interessi coinvolti, è il moltiplicarsi di strutture ricettive attorno alla stazione di Mestre, in corrispondenza della testa di ponte che congiunge la terraferma alla città insulare. L’idea di devolvere alla speculazione immobiliare/turistica le aree adiacenti alla stazione (nonché quelle ricavabili costruendo una piastra sopra il fascio dei binari, come previsto fin dal 1993 da un progetto di Renzo Piano) non è di Brugnaro, ma risale all’ex sindaco Cacciari e ai suoi accordi con le Ferrovie e la società Grandi Stazioni. L’unica differenza è che gli interlocutori privilegiati da Cacciari, ai tempi dei governi dell’Ulivo quando si privatizzava per fare favori agli amici, erano i “mecenati” nostrani - da Benetton allo stesso Brugnaro- mentre Brugnaro, che si definisce il sindaco più renziano d’Italia, è a caccia di “investitori da tutto il mondo”.
Al momento, il cantiere in fase più avanzata è quello sull’area dell’ex concessionaria di automobili Vempa, dove la società tedesca A&O sta costruendo un ostello di 320 stanze con 750 posti letto. Il progetto, presentato nel 2009, aveva subito suscitato l’entusiasmo della stampa cittadina, a cui giudizio “con l’arrivo di un ostello attrezzato e moderno, Mestre potrebbe smarcarsi dall’etichetta di cittadina di provincia e mettere in evidenza le sue potenzialità di metropoli … la mega-società tedesca sa di aver scelto una location perfetta… a due passi da via Torino dove di qui a breve sorgerà una cittadella universitaria”. Anche il comune era molto favorevole. “Ai tedeschi che chiedono garanzie circa trasporti pubblici e riduzione degli oneri di urbanizzazione” l’assessore all’urbanistica Gianfranco Vecchiato aveva assicurato di ”sostenere questo investimento”, ed infatti ci si era accontentati di 220 mila euro di oneri.
I lavori sono stati poi sospesi durante la gestione del commissario straordinario Zappalorto che, per ridurre il debito del comune, oltre a chiudere servizi pubblici e aumentare tasse e tariffe per i cittadini, aveva imposto un aumento degli oneri di urbanizzazione portandoli a 1 milione e 440, cifra ritenuta troppo esosa dai tedeschi e non solo da loro. “Mazzata sui costruttori”, è il commento della Nuova Venezia. Ora il commissario non c’è più, gli aumenti e i tagli che colpiscono i cittadini sono rimasti, ma con la A&O ci si è messi d’accordo per 650 mila euro.
Un buon affare. Investitori tedeschi hanno conquistato anche la vicina area ex Demont, in via Ca' Marcello a fianco della stazione, che il fondo di investimento MTK di proprietà di Tilmar Hansen si é aggiudicato all’asta per 4 milioni e 800 mila euro. Vi sorgeranno quattro strutture distinte (un apart-hotel, un ostello e due alberghi), gestite da altrettante catene alberghiere: il gruppo irlandese Stay City specializzato negli appartamenti turistici ammobiliati (175 stanze); la catena austriaca "Wombat's", del gruppo City Hostels che punta su una clientela “giovane, dinamica ed elegante” (500 stanze), la catena tedesca "Leonardo Hotels", che fa capo al gruppo turistico israeliano Fattal (500 stanze) e il gigante cinese della "Plateno" (208 stanze) che nel suo sito web decanta la vicinanza all’ “iconico centro storico di Venezia”. Il progetto prevede anche due silos per il parcheggio di circa 700 posti auto.
I contrasti che su questo punto sembravano essere sorti con il comune sono stati risolti e quindi i lavori possono partire “senza ritardi difficilmente comprensibili dagli investitori stranieri, poco avvezzi ai tempi lunghi e incerti delle approvazioni degli enti locali nel nostro paese”. Il conclamato beneficio pubblico derivante dagli oneri di urbanizzazione non è affatto evidente, dal momento che le opere a carico dei privati consistono in realtà in abbellimenti e migliorie degli ambiti di pertinenza della loro proprietà, ad esempio un marciapiede in via Cà Marcello e una piazza tra gli alberghi. Dal canto suo il comune provvederà (con i fondi statali del piano periferie) a migliorare la viabilità, ma nel complesso si ritiene soddisfatto perché l'operazione consentirà di risanare “un'area fortemente degradata della città”.
Altre 150 stanze “low cost ma di alta qualità” saranno presto disponibili con l’apertura di un albergo in via Piave, sul retro del Plaza, mentre sono in attesa dei permessi le costruzioni della Venice Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato ortofrutticolo di via Torino e l’albergo di 130 stanze della Pancin Sas sull’area di via Trento dove sorgevano “le palazzine abbattute dai privati su richiesta del comune, perché ricettacolo di bivacchi e cattive frequentazioni”. Mentre attorno alla stazione è tutto un fervore di opere, si stanno anche finalizzando gli accordi per intervenire sulla stazione stessa, cominciando dalla costruzione di un albergo al posto dell’ex palazzo delle Poste, di proprietà dell’immobiliare Favretti. Il nuovo edificio di tredici piani (200 stanze) avrà un doppio affaccio, uno sul viale della stazione, l’altro direttamente sul binario 1.
L’intervento era già previsto dal masterplan della stazione ferroviaria, avviato dalla giunta Cacciari. Ora dopo aver ottenuto dalla Regione la “liberazione” dal vincolo che insisteva sull’edificio, in quanto esempio di architettura brutalista, e con l’approvazione dell’accordo di programma, l’immobiliare Favretti sta cercando nuovi compratori perché la società spagnola H10 ha rinunciato ad acquistare l’albergo. Comunque, il rappresentante della società immobiliare ha espresso soddisfazione perché «dopo decenni di pastoie ed impedimenti burocratici che hanno, di fatto, impedito l'accesso di nuovi investitori a Venezia, ho trovato un'amministrazione attenta, competente e determinata a promuovere un nuovo sviluppo economico della città». Mentre l’assessore al turismo, Paola Mar, dichiara «Mestre è diventata una città turistica… questi investimenti sono un’occasione per darle dignità di città», si preannuncia anche una completa trasformazione dell’intera stazione in centro commerciale, a servizio delle strutture turistiche.
A questo proposito, così si è espresso il direttore di AVM l’azienda veneziana mobilità: «non sono sicuro che parlare di stazioni significhi discutere di mobilità. Penso a Grand Central a New York o a Shinjuku a Tokio… solo metà di chi vi transita è diretto ai treni.. ci vogliono servizi di eccellenza, da boutique a ristoranti stellati». In comune “si sta lavorando” sul restyling della stazione e lo stesso sindaco vi si dedica personalmente. Come ha avuto modo di vantarsi in consiglio comunale, infatti, non solo egli è in possesso di una laurea in architettura, ma l’ha ottenuta con “una tesi sulla stazione di Mestre”. Il destino!

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Il 23 gennaio, il sindaco Brugnaro va a Parigi, in “missione” presso l’Unesco, per evitare che Venezia sia trasferita dall’elenco dei siti etichettati patrimonio dell’umanità, per il loro valore “universale ed eccezionale”, a quello dei siti “a rischio”.

Tale ipotesi è stata ventilata, alcuni mesi fa, in una risoluzione dell’organizzazione internazionale che ha “intimato” alle autorità italiane di affrontare concretamente, ed entro febbraio, le questioni - grandi navi, infrastrutture, turismo, spopolamento - che minano “l’integrità e l’autenticità” della città e rischiano di trasformarla in “un semplice villaggio turistico”.

Brugnaro aveva immediatamente reagito con toni sprezzanti. “A Venezia devono pensarci i veneziani.. di discorsi ne abbiamo le scatole piene”, aveva detto, “ e poi siamo noi che portiamo valore all’Unesco e non viceversa”. Anche adesso, poco prima di partire, ha riaffermato che “è ora di smetterla con le offese aristocratiche”, ma non ha reso note le “soluzioni” che illustrerà nell’incontro parigino. Soluzioni che non sono nemmeno state discusse in consiglio comunale, ma sulle quali si vanta (e probabilmente è la verità) di avere l’appoggio di quelli che contano, cioè dei gruppi che più estraggono profitti dal “sito”: armatori e tour operators, costruttori e investitori immobiliari, con il loro corollario di intermediari e di lucrose attività esentasse. In particolare, ha ribadito l’accordo totale con l’ex presidente dell’autorità portuale Paolo Costa – ha detto di volerlo assumere come consulente del comune- che rifiuta qualsiasi riduzione sia della dimensione delle navi che del numero degli arrivi.

In mancanza di informazioni su quello che Brugnaro racconterà ai funzionari dell’Unesco, le sue decisioni restano l’indizio più chiaro per capire quali siano gli obiettivi e gli interessi della sua amministrazione.

Singolarmente, alcune possono sembrare di modesto rilievo. Ad esempio l’aumento del 5% della tariffa smaltimento dei rifiuti ai residenti, perché vogliamo mostrare ai turisti una città pulita; l’acquisto di pistole che “sembrano mitragliatori” per i vigili urbani, perché vogliamo ripulire la città da poveri la cui vista disturba i clienti che fanno shopping; l’uso degli studenti di un liceo cittadino come “volontari” durante il prossimo carnevale per dare informazioni ai turisti, perché sia ben chiaro che siamo nati per servir.

Nel loro complesso, però, tali decisioni delineano una visione “culturale” ben definita, secondo la quale la città fisica appartiene a chi è in grado di farne l’uso più redditizio. E siccome a Venezia, niente può più competere con il turismo di rapina, la soluzione di Brugnaro & company è di reagire alla domanda crescente con un’offerta crescente, il che significa nessun limite ai cambi di destinazione d’uso da residenza ad albergo, continua occupazione e sottrazione di suolo pubblico, sistematico smantellamento di servizi pubblici e riuso a fini turistici degli edifici che li ospitavano, nuove massicce costruzioni in adiacenza ai terminal (porto, stazione, aeroporto) e sull’ intera gronda lagunare.

Un progetto che di recente ha riscosso il sostegno entusiasta di Brugnaro e della giunta -“la pubblica amministrazione deve sapere essere elastica… per intercettare investitori nel momento in cui hanno interesse ad effettuare determinate operazioni”- prevede la costruzione, in adiacenza alla stazione marittima, di un albergo di duecento camere, un enorme parcheggio oltre che di una serie di attività commerciali. Il tutto diventerà “una nuova porta d’accesso, con la creazione di una piazza grande come quella di San Marco” .

Forse l’Unesco si riterrà soddisfatta per la prospettiva di una piazza più grande di san Marco. Certamente a Brugnaro, secondo i sondaggi uno dei sindaci più amati d’Italia, importa più il giudizio dei tour operators che non sembrano molto preoccupati per le minacce dell’Unesco. Nella peggiore delle ipotesi, metteranno Venezia nella lista dei luoghi da visitare “prima che sia troppo tardi”, e non è detto che con questo slogan non riescano ad incrementare gli arrivi.

P.S. eddyburg seguirà con attenzione la vicenda

come ha appena fatto ... (segue)

come ha appena fatto Helsinki, il cui consiglio comunale ha rifiutato di costruire, e pagare, una filiale del museo Guggenheim perché “troppo cara per la città, richiede troppo denaro pubblico, occupa un sito di proprietà pubblica troppo pregiato per regalarlo a dei privati!”

La vicenda è stata ignorata dalla stampa italiana, ma andrebbe studiata attentamente, se non dagli amministratori, impegnati a farsi immortalare mentre inaugurano sedicenti musei, che spesso sono solo involucri vuoti, ancorché firmati da costosi architetti, dai cittadini terrorizzati di perdere le “occasioni uniche” elargite dalle multinazionali dell’arte, tra le quali la fondazione Guggenheim primeggia.

A partire dagli anni ’90, la fondazione ha dato avvio ad un piano di espansione globale delle sue attività e imposto una radicale trasformazione del significato e del ruolo dei grandi musei ridotti ad “attrazioni” per turisti e acceleratori di gentrificazione urbana. Dopo Bilbao, le successive tappe di tale piano avrebbero dovuto essere Abu Dhabi e Helsinki.

Il progetto per Abu Dhabi, la cui inaugurazione era inizialmente prevista per il 2017 (ma i lavori sono fermi e non è chiaro se e quando riprenderanno), ha suscitato critiche di varia natura, e non solo con riferimento alla qualità dell’intervento architettonico, firmato da Frank Gerhy e praticamente una replica di quello costruito a Bilbao. Gli oppositori hanno contestato l’approccio post- coloniale dell’operazione, definita una sorta di scambio “oil for art”, perché la gestione e ogni scelta di rilievo sarebbero rimaste a New York, e hanno denunciato e portato all’attenzione di tutto il mondo le condizioni di sfruttamento e semischiavitù dei lavoratori impiegati nella costruzione. Qualche mese fa GULF Labor, una NGO impegnata nella difesa dei diritti umani, ed un gruppo di artisti hanno proiettato sulla superficie esterne del Guggenheim a New York la scritta “Ultra luxury art, ultra low wages”.

La performance ha avuto grande visibilità e ha molto irritato la direzione della fondazione, ma non incide sull’accordo sottoscritto dall’emirato.

A Helsinki, invece, la mobilitazione dei cittadini ha obbligato le autorità locali a fermare il progetto la cui genesi era iniziata nel 2011, quando grazie a un’intensa attività di lobbying la fondazione aveva ricevuto l’incarico, nonché due 2 milioni e mezzo di dollari, per predisporre un piano di fattibilità per un Guggenheim Helsinki, dopo di che aveva suggerito di collocare il nuovo museo sulla parte più pregiata del waterfront, di proprietà della città, e di indire un concorso internazionale di architettura.


Già allora molti cittadini protestarono sia per i costi, 144 milioni, che per i probabili effetti negativi che il Guggenheim avrebbe avuto su altre strutture locali - musei e gallerie - e il consiglio comunale bocciò la proposta. I settori favorevoli però, soprattutto commercianti, albergatori e operatori turistici, hanno formato un gruppo di sostegno alla fondazione e concordato con questa una modesta riduzione dei costi a carico della città, cioè uno sconto sull’affitto del nome il cui prezzo, dai 30 milioni (uno all’anno) inizialmente richiesti, sarebbe stato ridotto a 20 milioni e una possibile partecipazione finanziaria anche da parte dello stato.

La fondazione, quindi, ha elaborato una nuova proposta e indetto un concorso di progettazione che si è concluso nel 2015.

Ma l’attenzione dell’opinione pubblica non ha mai smesso di seguire la vicenda e di evidenziarne gli aspetti negativi, dall’intenzione di sfruttare i cittadini per costruire un museo finalizzato al profitto privato al tentativo di imporre un modello che considera il museo come un marchio da cedere in franchise, invece che come strumento per promuovere il pensiero critico, e propaganda la vendita sui mercati locali di una merce globale, cioè l’arte contemporanea, con tecniche che essenzialmente sono una versione neoliberale del colonialismo culturale. Questa opera di svelamento è stata resa possibile anche perché gli intellettuali non sono stati in silenzio, e molti architetti e critici d’arte si sono impegnati per costruire alternative alla “McDonald dell’arte”. I risultati del loro lavoro sono ora raccolti nel volume The Helsinki effect. Public alternatives to the Guggenheim model of culture driven development.

Nel settembre 2016, la questione è arrivata in parlamento. Il ministro degli affari economici Olli Rehn (quello che non era mai contento dei conti pubblici italiani) si è dichiarato favorevole a stanziare 40 milioni, sostenendo che ne sarebbero derivati benefici all’economia e al turismo, ma il partito “populista” ha messo il veto sull’uso di soldi statali, con il risultato che il conto da pagare sarebbe nuovamente ricaduto tutto sulla città che ha, quindi, dovuto nuovamente votare sulla questione.

In una votazione ristretta la giunta comunale si è espressa a favore, ma i consiglieri sono stati sommersi da una petizione popolare inviata online che intima loro: City of Helsinki Councillors! Vote NO to the Guggenheim proposal!

Il testo con il quale i cittadini sono state sollecitati a sottoscrivere l’appello è molto semplice:

«Malgrado il consiglio comunale abbia già votato NO nel maggio 2012, è stato bandito un concorso di architettura. E’ questo un processo democratico? Un tentativo di far pagare allo stato finlandese il conto per i loro progetti è fallito. Ora, poche settimane dopo riprovano a far pagare con soldi pubblici i loro affari molto privati. E tutto questo in tempi di austerità e tagli!» e il messaggio si basa soprattutto sulle cifre che quantificano l’entità dei costi per i cittadini che si traducono in profitti per la corporation:

- 98 milioni di euro per l'edificio e la sistemazione del sito, in contanti dalla città,
- 35 milioni in prestiti garantiti dalla città,
- 1,3 milione di euro ogni anno dal ministero dell’educazione e della cultura, o in caso di non pagamento da parte del ministero, dalla città
- 0,9 milioni annuali per la manutenzione a carico della città,
- da 3 a 6,5 milioni di deficit ogni anno, perché la città coprirà tutti i rischi derivanti da previsioni finanziarie (introiti sovrastimati e costi sottostimati) totalmente non realistiche.

Per non parlare di una mai vista esenzione da IVA, mentre tutti gli altri musei privati pagano le tasse, per non parlare del terreno ceduto gratuitamente, per non parlare di 1 milione di euro all’anno solo per avere il brand Guggenheim.

In conclusione: oltre 100 milioni di euro per un museo privato che non corre alcun rischio finanziario e la cui gestione è in mano a una corporation straniera.

«Chi pagherà per tutto questo? TU. La proposta dice chiaramente che tutti i rischi saranno della città di Helsinki, dei contribuenti, dei cittadini, cioè NOI. Firma, dici ai nostri consiglieri di votare NO a questo progetto rischioso, costoso e antidemocratico. Se solo una frazione di tutto questo denaro andasse a iniziative culturali e ai musei locali, questo arricchirebbe la nostra città!»

I cittadini hanno firmato in massa e il consiglio comunale non ha potuto far altro che votare NO.

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l signor Renzi che compra i voti dei sindaci, nonché futuri senatori, promettendo fondi speciali alle città ubbidienti è uno spettacolo .. (segue)

Il signor Renzi che compra i voti dei sindaci, nonché futuri senatori, promettendo fondi speciali alle città ubbidienti è uno spettacolo rivoltante, ma ovunque i criteri in base ai quali i governi nazionali distribuiscono le risorse finanziarie sono un indicatore significativo del livello di dialettica democratica tra potere centrale e amministrazioni locali.
La violenta campagna ingaggiata da Donald Trump contro le cosiddette “città santuario” ne rappresenta un esempio importante. Oltre che a deportare gli immigrati clandestini, incarcerare chi rientra negli Stati Uniti dopo essere stato espulso, rafforzare il muro lungo il confine con il Messico, Trump, infatti, si è impegnato a cancellare, fin dal primo giorno del suo insediamento, i finanziamenti federali alle città che non si adegueranno alle sue direttive nei confronti degli immigrati.

La definizione “città santuario”, che non ha valore dal punto di vista legale, è entrata in uso negli anni ’80 , per indicare le chiese di varie confessioni che offrivano rifugio alle persone in fuga dall’America centrale e meridionale. Ora si è trasformata nel marchio spregiativo con il quale i sostenitori di Trump bollano tutte le amministrazioni locali che hanno adottato provvedimenti per proteggere gli stranieri senza documenti da fermi e arresti arbitrari, e in genere da pratiche discriminatorie e vessatorie. In genere, tali provvedimenti consistono nel divieto per i pubblici ufficiali di chiedere informazioni circa lo “status” di una persona e il rifiuto di detenere individui che non abbiano commesso reati, in attesa delle verifiche da parte delle autorità federali. Alcune città, inoltre, rilasciano agli immigrati un documento d’identità che consente loro di lavorare e di accedere ai servizi di base. Nel complesso la denominazione riguarda 39 città, 364 contee e 4 interi stati (California, Connecticut, New Mexico e Colorado).

Verosimilmente le politiche locali circa i diritti degli immigrati diventeranno oggetto di scontro tra il governo e le amministrazioni in mano al partito democratico, e non a caso, subito dopo l’elezione di Trump, molti sindaci si sono affrettati a prendere posizione sul tema.

Alcuni hanno cercato di rassicurare i propri concittadini. Eric Garcetti, sindaco di Los Angeles, parlando ad un gruppo di studenti preoccupati per la sorte delle loro famiglie, ha promesso che farà “tutto il possibile per impedire la deportazione degli immigrati”. “A quelli che, dopo le elezioni, hanno paura, noi diciamo, qui siete sicuri” sono le parole di Rahm Emanuel, sindaco di Chicago e “noi non sacrificheremo nessuno” quelle del sindaco di Providence Jorge Elorza (figlio di immigrati dal Guatemala).

Molti sindaci hanno sottolineato i principi morali su cui si basa la loro politica. “Noi rimaniamo una città inclusiva”… “ è una questione di diritti umani”… “cacciare migliaia di giovani cresciuti qui è immorale” hanno dichiarato, rispettivamente, i sindaci di Denver, Santa Fe e Seattle. E simili proclami si sono ripetuti in tutte le grandi città: Philadelphia, Boston, New Orleans, Dallas, Minneapolis, Newark.

Il sindaco di New York, Bill de Blasio, dopo un incontro con il presidente eletto, ha ribadito che non cederà alle intimidazioni e, se necessario, farà distruggere i database con l’elenco degli immigrati senza documenti che hanno ottenuto la carta d’identità - “non sacrificheremo mezzo milione di persone che vivono con noi e sono parte della nostra comunità, non spezzeremo le famiglie”-, e a San Francisco sia il sindaco Ed Lee -“essere una città santuario è nel DNA di San Francisco”- che il capo della polizia hanno espresso la determinazione a preservare la propria indipendenza dai federali.

Ma tutti sono consapevoli che il ricatto economico è un’arma molto potente e che il nuovo governo la userà. Come ha detto Reince Preibus, capo di gabinetto di Trump, i sindaci devono togliersi dalla testa “l’idea che le città possano disobbedire alle leggi federali e poi sperare nel nostro aiuto economico”, mentre i più acerrimi nemici delle città santuario reclamano misure ancor più punitive nei confronti dei colpevoli di “sedizione e tradimento” e , oltre all’arresto dei sindaci, chiedono l’invio dell’esercito per ristabilire il rispetto della legge.

Nei prossimi mesi si vedrà quanta parte delle minacce del governo sia mera propaganda, quali compromessi saranno negoziati nelle singole situazioni, quali contromisure le città adotteranno, ad esempio con che criteri aumenteranno le tasse locali, per far fronte al taglio dei fondi.

Ma soprattutto, la contrapposizione tra governo federale e amministrazioni locali darà il via a una serie di vertenze giudiziarie e, comunque vada, le città saranno uno dei campi di battaglia cruciali per la democrazia americana.

Dal punto di vista legale, le città oltre che sulla incostituzionalità di alcune norme persecutorie nei confronti degli immigrati contano sulla cosiddetta “anti-commandeering doctrine”, il principio, cioè, secondo il quale il governo federale non può ordinare ai pubblici ufficiali di fare qualcosa che non sia un loro obbligo secondo la Costituzione, né può emanare una legge e poi intimare alle istituzioni locali di renderla operativa. Inoltre, il bilanciamento dei poteri che è uno dei cardini della Costituzione americana, prevede che in caso di conflitto prevalga il rispetto dei principi costituzionali. Per questo, qualsiasi paragone con le due volte nelle quali un presidente ha inviato l’esercito per far applicare la legge è improponibile. In entrambi i casi, infatti - Eisenhower (Little Rock, 1957) e Kennedy (Università Alabama,1963 )- la decisione fu motivata dal rifiuto dei governi locali, in sfregio alla Costituzione, di applicare le leggi antisegregazioniste.

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Tra i vincitori in borsa delle elezioni americane, spiccano Corrections Corp e GEO Group, due società che possiedono e gestiscono prigioni private, le cui azioni sono salite rispettivamente del 48% e del 34% , e la Magal Security Systems il cui titolo ha guadagnato il 20% in una settimana.

The Immigrant-Only Prisons (2015)

Per i padroni delle prigioni, la vittoria di Trump rappresenta l’occasione di invertire la crisi del settore, che si era profilata in seguito alla decisione del Dipartimento di Giustizia di sospendere contratti e appalti in seguito ai molteplici scandali e alle denunce di violenze e maltrattamenti ai danni dei detenuti. Ora, la prospettiva di incarcerare un gran numero di immigrati senza documenti, è per loro una garanzia di grandi profitti. Va ricordato, a questo proposito, che undici carceri privati sono destinati esclusivamente ai non-cittadini americani ed è chiaro che i “clandestini” sono i clienti perfetti per queste strutture.

Magal Security Systems è una società israeliana, quotata a Wall Street, leader mondiale nel settore della cyber sicurezza. Oltre alle recinzioni della striscia di Gaza e ai vari dispositivi per ingabbiare i palestinesi, ha realizzato anche le barriere lungo le frontiere con l’Egitto e la Giordania che impediscono il passaggio di profughi e migranti africani.

I dirigenti di Magal sottolineano che la società non si occupa di filo spinato, ma crea e realizza “smart fences”, cioè barriere che richiedono l’impiego di sofisticati sistemi tecnologici (sensori e dispositivi mobili e satellitari) ed è una delle “punte di eccellenza nel mercato della sicurezza”.

Magal Security Systems built the walls around Gaza

“Stiamo sempre più concentrandoci sul mercato internazionale”, dicono i portavoce della società che, in Europa ha già fornito i sistemi di video sorveglianza dell’aeroporto di Monaco ed in Africa sta cercando di aggiudicarsi la costruzione dei 682 chilometri di confine tra il Kenya e la Somalia. Nel corso di una recente visita a Nairobi, insieme al primo ministro israeliano Netanyahu, i suoi rappresentanti si sono dichiarati fiduciosi di ottenere la commessa, perché “chiunque può mostrare un powerpoint, ma solo noi abbiamo realizzato un progetto complesso e costantemente testato come Gaza!”. A dimostrazione che Gaza è un laboratorio dove il blocco militare, industriale e accademico, che ha trasformato Israele in un efficiente e feroce cane da guardia, sperimenta su cavie umane i suoi prodotti e poi li vende ai governi dei paesi democratici.

Non a caso, Saar Koursh, l’amministratore delegato di Magal, è molto soddisfatto della situazione mondiale. ”Il business dei confini sembrava aver toccato il fondo”, ha detto, “ma poi è arrivato lo stato islamico e il conflitto siriano … il mondo sta cambiando e le frontiere stanno tornando. E’ un grande momento”. E in effetti, grandi momenti si profilano all’orizzonte, se Trump manterrà la promessa fatta durante la campagna elettorale di affidare alla ditta, che è già impegnata in Arizona nella costruzione di barriere anti immigranti, la fortificazione del confine con il Messico.

Ma non è solo Trump a scegliere il marchio Magal. Delle sue tecnologie d’avanguardia messe a punto in decenni di occupazione dei Territori Palestinesi, si è discusso la settimana scorsa alla conferenza HLS & Cyber 2016 (Tel Al Aviv 14-17 novembre) dedicata alla “Homeland security”, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di alcuni governi europei, nonché di Frontex e Interpol. L’Italia ha inviato una “delegazione imprenditoriale e istituzionale di primo piano” (da Enav a Eni a Finmeccanica-Leonardo) e due italiani sono stati inclusi tra gli speaker internazionali: il capo della polizia Franco Gabrielli, che ha espresso la sua ammirazione per la tecnologia israeliana e Alfio Rapisarda “senior vice president security” di Eni, le cui buone azioni in giro per il mondo necessitano protezione e sicurezza

La quantità di notizie, comunicati, diffide, appelli a favore o contro la costruzione a Roma di un nuovo stadio, sul terreno dove sorgeva l’ippodromo di Tor di Valle, rischia ... (segue)

La quantità di notizie, comunicati, diffide, appelli a favore o contro la costruzione a Roma di un nuovo stadio, sul terreno dove sorgeva l’ippodromo di Tor di Valle, rischia di far percepire una vicenda di grande rilievo, per quanto concerne i rapporti tra cittadini, pubbliche istituzioni e privati investitori, come una faida locale tra sindaci e assessori di diversi gruppi politici. Purtroppo, la questione è molto più seria e, a mio avviso, andrebbe esaminata tenendo conto di una serie di fenomeni tra loro collegati.

Il primo è la trasformazione, sancita con legge del 1996, delle società calcistiche da associazioni che avevano come scopi quelli connessi all’esercizio della pratica sportiva a imprese a fini di lucro, con la possibilità di quotarsi in borsa. Molte società di calcio, che in precedenza appartenevano a imprenditori locali, sono state acquistate da investitori finanziari. Oggi, ad esempio, il 78% della Roma è di due società del Delaware, paradiso fiscale degli USA; il Bologna è del canadese Joey Saputo, uno dei 300 uomini più ricchi al mondo; il Venezia è di una cordata rappresentata dall’americano Joe Tacopina. Ovviamente, l’obiettivo primario di queste società è quello di generare profitti da distribuire agli azionisti, un obiettivo che non si raggiunge certo con la vendita dei biglietti, ma in parte con le sponsorizzazioni e la cessione dei diritti televisivi, e sempre di più con investimenti finanziari e immobiliari.

Tra i molteplici effetti della finanza speculativa sul calcio, ben raccontati da Marco Bellinazzo in Goal economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio (Baldini &Castoldi, 2015), figura anche la questione della proprietà degli stadi (al momento solo la Juventus, l’Udinese e il Sassuolo hanno un loro stadio) e dei rapporti tra le società di calcio ed i comuni proprietari degli impianti e dei terreni su cui sorgono.

Su questo tema, già nel 2013, in un articolo intitolato “Cosa spinge i magnati stranieri a investire nel calcio italiano?” apparso sulla rivista Sport Business Management (19- 06-2013) si spiegava, con riferimento a Roma e a Venezia, che un elemento comune alle due cordate è che “appena si sono insediate, hanno indicato nello stadio di proprietà un elemento da realizzare il prima possibile… entrambe sanno che tali strutture rappresentano un elemento imprescindibile per generare ricavi, perché, una volta ultimati, tali stadi, considerando l’afflusso di turisti che hanno Roma e Venezia, diventeranno dei veri e propri monumenti cittadini da visitare, permettendo alle città un ulteriore sviluppo dal punto di vista turistico e di conseguenza economico”.

In secondo luogo, decisiva si sta dimostrando la determinazione del governo centrale di favorire gli speculatori immobiliari locali e internazionali, bypassando gli enti locali, che ha aumentato, anche grazie all’impoverimento programmato dei comuni, il potere negoziale e/o ricattatorio degli investitori privati, nel caso specifico dei padroni delle società calcistiche. Tale tendenza ha subito un’accelerazione con il governo Letta che, nel dicembre 2013, ha adottato un provvedimento per favorire non solo la costruzione o il rifacimento degli stadi, ma l’edificazione al loro intorno, se non al loro interno. Secondo Assoimmobiliare, tale legge ha introdotto “un adeguato e rivoluzionario impianto normativo.. determinando anche il concetto di impianto polifunzionale e rendendo molto più snelle le relative procedure”.

Non è un caso che, nello stesso periodo, sia stata avviata a Torino la cosiddetta operazione Cantinassa “un area che rappresenta l'ideale prosecuzione dell'investimento che la Juventus ha condotto sullo stadio e ha trovato nel comune una sponda molto disponibile al confronto, approvando in tempi brevi la variante urbanistica, indispensabile per portare avanti il progetto".

L’operazione Cantinassa è stata così vantaggiosa che, nel 2015, insieme a Accademia SGR, UbiBanca e Unicredit, la società ha creato J Village Juventus, il primo fondo immobiliare del calcio, che promuoverà lo “sviluppo di molteplici attività, direttamente o indirettamente collegate allo stadio di proprietà di Juventus… e la trasformazione e la valorizzazione di spazi urbani non centralissimi mediante un’opera di riqualificazione… oltre a eventi sportivi, il Village offrirà anche servizi culturali, di intrattenimento, gastronomici, di edutainment e di hospitality”.

Il cosiddetto ammodernamento degli stadi, quindi, ha poco a che vedere con esigenze di messa in sicurezza di strutture vetuste; è piuttosto l’avvio di un radicale ridisegno delle città italiane a vantaggio di chi ha individuato negli stadi degli enormi involucri pieni di rendita di cui impadronirsi. E’ chiaro, infatti, che se gli stadi e le aree di loro pertinenza diventano di proprietà dei club, i quali appartengono a cordate di capitali e ai relativi fondi immobiliari, intere parti di città italiane vengono sottratte ai loro cittadini, anche dal punto di vista giuridico.

Tale scenario ha suscitato l’unanime entusiasmo del mondo accademico, immobiliare e delle costruzioni. Nel 2015, ad esempio la Luiss ha organizzato un master dal titolo “ Stadi e impianti sportivi: le nuove frontiere della valorizzazione immobiliare” con la partecipazione di Assoimmobiliare, che ha costituito una delegazione ad hoc per il settore degli stadi, e Sportium, “una nuova realtà professionale, un vero e proprio consorzio di professionisti e società, che si propone come primo riferimento specializzato esistente in Italia.

Il governo Renzi non solo aderisce totalmente al progetto, ma ne ha allargato l’ambito alle squadre di serie B. Il 27 settembre 2016 è stato sottoscritto un protocollo di intesa tra Invimit (Investimenti Immobiliari Italiani), B Futura (società di scopo interamente partecipata dalla Lega B) e l’Istituto che attraverso lo strumento del Fondo Immobiliare, l’Istituto per il Credito Sportivo per la promozione di operazioni di valorizzazione di stadi e impianti sportivi attraverso lo strumento del fondo immobiliare.“Grazie a questa iniziativa, ha detto il presidente di Invimit Massimo Ferrarese, potranno nascere appositi Fondi Obiettivo gestiti da Sgr di mercato e promossi dagli enti territoriali proprietari degli impianti oggetto di valorizzazione”. In altri termini, i comuni dovranno cedere gli stadi.

Infine, a questo piano di spoliazione, si aggiunge la beffa che di fatto i comuni sono obbligati a dichiarare “di interesse pubblico” i progetti dei privati, dopo di che, se non li approvano rapidamente, devono pagare enormi penali. Una sorta di TTIP a livello locale a garanzia del rendimento del capitale degli investitori al quale i comuni hanno cominciato ad adeguarsi.

Pochi mesi fa, ad esempio, il consiglio comunale di Cagliari ha dichiarato il pubblico interesse della proposta per la realizzazione e gestione del nuovo stadio, un progetto di “rigenerazione urbana il cui concept è stato elaborato dalla società olandese, specializzata in impianti sportivi, The Stadium Consultancy, che si è avvalsa di alcuni professionisti polacchi coinvolti nella realizzazione degli impianti per gli ultimi europei”.

E i cittadini? A loro pensa la società crowdre:crowdfunding innovative real estate che sul suo sito ci scrive: “Ti piacerebbe che il tuo Comune potesse ospitare uno o due spettacoli al giorno di grande livello?Venerdì sera pallavolo, sabato pomeriggio tennis, sabato sera concerto, domenica pomeriggio calcio e domenica sera teatro, ecc … Il Comune non ha denaro per potersi permettere tutto questo? Voi trovateci un’area ben collegata ad aeroporti, treni ed autostrade ed al resto penseremo tutto noi. Non vi costeremo alcunché se ci chiamerete alla presenza di almeno due presidenti delle principali squadre del vostro comune e dell’intera giunta.”

Se la situazione è questa, l’unica informazione che sindaci e assessori, in carica e ex, di Roma dovrebbero darci è quale è “l’offerta che non si può rifiutare” alla quale soggiacciono, poi, vinca il migliore.

La rinuncia da parte della società irlandese Petroceltic... (continua la lettura)

La rinuncia da parte della società irlandese Petroceltic alla concessione ottenuta dal governo italiano per prospezioni petrolifere al largo delle Tremiti e la rinuncia del miliardario neozelandese Michael Harte, manager di Barclays Bank, all’acquisto dell’isola di Budelli nell’arcipelago della Maddalena per farne “un museo all’aperto”, sono state accolte come due buone notizie da chi cerca di opporsi alla privatizzazione e alla devastazione ambientale del nostro mare.

Ma sono le isole veramente salve? Qualche dubbio sorge, se pensiamo che in entrambi i casi i progetti di sfruttamento sono stati accantonati per una unilaterale decisione degli investitori, che non giudicano più abbastanza attraente l’affare, e non per un atto di resipiscenza delle autorità italiane. Queste ultime, anzi, si sono dichiarate dispiaciute e accoglierebbero con favore un ripensamento dei privati.

Sembra che la Petrolceltic, che avrebbe dovuto pagare 1925 euro all’anno (pressappoco l’IMU di una seconda casa al mare) come “canone demaniale” per utilizzare “a scopo di ricerca”, cioè per “esplorare” con la devastante tecnica dell’air-gun una porzione di mare di 373 chilometri quadrati (vale a dire al costo di 5,16 euro per chilometro quadrato), si sia ritirata a causa della sua disastrosa situazione finanziaria. La ministra Federica Guidi ha espresso “rispetto per il passo indietro che risponde ad esigenze industriali strategiche della società”. Comunque, la Petroceltic non ci abbandona del tutto, perché manterrà gli altri titoli minerari che ha nell’Adriatico e in Valpadana, in un’ottica di “ottimizzazione strategica dell’intero portafoglio italiano”.

Non ci sono difficoltà finanziarie, invece, all’origine del ritiro di Harte che, nel 2013, si era aggiudicato Budelli per 2 milioni e novecentomila euro (160 ettari e 12 chilometri di costa) ad un’asta, dove la sua era stata l’unica offerta. Allora il governo Monti aveva rinunciato al diritto di prelazione e poi l’Ente Parco della Maddalena aveva tentato di subentrare al privato. Ne sono seguite una serie di vertenze legali, al termine delle quali il Consiglio di Stato ha riconosciuto il diritto di Harte all’acquisizione della proprietà. Subito dopo la sentenza a lui favorevole, però, il miliardario ha rinunciato a perfezionare l’acquisto, non ravvisando “le condizioni per redigere il piano di conservazione e ricerca ambientale da lui auspicato”. L’attuazione del suo piano, in particolare, sarebbe ostacolata dal fatto che l’isola è una riserva “integrale”, mentre l’investitore chiede/pretende che il vincolo venga ridotto a quello di tutela “parziale”.

Con toni molto concilianti, il sindaco della Maddalena ha detto di voler tenere le «porte aperte a progetti di riqualificazione, valorizzazione e conservazione, perché il privato non va fatto scappare per principio, ma accompagnato all’interno delle norme» e di augurarsi che Harte “ritorni” per discutere “nuovi” progetti ambientali. Il progetto, ora sospeso, prevedeva la realizzazione di un ingresso, un’area di accesso, una rete di sentieri e camminamenti e un approdo per i barconi che portano i turisti al “museo”. Inoltre, prevedeva nuove costruzioni per ospitare un “centro di ricerca scientifica”, gestito da una apposita fondazione a partnership pubblico e privato, secondo un “modello di business” che, dice Harte, all’estero sta dando “grossi risultati”.

Nella non improbabile eventualità che il ricatto dell’investitore funzioni, può essere utile documentarsi sul modello di business a cui Harte si ispira.

Ocean Cay, nell’arcipelago delle Bahamas, a meno di 60 miglia da Miami, è uno dei molti esempi di isole non solo interamente cedute a privati, ma le cui successive trasformazioni sono tutte state decise da imprese straniere, che ne hanno incorporato i profitti lasciando alle popolazioni locali royalties ridicole e rilevanti esternalità negative.

Si tratta di un’isola artificiale, costruita negli anni ’70 e data in concessione all’americana Dillingham corporation come base per l’estrazione e lo stoccaggio di aragonite, un tipo di sabbia abbondante nelle acque delle Bahamas e particolarmente adatto “al mercato della Florida”. Nel 2000 la concessione è passata alla AES, un’altra società americana che intendeva installarvi un terminal per il trasporto di gas liquido e un rigassificatore. Infine, nel dicembre 2015, i diritti sull’isola, 38 ettari di superficie e 3 chilometri e mezzo di spiaggia, sono stati ceduti per 100 anni alla MSC Mediterranean Shipping Company che vi realizzerà un progetto per offrire ai suoi crocieristi “l’esperienza esclusiva di una riserva marina”.

Il programma di “riassetto naturalistico” di quella che si chiamerà Riserva Marina Ocean Cay MSC prevede la piantagione di 80 specie di piante indigene e la costruzione di un villaggio “architettonicamente fedele alle tradizioni bahamiane”, con bar e ristoranti che servono specialità locali, molti negozi, una struttura per matrimoni e ricevimenti, un’arena di 2000 posti per eventi musicali e spettacoli. Sarà creata una rete di sentieri per muoversi in bicicletta, mentre una teleferica consentirà di attraversare l’isola in “maniera emozionante”. Per i clienti delle crociere premium (per le quali si paga di più) sarà riservata una zona speciale, con cabine massaggio, bungalow privati e una beauty farm.

Nel ribadire la forte vocazione ambientalista della compagnia (la stessa le cui grandi navi infestano la laguna di Venezia) i rappresentanti della MSC hanno dichiarato di voler lavorare in contatto con il governo e le associazioni locali nel “rispetto della cultura e della tradizione delle Bahamas”. Il governo è d’accordo e molto soddisfatto, perché stima che la MSC porterà ogni anno almeno 500 mila turisti aggiuntivi alle Bahamas e che la Riserva creerà 600 posti di lavoro nella fase di costruzione e 250, che saranno addestrati dalla stessa MSC, quando le attività turistiche saranno a regime.

La costruzione di un molo esclusivo, al quale le navi rimarranno attraccate durante l’intera sosta, oltre che rispondere a una necessità funzionale intende sottolineare che l’isola è “un’estensione della crociera”, “un’integrazione dell’esperienza a bordo con un’esperienza autenticamente naturale a terra”.

Di fronte a questi “grossi risultati” si possono solo rileggere i versi di Derek Walcott, che nella poesia “Le acacie”, così esprime la sua angoscia di fronte alla valorizzazione dell’isola dei Caraibi dove è nato:

“guardavo gli ettari condannati dove costruiranno l’ennesimo hotel elitario con la gente comune sbarrata fuori. I nuovi artefici della nostra storia si arricchiscono senza rimorso e sono, in effetti, i profeti di una politica che farà dell’isola un centro commerciale, con i frangenti che sorridono come camerieri e tassisti, in queste nuove piantagioni sul mare; una schiavitù senza catene, senza sangue sparso- solo recinti metallici e cartelli, la nuova degradazione.

Addis Abbeba. Almeno 140 morti, centinaia di feriti e ... (continua)

Almeno 140 morti, centinaia di feriti e un numero imprecisato di arresti. E’ questo il bilancio di alcuni mesi di proteste popolari contro il piano regolatore di Addis Abeba e della brutale repressione messa in atto dal governo etiope. Le cifre del massacro sono riportate da molti organi di stampa internazionale che hanno seguito gli scontri tra polizia e manifestanti, ma non hanno suscitato l’interesse dei mezzi di informazione italiani. Peccato, perché dal perverso intreccio tra pianificazione del suolo, discriminazione sociale, affari e corruzione politica che connota la vicenda dell’Addis Abeba Integral Regional Development Plan avremmo molto da imparare.

L’Etiopia, uno dei paesi più poveri del mondo, è uno stato federale, suddiviso in nove regioni delimitate secondo criteri etnici e linguistici. La capitale Addis Abeba è anche la capitale di Oromia, il territorio storicamente abitato dagli Oromo, il gruppo etnico più numeroso (40% della popolazione) e in gran parte dedito all’agricoltura. Negli ultimi anni la città è cresciuta enormemente, ma allo stesso tempo si è verificata una costante diminuzione/espulsione degli abitanti Oromo.

Come molte città africane per le quali gli investitori internazionali hanno grandi visioni e appetiti, Addis Abeba è oggetto di esercizi di pianificazione da parte della Banca Mondiale e di consulenti europei (Agenzia di urbanistica per lo sviluppo dell’agglomerazione di Lione) che hanno aiutato il governo etiope a predisporre un piano per far diventare “la capitale diplomatica dell’Africa” una metropoli “resiliente e competitiva a scala globale”. Tra gli obiettivi dichiarati ci sono, ovviamente, quelli di migliorare le condizioni di vita, garantire l’accesso ai servizi essenziali, connettere gli abitanti con le opportunità di sviluppo. Per raggiungerli, oltre ad una massiccia espansione edilizia e alla costruzione di infrastrutture di trasporto, da attuare con investimenti pubblici, il piano prevede un allargamento dei confini amministrativi della città, in conseguenza del quale il suo territorio si estenderebbe per 1 milione e centomila ettari, cioè venti volte la superficie attuale.

Ed è soprattutto questa decisione che ha scatenato la protesta, dapprima degli studenti universitari e poi di gruppi sempre più numerosi di Oromo, che hanno capito come l’ampliamento di Addis Abeba e la incorporazione nel suo territorio di città e distretti che ora fanno parte di Oromia non sia una scelta tecnica, fondata sulla ragionevole esigenza di una pianificazione territoriale a scala metropolitana, ma una scelta politica contro di loro e contro la Costituzione, che esplicitamente riconosce e tutela i diretti dei vari gruppi etnici, dalla libertà di insediamento all’uso della lingua nelle scuole. Per comprendere i verosimili effetti del piano regolatore, infatti, bisogna tener conto di alcuni elementi:

- dal 1975 la terra è stata nazionalizzata ed è di proprietà dello stato,

- da 22 anni sono al governo esponenti dell’etnia Tigrina che, malgrado sia minoritaria dal punto di vista numerico (4 milioni su 94 milioni di abitanti), alle ultime elezioni ha conquistato il 100% dei seggi in Parlamento, ed ha quindi un fortissimo potere politico e militare,

- l’espulsione e la cacciata dei contadini e l’appropriazione delle terre da loro coltivate da parte delle élites al potere o il loro trasferimento ad investitori stranieri è una pratica sempre più diffusa e ampiamente documentata da organizzazioni internazionali.

Già in passato, i tentativi degli Oromo di opporsi alla cacciata dai loro insediamenti e al ricollocamento forzato sono stati domati con violenza. Lo stesso è avvenuto quando una serie di incendi, si dice attizzati dallo stesso governo, hanno distrutto ampie porzioni di foresta, che sono poi state usate per installarvi attività inquinanti, discariche e impianti per la produzione di fertilizzanti. Ma quella ora in corso non è più solo una protesta per l’ennesimo episodio di land grabbing.

Anche grazie alla risonanza internazionale che la vicenda ha avuto- manifestazioni si sono svolte nel centro di Londra e di Washington- è diventata una lotta di resistenza contro la marginalizzazione economica, sociale, culturale e politica degli Oromo. E che si tratti di una vera e propria guerra lo conferma il fatto che solo in seguito ad una nota dell’ambasciata degli Stati Uniti, che ha invitato le autorità a sospendere l’attuazione del piano regolatore finché non sia stato raggiunto un accordo tra le parti, gli scontri sono temporaneamente cessati. Anche l’Unione Europea ha auspicato “un dialogo costruttivo”. Il governo etiope, quindi, si è dichiarato dispiaciuto perché ci sono state delle incomprensioni e si è impegnato a lavorare per “allargare il consenso” sul piano. In attesa delle prossime battaglie, gli Oromo seppelliscono i loro morti.

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«Vedo tanta fame d’Italia» ha dichiarato Matteo Renzi per magnificare i risultati del suo operato e le sue intenzioni per il futuro. E in effetti, non si può negare che molto abbia fatto e si accinga a fare per dar da mangiare agli affamati, che non sono, però, i poveri di cui parlano i gufi che vedono “tanta fame IN Italia”, ma gli investitori ed i gruppi finanziari dei quali si preoccupa di intercettare gli appetiti.

Fame d’Italia

Mentre la lista di fabbriche e di marchi ceduti all’estero continua ad allungarsi, sul fronte immobiliare non ha freni la gigantesca espropriazione ai danni degli italiani, affidata alla Cassa depositi e prestiti e ai vari organismi creati affinché operino come intermediari e facilitatori delle svendite di Stato. Le lussuose brochures pubblicitarie, con le quali promuovono le loro offerte, vengono riprodotte, e sempre favorevolmente commentate, dai principali mezzi di comunicazione.

Tra questi, particolarmente attento è il Sole 24 Ore, che dedica al settore “edilizia e territorio” articoli informati e in totale sintonia con le politiche urbane e territoriali del governo. Per limitarsi a pochi recenti esempi, nel pezzo Il resort nella centrale, dedicato alla riqualificazione delle centrali dell’Enel, si legge che quella di Porto Tolle potrà diventare uno «splendido resort di lusso con un ristorante sulla ciminiera alta 250 metri, più alta dei grattacieli di Milano, dalla quale nelle giornate terse si distingue di là dell’Adriatico il profilo dell’Istria» (10 dicembre 2015). «La città rinasce sui binari dismessi» annuncia con entusiasmo che nelle città italiane c’è «un tesoro nascosto di 6,6 milioni di metri quadri di aree o strutture ferroviarie dismesse pronte alla riqualificazione urbana» (16 dicembre 2015). Il Poligrafico dello Stato diventa un albergo cinese parla del radioso futuro del «bellissimo e gigantesco palazzo in posizione strategica per soggiornare, visitare, fare business nella capitale» (25 novembre 2015). Ma, più che singolarmente, è nel loro insieme che le analisi e le proposte del Sole sono interessanti, perché compongono un quadro unitario che difficilmente si trova nelle riviste d’architettura e d’urbanistica italiane che, spesso, tendono ad appassionarsi di fasulle polemiche estetiche e dei capricci delle archistar. Il quotidiano di Confindustria, invece, si concentra sul rapporto tra uso del suolo e denaro, nei suoi molteplici intrecci e nelle sue molteplici manifestazioni.

Un contributo che bene sintetizza il paradigma interpretativo adottato dal giornale e il modello operativo auspicato per aiutare «il comparto immobiliare ancora alle prese con una crisi lunga e grave, in un contesto in cui la carenza di risorse pubbliche si aggiunge alla paralisi amministrativa e all’ostinazione del popolo dei NO» è Territorio nuova ricchezza d’Italia di Francesco Prisco (5 ottobre 2015). Se il titolo può sembrare una banale ripetizione dell’abusato slogan “cultura petrolio della nazione”, in realtà l’autore ha la giusta consapevolezza che favorire un significativo salto di scala rispetto alla tradizionale speculazione immobiliare sia uno degli obiettivi perseguiti dal governo. Scrive, infatti, che non solo ora la grande sfida è «passare dal modello di valorizzazione dei singoli edifici alla valorizzazione di interi quartieri», ma tale sfida potrà essere vinta grazie allo Sblocca Italia.

Il giornalista non è l’unico a individuare “la chiave di volta per riqualificare interi quartieri” nel combinato disposto dell’articolo 24 («i comuni possono definire i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da valorizzare») e dell’articolo 26 («per contribuire alla stabilità finanziaria nazionale e promuovere iniziative di rivalutazione del patrimonio volte allo sviluppo economico e sociale … si riconosce all’accordo di programma che si occupa del recupero di immobili pubblici non utilizzati il valore di variante urbanistica»).

In un altro articolo dello stesso 5 ottobre, simili considerazioni sono espresse da Alfredo Romeo, potente avvocato e immobiliarista napoletano, presidente dell’omonimo gruppo di “facility management” (gestione integrata dei servizi di complessi edilizi o di vere e proprie parti della città) che tra i suoi molti successi può vantare l’appalto per riscuotere i tributi per i comuni. Nell’intervista, pubblicata con l’eloquente titolo Patrimonio da valorizzare. I beni pubblici vadano a chi ha progetti migliori e offre nuovi servizi, Romeo, condannato, nel 2013, a due anni per corruzione e poi prosciolto in Cassazione, si dichiara convinto che «di fronte al campo d’azione sterminato dei quartieri e delle periferie degradate che non riescono ad esprimere il potenziale valore immobiliare …. tocca a noi operatori fornire proposte».

Il Manifesto di Romeo

Nel 2015 Romeo ha fondato ORP Osservatorio risorsa patrimonio Italia e stilato un Manifesto per diffondere «un nuovo pensiero sulla rigenerazione urbana e sulla gestione dei territori di particolare interesse per i decisori pubblici” che “circola nel mondo del real estate e delle amministrazioni pubbliche e sta raccogliendo adesioni e contributi accademici».

Il Sole 24 Ore
ha accolto con favore il progetto (Nasce l’osservatorio risorsa patrimonio Italia per rilanciare gli investimenti nelle città, 29 luglio 2015) e, per divulgarlo, ha organizzato un seminario, “Gestire le città. La risorsa territorio per un new deal italiano”, i cui lavori sono stati moderati dal suo direttore, Roberto Napoletano (La chance della gestione delle città, 27 novembre 2015).

Sul concetto che sia arrivato il momento per «un new deal del real estate», ribadito da Romeo nel suo intervento introduttivo, e sulla vision a cui si ispira il manifesto - «se il comune non riesce a gestire facciamo in modo di coinvolgere il privato» - si sono dichiarati d’accordo tutti i relatori, che rappresentavano i principali attori in grado di influenzare, se non di dettare, le politiche urbane in Italia (Assoimmobiliare, Cresme, Nomisma, Anci, CNR, commissione ambiente e territorio della Camera) nonché il sindaco di Firenze, Dario Nardella e Roberto Reggi, direttore generale dell'Agenzia del Demanio. Quest’ultimo ha spiegato come l’agenzia miri a «promuovere progetti di sviluppo immobiliari, supportando gli enti locali in termini know-how per la realizzazione concreta di tali iniziative grazie al coinvolgimento di investitori». Tra gli oratori figurava anche Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, con una relazione intitolata “Rispetto delle regole o regole da cambiare? Il diritto come motore o freno dell'economia” (Cantone: rilancio appalti solo con regole chiare, 28 novembre 2015).

Unanime è stato il plauso dei partecipanti a proposito degli strumenti individuati da Romeo per dare concretezza alla mission di “valorizzare pezzi di città”: “recuperare risorse, ad esempio, tributi, all’interno di un’area, e usarle all’interno dell’area stessa o creare vantaggi fiscali dove scattano accordi tra cittadini e investitori privati per progetti di riqualificazione … trattare il cambio d’uso non come una concessione burocratica, ma come provvedimento coerente e funzionale allo sviluppo del territorio … far si che la tutela del patrimonio storico e architettonico non significhi interdizione della fruizione”.

Il modello Insula

Al seminario è stata distribuita una pubblicazione delle Edizioni del Sole, Patrimonio Italia. La risorsa, nella quale si illustrano «modelli e prassi per riqualificare e valorizzare città e territori con una moderna partnership pubblico-privato» e si indicano come esempi di best practice l’Expo di Milano e Insula di Napoli. (Valorizzare i territori: i modelli da replicare, 27 novembre 2015).

Anche Insula è una creatura di Romeo, una tappa importante nei suoi complessi e controversi rapporti con il comune di Napoli dal quale aveva ottenuto, nel 1998, la gestione del patrimonio immobiliare, inclusa la manutenzione e la riscossione degli affitti. Nel 2012, alla scadenza del contratto, e non avendo il comune i soldi per pagare i “debiti” con l’imprenditore, Romeo si offrì di riqualificare, in cambio della gestione, il borgo dell’antica dogana, un’area fronte mare accanto al terminal crociere, nella quale sorge il grande albergo che possiede Romeo. Già allora la sua ricetta per riqualificare «un quartiere centrale che versa in condizioni di obsolescenza e per questo non può giovarsi delle sue enormi opportunità turistiche insite nella sua prossimità al centro città» era che le tasse pagate dai residenti di un’area venissero spese per i servizi all’interno della stessa. Il sindaco de Magistris è stato sul punto di accettare l’accordo, ma ha dovuto rinunciare per l’ostilità di gran parte dei cittadini alla privatizzazione, di fatto, di un pezzo di città.

Ora Romeo, oltre a rivendicare il merito di aver anticipato il “baratto fiscale” reso possibile dall’articolo 24 dello Sblocca Italia, ripropone l’intenzione di «intervenire su insule urbane delimitate, con caratteri omogenei o con una identificazione naturale nella percezione dei cittadini ed utenti, usando le entrate fiscali all’interno delle singole aree». Il valore attuale di Insula sarebbe di 390 milioni, ed il suo potenziale 580 milioni. Secondo Romeo, il beneficio economico della riqualificazione non deriverebbe solo dall’aumento del valore patrimoniale, ma da quello delle entrate fiscali che renderebbero l’area “autosufficiente” e in grado di migliorare i servizi dentro i propri confini. E’ una posizione che sembra destinata a vincere, perché ritagliare isole appetibili per gli investitori è la strategia urbana su cui puntano il governo e gli imprenditori che lo fiancheggiano (o viceversa). Anche il Sole approva «il modello insula: dove il quartiere è un condominio» (5 ottobre 2015).

Riferimenti
Sulla vicenda napoletana si vedano il commento di Antonio di Gennaro, la postilla di Edoardo Salzano, gli articoli di Marco Demarco, Luigi De Falco, Antonio Tricomi e la lettera al direttore di Alfredo Romeo, raggiungibili QUI. Si veda inoltre Giunta De Magistris. Quel patto col diavolo che fa discutere Napoli di Andrea Fabozzi con le interviste al Sindaco Luigi De Magistris e a Vezio De Lucia. Numerosi altri articoli nell'archivio di eddyburg

“A Venezia, gli stranieri sono bene accolti se hanno molto denaro”, dice un personaggio del Candide di Voltaire. Forse è vero dappertutto, ma qui l’intreccio... (continua a leggere)

“A Venezia, gli stranieri sono bene accolti se hanno molto denaro”, dice un personaggio del Candide di Voltaire. Forse è vero dappertutto, ma qui l’intreccio di soldi e razzismo permea ogni programma e intervento delle istituzioni di governo. Nei giorni scorsi, il ministro della cultura Franceschini (basta bivacchi, vogliamo turisti di qualità), il governatore del Veneto Zaia (nessun profugo nelle località turistiche), e il sindaco di Venezia Brugnaro (non c’è posto per profughi e accattoni) ce ne hanno dato una bella prova.

1. Un ministro “di qualità”.
Alle chiacchiere sul turismo sostenibile - fiaba con la quale i governanti convincono i cittadini a lasciarsi rubare i residui spazi pubblici, affinché privati investitori li facciano fruttare a loro vantaggio- si è aggiunta quest’anno una polemica internazionale. Il pretesto è stato fornito dalla dichiarazione del nuovo sindaco di Barcellona che, presentando alcune misure per limitare gli effetti devastanti del turismo, ha spiegato di “non voler fare la fine di Venezia”. Invece di chiedersi perché ormai Venezia sia il modello negativo a cui in tutto il mondo si guarda per evitarlo, il ministro ha reagito dicendo che a Barcellona “dovrebbero baciarsi i gomiti per poter diventare come Venezia”. Ha anche spiegato che il problema non è il numero di turisti, ma la loro qualità, che per definizione viene valutata in base alla quantità di denaro che spendono. Ed è perché questi turisti di qualità non vengano disturbati da turisti poveri né da abitanti poveri, che si stanno trasformando le nostre città e si erigono recinti attorno ai “luoghi più pregiati”. Facile, ancorché inutile, sarebbe usare lo stesso linguaggio elegante del ministro- che dà una buona idea del livello culturale di chi gestisce l’omonimo dicastero- e dire che volentieri ci baceremmo i gomiti per poter avere un sindaco come quello di Barcellona. Inutile è, anche, spiegare al ministro che il problema non sono i turisti, acquirenti finali di una merce sempre più contraffatta, avariata e venduta a caro prezzo, ma chi tale merce vende, anche se non è sua (del resto anche “il problema” dell’Ilva non è la fabbrica, ma i suoi padroni e i loro amici), perché lo sa già, ed è proprio per proteggerne gli interessi che è stato messo al posto che occupa.

Assolutamente d’accordo con il ministro si è detto il sindaco Brugnaro, che non ha “escluso azioni a tutela del nome e della reputazione di Venezia”. Intanto, mentre valuta se fare causa al sindaco di Barcellona, e speriamo che non ci metta un’addizionale irpef per pagare le spese legali, ha adottato una serie di ordinanze per il decoro e l’immagine della città. “Dobbiamo togliere dalle strade un sacco di gente che gira e bighellona, si ubriaca…” ha spiegato, ma non si riferiva ai turisti, che per l’appunto bighellonano ubriachi, ma ad “accattoni, mendicanti e persone moleste”. Così ha aumentato il numero di vigili urbani armati che si aggirano per le calli a caccia di venditori di strada, ma niente fanno per impedire gli osceni picnic al cimitero, dove anzi appositi cartelli indirizzano i turisti verso gli angoli ritenuti più suggestivi, né per limitare l’ingresso nell’atrio dell’ospedale costantemente invaso da turisti che, forse pensando che sia già stato trasformato in albergo come molti luoghi di cura e ricovero della città, si divertono a fotografare i parenti dei degenti. Ovviamente, ha confermato il divieto, istituito a suo tempo dal sindaco Cacciari, di sosta davanti alle porte delle chiese per chiedere l’elemosina. “Ripuliremo la città”, è il suo slogan, “è ora di dire basta con questa gentaglia che gira per le strade!” .

2. Un governatore “ghandiano”.

Le manifestazioni di razzismo in Veneto, regione operosa e campione di evasione fiscale, non sono una novità. I fatti di Quinto di Treviso ed Eraclea, però, che nei giorni scorsi hanno attirato l’attenzione della stampa anche nazionale, mostrano con inequivocabile chiarezza come i politici consapevolmente usino le preoccupazioni economiche della “gente” per consolidare e giustificare il razzismo istituzionale.

In entrambi i casi non si tratta di guerra fra poveri, da una parte abitanti legali e dall’altra clandestini o occupanti abusivi. A Quinto, i profughi contro i quali si è scatenata la furia degli abitanti, sono arrivati perché lì le autorità li hanno portati, dopo la firma di una convenzione fra una società immobiliare, proprietaria di un certo numero di immobili sfitti, e la cooperativa che gestisce la sistemazione di profughi. Al loro arrivo i pullman sono stati presi a sassate dai civili abitanti di Quinto, ai quali si sono aggregate le squadracce di Forza Nuova. Insieme, hanno poi bruciato materassi e suppellettili (di proprietà pubblica, cioè pagati con le tasse di chi le paga) e impedito ai volontari di portare le ceste con il cibo dei profughi. Nessun provvedimento di polizia è stato eseguito nei loro confronti; al contrario sono stati fermati alcuni giovani di un centro sociale che manifestavano a favore dei profughi. Il governatore Zaia si è recato di persona a Quinto per dar man forte agli insorti. La gente, ha spiegato, è giustamente preoccupata perché l’arrivo dei profughi può far scendere il valore degli immobili.

Le minacce al governo - “lo stato non deve romper le palle a chi protesta” ha detto Zaia - e al prefetto hanno funzionato e i profughi sono stati spostati in una ex caserma. Nessuno ha chiarito se i contribuenti dovranno pagare una penale all’immobiliare con la quale era stata firmata la convenzione, né è stato reso noto se e quanti simili accordi siano stati siglati con altre società, e con quali costi. Intascata la vittoria, il governatore Zaia si è premurato di spiegare alla stampa che “noi non siamo razzisti e siamo contrari alla violenza”, ma qui “si sta africanizzando il Veneto”. Non si possono scaricare “un centinaio di persone che non sanno nulla del Veneto!” e pensare che la gente non reagisca, ha aggiunto, e comunque quella che stiamo facendo è “una guerra ghandiana contro gli incapaci che sono a Roma e ci governano”.

Anche ad Eraclea le motivazioni economiche sono state l’elemento scatenante del rifiuto ad ospitare temporaneamente 54 profughi in un residence. Ed anche qui Zaia è intervenuto di persona e ha attaccato direttamente Renzi che “mi aveva promesso che nessun profugo sarebbe stato mandato in località turistiche, di mare, di montagna, termali, città d’arte”, ma che dopo le elezioni avrebbe ordinato una “rappresaglia contro il Veneto!” . Comunque “se Renzi e Alfano vogliono distruggere l’economia del Veneto con i suoi 70 milioni di presenze” glielo impediremo, ha ribadito per rassicurare gli operatori del settore che gli hanno rivolto “un accorato appello per la salvezza dei territori e della stagione turistica”.

A Renzi ha scritto anche il sindaco Brugnaro, per mettere nero su bianco che noi non siamo razzisti e siamo disposti ad ospitare una conferenza internazionale sul tema, ma il governo deve prendere atto che a Venezia “non c’è posto” per nessun profugo e che “in Italia, l’Africa non ci può stare”. Poi si è recato all’aeroporto, insieme a Zaia e con uno stuolo di dignitari al seguito, ad inchinarsi allo sbarco della signora Obama.

La vicenda del Fontego dei tedeschiillustra in modo esemplare la connessione tra scelte globali, nazionali e locali,e come esse tutte cospirino verso la mercificazione di ogni cosa ...(continua la lettura)

La vicenda del Fontego dei tedeschi illustra in modo esemplare la connessione tra scelte globali, nazionali e locali, e come esse tutte cospirino verso la mercificazione di ogni cosa che abbia pregio. Come tutte le operazioni del gruppo Benetton a Venezia, l’acquisto di quel complesso non è stato solo un accorto investimento immobiliare. E’ servito a ridisegnare una parte della città con il risultato di accelerare la trasformazione dell’intera struttura urbana: fisica, economica, sociale e politica. La soluzione finale posta alla vicenda dalla sentenza del Consiglio di Stato, che ha accolto le motivazioni dei privati proprietari, del comune e della sopraintendenza, tutti alleati contro Italia Nostra, suggerisce una riflessione su almeno tre questioni, il cui rilievo trascende la scala locale: il concetto di pubblica utilità, il futuro delle “città museo”, la zonizzazione del territorio in funzione del potere d’acquisto dei turisti.

1. TTIP e Consiglio di Stato

Il 10 giugno il Parlamento europeo esprimerà il suo parere sul TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e la libertà di investimento), il trattato che consentirà alle grandi concentrazioni multinazionali di impugnare le normative e le leggi di qualsiasi stato, che siano in contrasto ai propri interessi, ricorrendo ad un tribunale privato che avrà una giurisdizione al di sopra degli stati nazionali. Gli interessi economici delle multinazionali saranno, quindi, anche da un punto di vista formale, al disopra dei diritti delle persone e delle comunità locali. L’argomento usato per rendere le multinazionali immuni alle legislazioni nazionali sovrane è la “necessità” di evitare che le leggi pongano “restrizioni al commercio” e abbiano un impatto negativo sui profitti. Il governo italiano, ha detto Renzi, sta “spingendo con determinazione” per l’approvazione del trattato.

Secondo quanto riporta la stampa, tra le motivazioni con la quale il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Italia Nostra a proposito dei lavori di ristrutturazione del Fontego c’è il riconoscimento che le deroghe a norme e leggi sono giustificate in vista degli “effetti benefici per la collettività che ne derivano”. Se è così, si tratta di una sentenza anticipatrice dei dettami del TTIP, perché sancisce che quello che è bene per gli investitori, è bene per tutti.

DFS, la consociata di Moet Hennessy Louis Vuitton che gestirà il centro commerciale, non è un bottegaio qualsiasi. Creata a Hong Kong nel 1960 , possiede spazi duty free in 18 scali aeroportuali e 14 grandi magazzini denominati T-Galleria (dove T sta per traveller) in grandi città, soprattutto in Asia. Lo sbarco a Venezia è parte della strategia della società di espandersi e conquistare l’Europa. Come ha dichiarato l’amministratore delegato Philippe Schaus, “stavamo già trattando per una sede a Roma, ma quando Benetton ci ha chiamato, abbiamo pensato: questa è un’opportunità incredibile… we could not dream a better situation!”

In effetti, la situazione è ottima per DFS, che arriva e non deve nemmeno perdere tempo in trattative con le autorità locali, perché il lavoro sporco è già stato fatto. Deve solo pagare il giusto prezzo al proprietario dell’immobile, l’imprenditore/eroe nostrano che, d’ora in poi, potrà limitarsi a intascare l’affitto (si dice 110 milioni per i primi anni, cioè il doppio di quanto corrisposto alle Poste italiane per comprare l’edificio).

Il beneficio pubblico individuato nella sentenza consiste in 300 posti di lavoro, che forse avrebbero potuto essere creati anche senza stravolgere l’edificio monumentale. Non si menzionano future entrate fiscali per il comune. Speriamo che DFS Duty Free Shop non significhi che non pagheranno tasse.

2. La profezia di Andy Warhol

Quando Andy Warhol diceva: “tutti i grandi magazzini diventeranno musei, e tutti i musei diventeranno grandi magazzini” pensavamo fosse una battuta, invece, come sempre, l’artista è profeta.

Gli interventi sulla struttura edilizia del Fontego verranno portato a termine dal gruppo Benetton, secondo il progetto di Rem Koolhas. Per l’allestimento degli spazi interni, invece, DFS ha incaricato l’inglese Jamie Fobert, grande “star dell’interior design”.

L’intenzione, ha spiegato Schaus in una conferenza stampa organizzata al teatro la Fenice, è di creare una nuova “destinazione commerciale e culturale” sul Canal Grande, dando spazio a una nuova interpretazione del department store e sviluppando “un nuovo concetto di shopping che sia tanto commerciale quanto culturale”.

Con il supporto delle istituzioni locali, ha aggiunto (e sarebbe interessante sapere se e quali accordi siano già stati presi), DFS intende avviare un programma di eventi culturali per offrire ai clienti una “nuova esperienza”. Uno dei 300 assunti si occuperà esclusivamente di “manifestazioni culturali” e come tutti dipendenti verrà addestrato presso l’università della DFS. La società, infatti, possiede anche una sua università la cui missione è creare un ambiente educativo atto a sviluppare le abilità necessarie per far vivere esperienze di lusso estremo al viaggiatore internazionale!

Il piano terra del department store ospiterà le sezioni Food&Wine e Gift&Fashion mentre all’interno della corte coperta sarà allestito un caffè con spazi dedicati alla vendita di prodotti enogastronomici del territorio e di manifattura locale. Il primo piano sarà dedicato a Fashion Accessories, il secondo ai “prodotti uomo” e all’area Watches&Jewels. Il terzo piano sarà occupato da un’area dedicata al beauty e alle fragranze e dalla sezione delle calzature.

Per allestire le “sale”, la cui superficie commerciale complessiva è di circa 8 mila metri, Fobert riempirà l’involucro del Fontego con scale mobili di legno e pareti trasparenti che fungono da divisori e vetrine espositive. “Abbiamo analizzato le stratificazioni del fondaco, così come i migliori esempi di design italiano dell'epoca d'oro”, ha detto il designer, “e abbiamo preso spunto anche dall'acqua e dai riflessi dei canali per ideare nuovi giochi di superfici e richiami alla natura della città”.

3. Come adeguare la città alle necessità del department store

La previsione di Andy Warhol si riferiva alle modalità espositive all’interno di un singolo museo. Ma se una città è un museo (come dicono con scherno gli sviluppatori che se ne appropriano) e un museo è un centro commerciale, per la proprietà transitiva è l’intera città che deve essere risistemata, allestita come un centro commerciale.

E forse è questa la visione a cui si ispira Schaus quando dice “restituiremo al Fontego il ruolo di centro d’incontro e di emblema della città …. lo trasformeremo in un luogo vivo, in una destinazione d’eccellenza, rafforzando la connessione storica della città tra cultura e commercio”.

In ogni caso il rapporto con la città è decisivo per garantire il successo dell’operazione che richiede la soluzione a problemi funzionali, primo fra tutti l’accessibilità. DFS non dice quanti clienti dovranno arrivare al Fontego perché l’investimento sia remunerativo (altrimenti possono farci causa, imporci una addizionale irpef o regalarci una sponsorizzazione), ma alcuni anni fa il gruppo La Rinascente aveva stimato non potessero essere meno di 6 milioni all’anno. DFS ha deciso di stipulare accordi con i tour operators cinesi dal momento che “i viaggiatori cinesi stanno aumentando e amano particolarmente fare shopping in città estere, dove i prezzi nel lusso sono mediamente inferiori del 30% a quelli praticati nella madrepatria”. Dal punto di vista quantitativo la questione è risolta, anzi diventerà realtà la battuta secondo la quale Venezia è una “bottega dove cinesi vendono a cinesi merci fatte da cinesi”.

Il problema, dal punto di vista di DFS, è piuttosto quello di garantire ai suoi clienti “un’esperienza di lusso” non solo all’interno del centro commerciale, ma durante l’intera permanenza a Venezia, o almeno nel percorso tra la stazione ferroviaria e il Fontego. Il che rende necessario allargare l’ambito di pertinenza del Fontego stesso. Già nel rendering allegato al progetto di Koolhas (vedi Il Ponte del Fontego su eddyburg) era chiara l’intenzione di inglobare il ponte di Rialto nel dominio del centro commerciale. Ma non basta, e quindi, se non si possono trasportare i clienti in elicottero sul tetto terrazza (non ancora) o chiudere il Canal Grande al trasporto pubblico e cederlo a DFS (non ancora) non c’è altra soluzione che rendere meno squallido il percorso a piedi.

A questo ha provveduto il commissario Zappalorto che, tra i suoi ultimi atti, ha approvato una delibera contro il degrado, non in tutta la città, ma giustappunto solo lungo il tragitto dalla stazione al Fontego! Il risultato sarà che i banchetti non verranno eliminati (gli abusivi e i commercianti esentasse votano) ma semplicemente si sposteranno per non deturpare l’esperienza di chi va a fare shopping al Fontego.

È un ulteriore segnale di come il falso dibattito sul numero di turisti sostenibile verrà risolto con una zonizzazione della città in funzione del loro potere d’acquisto. Tale zonizzazione può essere così schematicamente descritta: isole della laguna destinate a alberghi a sette stelle; le aree attorno a Piazza San Marco, Rialto e stazione trasformate in recinti commerciali tra loro connessi da “corridoi” riservati; la zona dal ponte dell’Accademia alla Salute e il territorio sempre più vasto occupato dalla Biennale ceduti al cosiddetto turismo d’arte. Lo spazio residuale al di fuori di questi compound più o meno fortificati, sarà lasciato ai cittadini superstiti che se lo contenderanno con il “turismo straccione”.

Le fotografie del signor Rosso, padrone del marchio Only the Best, che si arrampica sorridente sulle impalcature del cantiere per il restauro del ponte di Rialto campeggiano... (segue)

Le fotografie del signor Rosso, padrone del marchio Only the Best, che si arrampica sorridente sulle impalcature del cantiere per il restauro del ponte di Rialto campeggiano in prima pagina. Il signor Rosso non è il direttore dei lavori, né un pubblico funzionario incaricato di verificarne l’andamento, è lo sponsor di un intervento che viene presentato come il prototipo della collaborazione fra pubblico e privato per rendere l’Italia più bella e appetibile.

I primi contatti fra Rosso e l’ex sindaco Giorgio Orsoni risalgono al 2011. Nel 2012 il costo del restauro era ipotizzato fra i 5 ed i 7 milioni di euro. Il comune ha quindi indetto un bando, con base d’asta di 5 milioni, ed è giustappunto per tale cifra che Rosso, convinto che “quando si crea profitto è giusto darne una parte ai beni culturali e alla società”, si è aggiudicato la gara per la sponsorizzazione.

Nelle numerose interviste che ha concesso in questi giorni, il nostro mecenate, che ha appena ricevuto una laurea honoris causa in economia aziendale e che certo non eccede in understatement, ha ribadito di non avere nulla in cambio della sua generosità. “Qui regaliamo bellezza ha detto! ma le controprestazioni previste nel contratto firmato nel 2013 (“non va dimenticato che stiamo parlando di imprenditori e quindi un tornaconto deve esserci”, spiegò l’allora assessore ai lavori pubblici Alessandro Maggioni) non sono poche, né di poco valore. Esse prevedono:

1. la “brandizzazione” dei vaporetti, cioè la facoltà di personalizzare la struttura (fiancate e tetto) di due vaporetti delle linee in servizio lungo il Canal Grande per 730 giorni;

2. affissioni sull’assito di cantiere, nella parte affacciata verso l’esterno, cioè verso i due lati del Canal Grande, per i 18 mesi di durata dei lavori, per una superficie di 120 metri quadrati. La “personalizzazione” potrà interessare anche altre strutture di servizio pertinenti al cantiere, collocate nei dintorni del ponte, fino ad un totale di 180 metri quadrati;

3. proiezioni “artistiche”, anche personalizzate con logo ed elementi di comunicazione dell’azienda sulla struttura del ponte. Le proiezioni potranno essere effettuate in 4 turni di 7 giorni, anche in coincidenza con eventi pubblici della città o con eventi privati che l’azienda potrà organizzare a Venezia nel periodo considerato. La prima servirà a pubblicizzare una mostra allestita dall’azienda in occasione della prossima Biennale d’Arte;

4. personalizzazione di 2 imbarcaderi dei vaporetti mediante l’installazione di 4 banner della dimensione di 200x260 centimetri ciascuno che potranno essere esposti in quattro turni di 14 giorni ciascuno;

5. utilizzo, per l’organizzazione di eventi privati aziendali, delle seguenti “location”:
- Ca’ Vendramin Calergi, sede del Casinò di Venezia: 4 volte;
-Teatro La Fenice: 2 volte;
-Ca’ Rezzonico, sede del Museo del Settecento Veneziano: 2 volte;
- Palazzo Ducale: 2 volte;
- Piazza San Marco: 1 evento personalizzato e connotato da comunicazione dell’azienda, che, però, dovrà mantenere “una seppur parziale connotazione di evento pubblico”!
6. una serie di benefit durante i “grandi eventi veneziani” (Carnevale, festa del Redentore, Regata Storica, capodanno a Venezia), cioè la possibilità di allestire un “temporary store” della grandezza massima di 5 x 5metri in un luogo di massimo passaggio del centro storico, per una durata di 14 giorni in coincidenza con ognuno degli eventi e di godere di un certo numero di posti riservati, durante i grandi eventi. Più in dettaglio, questa “hospitality” prevede:
- a carnevale, 10 posti per una delle cene ufficiali (“dinner show”) presso Ca’ Vendramin Calergi e 10 accessi ogni giorno nell’area parterre del “Gran Teatro” di Piazza San Marco;
- alla festa del Redentore, 10 posti alla cena di gala ufficiale a Palazzo Ducale;
- alla Regata Storica, 10 posti per assistere alla manifestazione sulla tribuna delle autorità.
All’azienda viene, inoltre, concesso di utilizzare la definizione di “sponsor unico” dell’intervento di restauro, di utilizzare immagini del monumento, di installare permanentemente sulla struttura del ponte di Rialto una targa a imperitura memoria del mecenate.
Una stima del valore di mercato di queste controprestazioni non è allegata al contratto. L’ex sindaco Orsoni, che è anche ordinario di diritto commerciale del turismo, si è dimenticato di fare due conti e comunicarceli, né ci ha detto se e quanto il regalo ci costerà in futuro.

Nel novembre 2014, prima ancora dell’inizio dei lavori, il costo del restauro è “lievitato” a 5 milioni e 200 mila euro. Ciò comporterà “un piccolo prelievo per le casse pubbliche”, ha scritto con un tono di benevola comprensione il Corriere del Veneto. Proprio oggi, in contemporanea con l’inaugurazione in stile cafonal-chic del cantiere, il comune ha annunciato che quest’anno non ci sono risorse per i centri estivi. Mancano 150 mila euro e 4 mila bambini resteranno a casa.

Oltre che sulla iniqua distribuzione di costi e benefici fra pubblico e privato, che ormai non fa più notizia, il restauro del ponte dovrebbe far riflettere anche sul progetto di città al cui interno si situa e del quale è un importante elemento. Il cantiere, infatti, si trova a pochi metri da quello del Fontego dei Tedeschi che il gruppo Benetton sta trasformando in centro commerciale. La contiguità delle due operazioni non è solo fisica, come è bene messo in evidenza dai modelli predisposti dallo studio di Rem Koolhaas. Oggettivamente, l’intervento sul ponte non solo valorizza l’area intorno al Fontego, ma veicola l’immagine del ponte come suo accesso. Forse non l’ha chiesto Benetton, ad onor del quale va riconosciuto di non aver mai rivendicato l’etichetta di mecenate - il titolo gli era stato conferito a sua insaputa dall’ex sindaco Massimo Cacciari - ma è certo che ogni suo investimento immobiliare in città è stato accompagnato da una apposita opera pubblica, a partire dal ponte di Calatrava che collega la stazione, anch’essa trasformata in centro commerciale, al terminal automobilistico.

Ma, purtroppo su questi temi la città tace. Nessun candidato alle imminenti elezioni li menziona, né tanto meno si impegna a far affiggere all’ingresso del comune la targa “non si accettano regali”.

“Salta il bilancio del comune di Venezia. Il commissario Zappalorto vara un piano lacrime e sangue fino al 2018” e “Il comune cede alla Biennale l’uso perpetuo dell’Arsenale Sud” sono i due... >>>

“Salta il bilancio del comune di Venezia. Il commissario Zappalorto vara un piano lacrime e sangue fino al 2018” e “Il comune cede alla Biennale l’uso perpetuo dell’Arsenale Sud” sono i due odierni dispacci dal fronte veneziano. Domenica arriverà Renzi e avrà modo di congratularsi con il commissario che, non potendo far rinviare ulteriormente la data delle elezioni, sta accelerando la sua missione, che è di lasciare terra bruciata e nessuna possibilità di scelte politiche autonome al prossimo sindaco.

Le cifre circa l’entità del buco nel bilancio del comune cambiano in continuazione perché, forse, per avere i dati veri bisognerebbe disarticolare le varie voci da cui hanno origine i “nostri” debiti, prime fra tutti sprechi e rischiosi investimenti in derivati, grandi opere e grandi regali ai mecenati. Invece si preferisce comunicare il totale, che oggi ammonterebbe a 65 milioni di euro. E’ solo una coincidenza, ma poche settimane fa, propagandando il carnevale “il brand italiano più conosciuto al mondo, un valore aggiunto che ha il preciso obiettivo di valorizzare l’economia della città in periodo invernale”, Piero Rosa Salva, il presidente di Vela s.p.a (società partecipata del Comune e del Casinò per organizzare eventi e il marketing cittadino) ha detto che il flusso di denaro speso dai turisti durante il carnevale è “un affare da 70 milioni in due settimane” e che gli pareva quindi “anacronistico pensare ad una eventuale abolizione di eventi di questo genere”. Il presidente Rosa Salva, che nel 2014 ha avuto un premio aggiuntivo di 10 mila euro, può stare tranquillo. Nessun contributo di solidarietà verrà chiesto ai beneficiari dei 70 milioni del carnevale.

Secondo il piano del commissario, infatti, per sanare il debito bisognerà che i costi dei servizi siano interamente coperti dagli utenti, il che da un lato significa che chi paga le tasse pagherà i servizi due volte, dall’altro che chi incamera il denaro speso da milioni di turisti continuerà a godere di un regime di “vacanza” fiscale. Al commissario questo non interessa, lui è qui per “sanare” il bilancio, e del resto nemmeno i candidati sindaco osano mettere in discussione lo slogan secondo il quale il turismo è la nostra (?) industria più preziosa. Ammesso che sia un’industria, bisognerebbe almeno specificare che si tratta di un’industria estrattiva, che di per sè non produce nulla, se non materiale di scarto. E che il suo successo, come quello di una qualsiasi industria estrattiva, si basa sulla disponibilità di materie prime a costo zero- che sia carbone, caffè o una città d’arte fa poca differenza purché distribuisca dividendi agli azionisti - lavoro poco qualificato e poco retribuito, e licenza di scaricare le esternalità negative, ambientali e sociali, sul territorio. Nel migliore dei casi, gli aspiranti sindaco ventilano l’ipotesi di far pagare “qualcosa in più” ai turisti (cioè di alzare il prezzo del prodotto per l’acquirente finale) ma nessun serio piano di contrasto all’evasione fiscale del settore è previsto. Far affiggere il reddito dichiarato alla vetrina di bar e ristoranti o suonare i campanelli alle migliaia di strutture ricettive non autorizzate, tutte agevolmente localizzabili nei siti internet, sono operazioni tecnicamente fattibili; il problema è che le “categorie” locali votano e le multinazionali sono esentasse, per definizione.

Oltre ad aumenti di tributi e tariffe, il piano di rientro del debito prevede una nuova tornata di svendite e cessioni di immobili e beni comunali. È un ramo nel quale il commissario si è già molto impegnato nei mesi scorsi con una serie di iniziative, dalla consegna del Lido al fondo immobiliare Hines al cambio d’uso delle Procuratie Vecchie in piazza San Marco a vantaggio delle Generali, che avranno ripercussioni pesanti e non reversibili per la città. Oggi, ignorando le motivate proteste dei molti comitati a difesa dell’Arsenale bene pubblico, ha rinnovato e ampliato la concessione alla Biennale. Non solo la durata della concessione diventa, di fatto, perpetua, ma la Biennale potrà concedere in uso a terzi gli spazi avuti dal comune. Ovviamente, nessun corrispettivo verrà alla città, a parte qualche milione di turisti.

Privatizzazione dei beni pubblici, regali ad astuti investitori e sedicenti benefattori, tagli e tasse per i cittadini annichiliti non si verificano solo a Venezia. Qui, però, la sproporzione tra il flusso di denaro in transito e la miseria delle casse del comune ha raggiunto dimensioni tali da farne un caso da “manuale”, una best practice di una prospera economia di rapina.

Lo saranno anche...>>>

Lo saranno anche dopo le elezioni? I disegni ed il rendering della tettoia che verrà collocata all’arrivo del tram a piazzale Roma, “porta automobilistica della laguna”, hanno suscitato molti commenti negativi sull’aspetto della struttura, il cui progetto è stato approvato dal commissario straordinario che governa la città. Si tratta di una piastra d’acciaio lunga 32 metri, poggiante su un’unica colonna centrale per “evocare una T nel paesaggio”. Sarà di colore grigio scuro, in conformità alle richieste della Sopraintendenza che lo ha voluto “in tinta” con il vicino nuovo palazzo di Giustizia, il cui rivestimento in rame “ invecchia malamente” e, invece di assumere la tonalità del metallo ossidato, è diventato grigio fumo.

Le più o meno futili discussioni sull’aspetto della pensilina, che verrà installata nei prossimi giorni, hanno distolto l’attenzione dall’intreccio di vicende, a scala nazionale e locale, di cui essa è, per il momento, l’ultimo atto.

Il tutto ha inizio nel 2002, quando la legge finanziaria predisposta dal ministro Tremonti ha imposto alle società di trasporto locale lo scorporo della parte infrastrutturale dalla erogazione dei servizi. La logica del provvedimento è simile a quella che ha portato allo smantellamento delle Ferrovie dello Stato. E simili sono i risultati: da un lato riduzione delle risorse per il servizio di trasporto, il che significa meno manutenzione dei mezzi, minor numero di corse, aumento delle tariffe; dall’altro grande impulso allo sviluppo immobiliare delle stazioni cedute a privati investitori.

Per effetto di tale legge, nel dicembre 2003, ACTV l’azienda comunale di trasporto pubblico di Venezia è stata scissa in due. E’ stata creata PMV s.p.a società del Patrimonio per la Mobilità, alla quale è stata conferita la proprietà di tutti i beni costituenti le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali destinate all'effettuazione del trasporto pubblico: gli approdi del servizio di navigazione - pontoni galleggianti, passerelle d’imbarco e pontili fissi in calcestruzzo-, le pensiline di fermata del servizio bus in terraferma, nonché i depositi dei mezzi e le relative aree di parcheggio. Da allora PMV affitta questi beni ad ACTV, e periodicamente minaccia di impedirne l’utilizzo ai mezzi di trasporto pubblico se non verranno alzati i canoni.

Nella stessa operazione di scissione del 2003, ACTV ha conferito a PMV anche il ramo di azienda denominato "Progetti Speciali" nel quale rientra il progetto per la realizzazione del “sistema tranviario su gomma a guida vincolata per la città di Mestre Venezia”.

Il tram era fortemente voluto dall’allora sindaco Paolo Costa (già ministro dei Lavori Pubblici ed attuale presidente dell’Autorità Portuale, nonché paladino delle grandi navi in laguna) che lo vedeva come la “spina dorsale” di una città che ha il suo fulcro nell’aeroporto e nei milioni di turisti che vi sbarcano. Nel 2004, inaugurando il cantiere della prima linea tra Mestre e Marghera ha detto, “ spero che ne vengano aggiunte altre, in particolare quella sino a Tessera, che potrebbe poi continuare, con la sublagunare, all'Arsenale. Un giorno, non molto lontano, con un unico mezzo si potrà arrivare dal centro di Venezia in aeroporto, in stazione a Mestre o a Marghera”.

I successivi sindaci hanno continuato ad appoggiare il progetto del tram, sebbene ognuno con motivazioni diverse e con diverse ipotesi di percorso. Per Massimo Cacciari era funzionale allo sviluppo del cosiddetto Quadrante Tessera, una gigantesca speculazione immobiliare adiacente all’aeroporto, e per sostenere la candidatura di Venezia alle Olimpiadi del 2020. Giorgio Orsoni non aveva un preciso disegno territoriale nel quale inserire il tram. Si limitava a valutarne le potenzialità nella contrattazione con i privati investitori che sperava di attrarre. Così, propose di modificare il percorso già approvato per far arrivare il tram davanti al Palais Lumière, la torre che Pierre Cardin voleva costruire a Marghera.

In ogni caso, era chiaro a tutti che per i cantieri del tram servivano molti soldi. Si è così deciso di alienare il deposito degli automezzi ex ACTV in via Torino, un’area di oltre trentamila metri quadrati in posizione strategica in prossimità dell’imbocco del ponte della Libertà. Inizialmente si è parlato di metterlo all’asta partendo da una base di 14 milioni di euro, ma poi, nel 2012, lo si è ceduto per 9 milioni ad un privato per realizzare un supermercato, una torre commerciale/residenziale e un parcheggio a raso. Il progetto, ha spiegato l’assessore Ezio Micelli, “tiene insieme tre elementi: sobrietà, complessità e qualità e punta sulla ricchezza funzionale dell’impostazione di fondo… è un intervento da tempo atteso, sia per ragioni di natura sociale, visto lo stato di abbandono e di degrado dell’area, che ambientali, essendo necessaria una bonifica, non solo da materiali inquinanti, ma anche da possibili residuati bellici”.

La torre, alta 75 metri e denominata Hybrid Tower Mestre, è ora finita. Come dicono gli opuscoli pubblicitari, “da una parte si potrà contemplare la laguna di Venezia e il campanile di San Marco, dall’altra la conurbazione mestrina e, sullo sfondo, le dolomiti con la neve”. Secondo il progettista, Flavio Albanese, il ristorante panoramico negli ultimi piani dovrebbe diventare “il vero locale appeal di Mestre, in grado di richiamare migliaia di persone, solo per farci un giretto dentro, come avviene nelle metropoli. La torre, inoltre, potrebbe essere un grande totem, che di volta in volta pubblicizza eventi, segno distintivo della città… è il nuovo simbolo della Mestre del ventunesimo secolo, il primo elemento della Mestre verticale”.

Ora che il tram è arrivato a piazzale Roma - il ritardo di alcuni anni rispetto ai programmi non ha impedito ad Antonio Stifanelli, presidente di PMV, di ricevere, per il 2014, un premio di 50.000 euro- ed il grattacielo a Mestre è finito, nuovi progetti sono in vista. Dopo aver realizzato enormi pontili a San Marco e al Lido -più diminuiscono le corse più si ampliano le stazioni alle fermate - PMV vorrebbe costruire una grande stazione di interscambio a Mestre, in piazza Cialdini. Ovviamente, le risorse necessarie dovrebbero provenire dalla vendita di immobili comunali. A questo dovrà provvedere la prossima amministrazione comunale e stupisce che nessuno dei candidati si pronunci sulla questione, preferendo promettere crescita e sicurezza. Intanto, l’unica cosa certa è che, grazie al tram, chiamato anche “siluro rosso”, forse per evocare un’analogia con i freccia rossa, verranno sospese o ridotte le corse di alcune linee di autobus.

«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia...>>>

«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia e fortunato proprietario di Poveglia, l’isola della laguna che si è aggiudicato nel 2014 per 513 mila euro, annunciando la sua candidatura a sindaco per il centrodestra. Non ha spiegato cosa intende fare se il Mose non funziona - forse dà per scontato che se lo terranno in carico i cittadini contribuenti - ma, a riprova del suo impegno per la rinascita della città, ha aggiunto che vuole una fermata della TAV a Mestre e che «non cederemo» le grandi navi a Trieste. Infine, con perfetto piglio renziano, ha concluso l’elegante comizio rammentando al pubblico che «è ora di mostrare gli attributi».

Brugnaro è uno degli imprenditori/mecenati di riferimento dell’ex sindaco Cacciari, durante la cui amministrazione ha fatto molti “regali” alla città. Nel 2005 ha acquistato dal demanio i Pili, 40 ettari a Marghera, in posizione strategica di fianco al ponte della Libertà, per 5 milioni di euro. In quell’occasione, il comune ha rinunciato al diritto di prelazione sull’area, che il piano regolatore destinava a verde pubblico urbano, parcheggi e attrezzature ad uso collettivo, sostenendo di non avere le risorse per bonificare i terreni. In realtà, neanche Brugnaro intendeva usare soldi suoi, e nelle molte tavole rotonde sulla cosiddetta Green Economy, organizzate dalla Fondazione Pellicani (presieduta dal candidato alle primarie del PD sponsorizzato dallo stesso Brugnaro e da Cacciari) ha sollecitato l’intervento del comune, della regione e del governo per «rivedere il protocollo per le bonifiche» e ridurre gli oneri per i privati.

L’area non è stata ancora bonificata e dati certi sul suo inquinamento non sono disponibili. Secondo le inchieste svolte da Felice Casson, quando era magistrato a Venezia, nel sito dei Pili erano sono stati scaricati «300.000 metri cubi di gessi e fanghi industriali speciali e tossico nocivi».

A chi gli ha chiesto come intenda affrontare il suo palese conflitto d’interessi, Brugnaro ha spiegato che, se eletto sindaco, «non farà niente sulle sue aree»! E ha aggiunto di non avere conflitti d’interesse nemmeno a Venezia insulare dove, nel 2009, il comune ha concesso la gestione per 42 anni e due mesi, in cambio del restauro (esclusi i preliminari interventi di risanamento conservativo già effettuati dal comune), la Scuola Grande della Misericordia ad una società di cui il candidato sindaco possiede l’80% delle quote.

Con procedura “inusuale”, il comune ha inserito nella convenzione del 2009 il proprio impegno a sottoscrivere la fidejussione per l’accensione del mutuo necessario a finanziare i lavori. Per cinque anni, però, la società non ha neppure avviato i lavori, preferendo affittare per eventi il prestigioso complesso del Sansovino. Si tratta di un edificio alto 24 metri, il più alto nel sestiere di Cannaregio, con due grandi sale di 1000 metri quadrati, una dimensione inferiore solo a quella della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, molto appetibili per le cerimonie dei ricchi. Così, oltre ad ospitare alcuni eventi collaterali della Biennale, ha fatto da cornice al matrimonio di Zoppas, presidente della Confindustria del Veneto, a quello della figlia di un magnate indiano del ferro, alle feste della famiglia Asscher (import/export di diamanti). In queste occasioni, che hanno spesso comportato l’occupazione abusiva dei circostanti spazi pubblici, il comune ha concesso deroghe ai limiti dei rumori e degli orari. Non ha, invece, reclamato il pagamento da parte della società privata di penali e sanzioni per il ritardo nei lavori .

Nel 2013, durante l’amministrazione del sindaco Orsoni, alcuni consiglieri del M5S hanno inutilmente cercato di eliminare la fidejussione di 1 milione di euro dagli obblighi del comune e di ridiscutere l’intera convenzione contestando la natura “culturale” dell’utilizzo effettivo da parte di Brugnaro e soci (uno dei criteri per l’assegnazione della concessione era stata la qualità del progetto culturale, che valeva il 25% del punteggio complessivo) ma l’assessore Maggioni e il vicesindaco Sandro Simionato hanno fatto approvare il documento perché «arriva dalla passata amministrazione e il comune deve onorare gli impegni».

Nel 2014 sono finalmente iniziati i lavori. Ora si parla di un “moderno centro polifunzionale a servizio della città”, di uno “spazio pubblico a forte vocazione culturale, dove si alterneranno attività museali, mostre temporanee, sfilate di moda, degustazioni enogastronomiche, eventi fieristici o sportivi”, di “un contenitore flessibile dove esporre le eccellenze venete, dalle scarpe di Vicenza al vetro di Murano, per incrociare l’Expo”.

In città si dice che a suo tempo Brugnaro ha votato Cacciari ed ora Cacciari voterà per lui, riuscendo ancora una volta a far fuori Casson. Purtroppo non si tratta solo di odio personale, la posta in gioco è il mantenimento del sistema di potere messo in piedi venticinque anni fa con la prima elezione di Cacciari di cui ogni giorno emergono i costi e i danni per i cittadini. Stupisce, si fa per dire, che il commissario che lotta contro il deficit di bilancio non chieda un contributo di solidarietà anche ai mecenati e ai loro protettori. Preferisce tagliare servizi, aumentare tasse e svendere il patrimonio pubblico. Prima di andarsene, potrebbe almeno provare a vendere il Calatrava ai cinesi, ammesso che siano disposti a farsi imbrogliare.

Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è Piazza San Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianeta sono ... >>>

Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è PiazzaSan Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianetasono di quelli che se ne appropriano.

1. LeProcuratie Vecchie torneranno a vivere
(La Nuova Venezia, 6 marzo 2015)

Il commissario straordinario Zappalorto ha firmato l’accordo con le AssicurazioniGenerali relativo alle destinazioni d’uso consentite nel complesso delleProcuratie Vecchie, una vicenda che si trascinava da molti anni (vedi PiazzaPulita su eddyburg). La parte già adibita a uffici e attività commerciali non subiràmodifiche, mentre nella parte del complesso attualmente libera, le Generali potranno destinare “il 70%degli spazi per scopi di interesse generale a carattere culturale, scientifico,di alta formazione, di tutela della salute e dell'ambiente, di sostegno socialeo per la promozione dell'immagine della Città di Venezia. Il restante 30% potràessere destinato ad uso privato come uffici o attività compatibili con lavocazione storico-artistica dell'edificio e con la sua ubicazione nell'areamarciana”.

Come corrispettivo a queste alquanto vaghe prescrizioni, al comuneverranno lasciati 640 metri quadri incomodato gratuito per vent’anni e sarà versata una tantum la cifra di 3milioni di euro. Si tratta di un accordo più svantaggioso per il comune perfinorispetto a quello previsto dal precedente sindaco Orsoni, che chiedeva 3000 metri quadri per trent’anni, ma ilcommissario è entusiasta perché “il leone delle Generali torna a San Marco conun progetto di rilancio della presenza a Venezia in un contesto architettonico…dove tornerà a pulsare l'eccellenza di un grande gruppo che arricchiràulteriormente il prestigio e il valore di tutta l'area marciana”. Ilcommissario si dimentica di dire che tale valore verrà incamerato dalleGenerali, che hanno accortamente aspettato che la città fosse sguarnita diun’amministrazione regolarmente eletta prima di sottoscrivere l’accordo.

Nel marzo 2014, le Generali avevano occupato la piazza con una installazione, un grande paio di occhiali che “sono la metafora dell'invito a guardare il presente e il futuro con ottimismo, perché vedere la vita con positività è il primo passo per migliorarla". Un anno dopo, possono rallegrarsi di aver visto bene.

2. Mongolfiera Vuitton a San Marco senza permessi: tre indagati

(Corriere del Veneto, 14 febbraio 2015)

L’articolo si riferisce a un episodio del giugno 2013. quando una mongolfiera è atterrata in piazza per girare uno spot pubblicitario della ditta Vuitton. Ora è emerso che nessuno aveva i permessi necessari (sopra Venezia non si può volare, se non con specifiche autorizzazioni). Il magistrato ha emesso tre decreti penali per un importo di 500 euro ciascuno (meno del prezzo di una borsa Vuitton!). Secondo il giornalista del Corriere, sul piano giudiziario è “una vicenda di non grande conto.

Ora spetterà ai tre indagati decidere se fare ricorso o pagare la piccola multa”… ma è più seria sul piano mediatico, perché vede “uno dei marchi di punta della moda mondiale, tirato in ballo per un banale permesso mancante all’atterraggio in uno dei salotti più belli del mondo”.

3. Piazza San Marco a pagamento e con prenotazione

(La Nuova Venezia, 2 marzo 2015)

E’ l’idea lanciata da un “consulente turistico” partendo dall’assunto che “il numero chiuso a Venezia non è praticabile, oltre che per ovvie difficoltà, per la libera circolazione dei cittadini prevista dalla normativa internazionale, ma sarebbe invece possibile attuarlo, in determinate circostanze in Piazza San Marco, considerandola per quello che ormai è: un’area museale e monumentale”.

La proposta è stata recepita con interesse dai candidati sindaci che, senza soffermarsi sui dettagli tecnico-giuridici – ci saranno recinzioni, tornelli, vigilantes? – probabilmente pensano che se la piazza è “ormai è un’area museale”, una volta eletti, la potranno privatizzare, portando a compimento il processo di cessione delle cosiddette risorse culturali che negli ultimi mesi, durante la gestione commissariale, ha avuto una straordinaria accelerazione, inclusa la stipula di una convenzione tra i musei civici di Venezia e la Fondazione del Sole 24 Ore. La fondazione, pagando 80 mila euro per 4 anni (circa 600 euro al giorno), gestirà le mostre d’arte, tenendosi tutti gli incassi, e potrà anche organizzare travelling exhibitions, cioè portare in giro i quadri dei musei veneziani. Al comune, cioè ai cittadini contribuenti, restano le spese di guardiania e manutenzione delle sedi.

Mentre le prime pagine dei quotidiani locali descrivono le “eccezionali” misure antiterrorismo adottate per “blindare” piazza San Marco in occasione del Carnevale...>>>

Mentre le prime pagine dei quotidiani locali descrivono le “eccezionali” misure antiterrorismo adottate per “blindare” piazza San Marco in occasione del Carnevale, il Sole 24 ore sobriamente ci informa che, in data 30 gennaio 2015, la sussidiaria italiana di Hines, un colosso immobiliare di Houston, ha perfezionato il subentro nella gestione del fondo Real Venice ed è finalmente sbarcata in laguna.

Il fondo era stato costituito nel 2009 dalla giunta del sindaco Cacciari e dato in gestione a Est Capital, società di investimento presieduta da Gianfranco Mossetto, già assessore al turismo e alla cultura della stessa giunta Cacciari. Il portfolio di Est Capital si è poi arricchito con l’acquisizione dei due grandi alberghi del Lido, Excelsior e Des Bains, e dell’Ospedale al Mare, venduto per finanziare la costruzione, mai avvenuta, di un nuovo palazzo del cinema.

Propagandato dalla giunta Cacciari come “strumento d’investimento innovativo”, il fondo non ha prodotto i profitti auspicati e nel 2103 Est Capital ha deciso di restituirlo al comune, che avrebbe di conseguenza dovuto “incamerare” una perdita di 41 milioni. Nello stesso periodo Est Capital ha anche abbandonato i progetti di valorizzazione del compendio dell’ospedale al mare che, dopo una serie di passaggi di proprietà, è stato ceduto dalla Cassa Depositi e Prestiti. Subito dopo l’acquisizione dell’area, la cassa depositi e prestiti ha siglato un accordo preliminare con Hines per “ promuovere un piano di rigenerazione del Lido che veda pubblico e privato impegnati insieme nel favorire un progetto esemplare di riqualificazione del territorio”. Dopo di che Hines ha accettato di subentrare anche in Real Venice.

Il punto di vista di Hines è perfettamente descritto da Manfredi Catella, azionista e amministratore delegato della società. “Venezia è una città straordinaria che può ritrovare nel Lido un motivo di orgoglio e di sviluppo economico. L’impegno che abbiamo assunto dopo oltre un anno di lavoro ci rende consapevoli della complessità e delicatezza del patrimonio storico del fondo Real Venice e della responsabilità nei confronti degli investitori, del ceto bancario e della comunità lidense e della città di Venezia.. l'isolamento del Lido diventerebbe il suo punto di forza. Un posto dove trionferebbero le auto elettriche, le biciclette, il verde e il benessere… Si tratta di un’operazione di riordino e di valorizzazione che può trasformarsi in uno degli esempi pilota più importanti in Italia di riqualificazione territoriale e turistica in collaborazione con il Governo, con Cassa Depositi e Prestiti e con le autorità ed istituzioni locali”.

Quindi, per la predisposizione di un piano di “rigenerazione del Lido che veda pubblico e privato impegnati insieme, Hines ha creato un gruppo di progettazione che comprende Christopher Choa, che si è occupato delle aree occupate dalle Olimpiadi di Londra ed è uno dei più accesi sostenitori di aerotropolis (una città attorno ad ogni aeroporto) e Vittorio Gregotti. Il gruppo è al lavoro.

Se per molti versi la vicenda assomiglia ai tanti casi di svendita e distruzione del patrimonio pubblico messi in atto dai nostri governanti, fornisce anche lo spunto per riflettere su alcune altre questioni, fra le quali il ruolo del commissario prefettizio e l’assenza di una amministrazione democraticamente eletta; la sinergia/complicità fra governo locale e governo nazionale, l’avallo delle archistar.

L’accelerazione che il processo ha avuto durante la gestione commissariale del comune è coerente con la volontà di rafforzamento del turismo annunciato dal Fondo strategico Italiano di Cassa depositi e prestiti, ed in particolare dal nuovo Fondo investimenti per il Turismo (che ha messo le mani a Venezia sulle ex Carceri di San Severo a Castello, sull'isola di Sant'Angelo della Polvere, l'isola che sorge il canale Contorta; e l'ex casotto di San Pietro in Volta) e non si può escludere che uno degli obiettivi del commissariamento fosse proprio “snellire e velocizzare” la privatizzazione della città.

Infine, il già ricco catalogo di grandi firme dell’architettura come fiancheggiatori delle multinazionali dell’investimento immobiliare si arricchisce di una pagina.

Al giornalista che lo intervistava, Gregotti ha detto “si tratta di luoghi e situazioni che conosco bene… il passo preliminare mi sembra quella di una riqualificazione urbanistica del Lido, sulla base delle sue mutate condizioni.. è necessario per il Lido pensare a una sorta di variante urbanistica a cui legare anche una nuova strategia di intervento, che comprenda, naturalmente, anche la riqualificazione dell’ex Ospedale al Mare, che sia recuperato a fini alberghieri o di servizio, in base a quello che si riterrà più opportuno”.

L’architetto non specifica chi dovrà decidere quello è più opportuno. Speriamo si ricordi di quanto ha scritto in “Venezia città della nuova modernità” (pubblicato nel 1998 dal Consorzio Venezia Nuova): “utilizzare un contesto storico eccezionale per costruire una vita normale e non normalizzare la città per omologarne la somiglianza a tutte le altre”.

Se trent’anni fa gli abitanti di Venezia potevano ancora sperare di essere in grado di resistere all’occupazione della loro città ... >>>


1. La fiaba dell’esodo.

Se trent’anni fa gli abitanti di Venezia potevano ancora sperare di essere in grado di resistere all’occupazione della loro città, ora è chiaro che abbiamo perso la guerra. Non si capisce, quindi, il tono sconsolato degli articoli apparsi in questi giorni sulla stampa quotidiana che, come ad ogni inizio d’anno, ci informano che Venezia continua a “perdere” abitanti. “Purtroppo, l’esodo è inarrestabile e inesorabile”, dicono, alimentando la rassegnata convinzione di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale e incontrastabile.

In realtà, non c’è niente di naturale nel ricambio selettivo della popolazione, un fenomeno che ha stravolto molte città, ma che a Venezia ha assunto le dimensioni di una vera e propria deportazione di massa, ed è il risultato di politiche intenzionalmente perseguite le cui tappe sono ampiamente documentate.

Si è cominciato con la distruzione e/o la svendita dell’edilizia pubblica, che hanno dissolto uno dei più ingenti patrimoni di edilizia popolare esistenti in Italia, frutto delle lotte operaie condotte all’inizio del secolo scorso. Tra i molti esempi, il cosiddetto “progetto Giudecca” è un caso da manuale di come una pubblica amministrazione possa operare per consentire alle agenzie immobiliari di mettere un intero sestiere sul mercato con lo strillo pubblicitario che “è come stare a Brooklyn e vedere Manhattan”! La indiscriminata chiusura di pubblici servizi e una tassazione punitiva per chi abita, associata ad una evasione fiscale protetta se non incoraggiata per gli altri, hanno poi reso sempre più faticoso e costoso per un normale cittadino continuare a vivere a Venezia.

Adesso siamo nello stadio finale e i vincitori si apprestano a far fuori i pochi rimasti. Da qualche tempo, una serie di imprese sponsorizzano i bidoni che i cittadini veneziani pagano per raccogliere una parte delle imprecisata massa di rifiuti giornalmente prodotti dai turisti. Per lo più, i manifesti contengono banali avvisi pubblicitari. Nel caso dell’immobiliare CERA, però, si nota un’evoluzione del messaggio che, da semplice informazione, si è trasformato in aperta caccia alle case degli ultimi residenti. Un dito puntato ci minaccia e ci avverte che casa nostra è ricercata, WANTED!

Allo stesso tempo, ci bombardano con finti dibattiti sul numero chiuso, sul ticket di ingresso, sul turismo sostenibile, quando basterebbe confrontare due titoli di giornale, rispettivamente del 1987 “E Venezia stabilisce il numero chiuso” e del 2013 “Si pensa al numero chiuso di turisti”, per troncare tali ipocrite discussioni e riconoscere che numero chiuso, ticket e tasse di soggiorno, in realtà sono stati istituiti, ma solo per colpire i residenti.

2. Il ricambio selettivo della popolazione

L’unica cosa che possiamo fare adesso è adoperarci affinché la storia della guerra persa non venga scritta dai vincitori. Per questo è necessario comprendere e far comprendere che quello che è successo ai veneziani succede a tutti coloro che si trovano a vivere su una terra che può valere di più, a condizione che gli abitanti vengano spostati.

Nell’elenco dei lacci e laccioli che, secondo gli investitori ed i governi che ne curano gli interessi, devono essere rimossi per favorire la “crescita”, la voce “abitanti” non compare (per il momento) in modo esplicito. Ma, in un’epoca in cui i cittadini sono trattati come un ostacolo all’esercizio del potere e vengono programmaticamente privati dei diritti di cittadinanza, non stupisce che gli abitanti siano considerati un ostacolo allo sviluppo delle economie urbane. Dalla rapina delle terre fertili a danno dei contadini di Africa, Asia, America Latina, alla distruzione di villaggi e comunità per la realizzazione di infrastrutture, allo sgombero di abitanti il cui potere di acquisto non è coerente con il tipo di consumatore auspicato per il loro quartiere e città, ogni giorno gruppi di popolazione devono abbandonare i loro territori per consentire un più intenso sfruttamento delle risorse che vi si trovano.

Rendersi conto della pervasività di tale fenomeno aiuta a capire il vero significato dello slogan, ormai diventato parte del lessico comune, secondo il quale le città devono competere per catturare investitori e clienti. Uno slogan accattivante quanto ingannevole, perché, per rimanere nella metafora agonistica, non dice che non tutte le città competono nello stesso girone. Al contrario esiste una rigida gerarchia tra i concorrenti, a seconda che si tratti dei centri finanziari di livello mondiale, dei luoghi dove si assumono le decisioni politiche che contano e di quelli dove si concentra la produzione dei beni che dobbiamo consumare. E in questa suddivisione internazionale del lavoro fra le città, a quelle italiane il ruolo di entertainment machine, parchi divertimenti a disposizioni delle multinazionali del tempo libero, il cui sfruttamento richiede una popolazione diversa da quella presente.

Qualche anno fa Michele Vianello, vicesindaco della giunta Cacciari e strenuo sostenitore di «un’economia del cambiamento», rivendicava il merito di aver assunto iniziative per far arrivare gli «abitanti ideali di cui ha bisogno Venezia per rinascere». I nuovi abitanti che «inseguiamo vanamente da tempo”, aggiungeva, “non sono genericamente il ceto medio, ma quelli che Richard Florida definisce la nuova classe creativa e Robert Reich gli analisti simbolici”.

Se non è chiaro chi siano gli analisti simbolici nella visione di Vianello, certo è che deve trattarsi di clienti con potere d’acquisto e disponibilità a spendere superiore a quelle di un normale abitante. Solo così si può raggiungere l’obiettivo che nei manuali di economia urbana si chiama the highest and best use of land e che nella versione nostrana è diventata l’equazione turismo come petrolio della nazione.

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