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4-8 settembre: un campeggio per sostenere un cambiamento radicale: assemblee e dibattiti sulla crisi climatica, grandi opere, estrattivismo, ecotransfemminismi, neocolonialismi e migrazioni forzate; il 7 marcia per la giustizia climatica.

Dal 4 all’8 settembre al Lido di Venezia si terrà il Campeggio sul Clima, organizzato dal Comitato No Grandi Navi e il Fridays For Future di Venezia per sostenere «Una rivoluzione che deve trasformare il nostro modello energetico (fuoriuscita dal fossile), il nostro sistema di gestione territoriale (stop alle grandi opere, al consumo di suolo, alla devastazione ambientale) e quello che regola il ciclo dell’alimentazione.»

Qui il programma del campeggio che prevede interessanti dibattiti:

Mercoledì 4 settembre: Crisi climatica, grandi opere, estrattivismo
con Alexander Dunlap (Norvegia): studioso di ecologia politica, UiO, Center for Development And Environment e Emanuele Leonardi (Italia): Univesidade de Coimbra.

Giovedì 5 settembre: Crisi Climatica ed ecotransfemminismi
con Moira Millàn (Argentina), portavoce Mapuche, Ideologa e coordinatrice del "Movimiento Mujeres Indigenas por el Buen Vivir" e autorità ancestrale del "Lof Pillañ Mahuiza", Julie Coumau (Francia) ricercatrice e attivista antispecista e un'attivista dell' Assemblea Transterritoriale Terra Corpi e Territori Spazi urbani di Non Una Di Mena.

Venerdì 6 settembre: Crisi Climatica, neocolonialismi, migrazioni forzate
con Marco Armiero (Italia) direttore dell'Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma e Nnimmo Bassey (Nigeria), attivista climatico, autore e direttore della Health of Mother Earth Foundation.

Sabato 7 settembre si svolgerà il Corteo per la giustizia climatica.
Dal campeggio verso la Mostra del Cinema. In un giorno in cui gli occhi del mondo sono puntati sulla mondanità veneziana, ricordiamo a tutte tutti che il Cambiamento Climatico non è un soggetto da film di fantascienza, ma è la realtà che stiamo già vivendo, una spirale che il capitalismo estrattivo ha innescato e non vuole fermare. Noi, i movimenti per la giustizia climatica e i comitati contro le grandi opere, al contrario, saremo in strada ancora una volta per dire che c'è bisogno di invertire la marcia, di ridurre il riscaldamento climatico, di uscire dal fossile (in tutte le sue forme), di decolonizzare l'economia globale responsabile del dramma delle migrazioni climatiche, di rifiutare un sistema in cui la violenza sulla natura non umana si accompagna alle discriminazioni di genere, di combattere un modello di gestione territoriale legato a grandi opere inutili e dannose. Saremo in strada per tutti questi motivi e siamo intenzionati a portare le nostre ragioni nel cuore della Mostra del cinema.
Qui il link al sito con tutte le informazioni.
Bisogna tornare a pianificare, non per il profitto, ma per gestire l'uscita dal fossile e contenere il riscaldamento globale, convertendo l'economia e indirizzando investimenti alle energie e produzioni alternative locali, tassando patrimoni e aziende inquinanti. La risposta non è la green economy o le soluzioni tecnologiche. (i.b.)


In questo articolo sono bene sintetizzati alcuni principi per affrontare in maniera lungimirante ed equa la questione del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze. Cambiare si può, ma occorre una volontà politica che invece continua a sostenere gli interessi del mercato, dei poteri economici del profitto basato sullo sfruttamento ambientale e del lavoro. Questo mese abbiamo visto, con due manifestazioni nazionali - quella del 15 marzo e del 23 marzo - come movimenti studenteschi ed ambientalisti di giovani e meno giovani siano preparati a rivendicare una giustizia ambientale necessaria per dare futuro alle prossime generazioni. (i.b.)

I giovani di tutto il mondo si stanno muovendo. Il sorprendente intervento della giovane Greta Thunberg a Davos, sedicenne svedese piombata nel salotto buono dei pescecani della finanza mondiale, ha scosso le coscienze di centinaia di migliaia di giovani in Europa, chiedendo che si faccia qualcosa adesso per il loro e il nostro futuro.

L'obbiettivo posto attraverso il rapporto dell'IPCC (il tavolo scientifico intergovernativo dell'Onu sui cambiamenti climatici) alla comunità internazionale parla chiaro: occorre interrompere subito le emissioni di gas serra in particolare CO2 e metano, più Cfc e biossido d'azoto, pena una catastrofe ambientale di proporzioni tali da mettere in discussione non solo la fine della civiltà umana, ma la stessa sopravvivenza della vita sulla terra.

Se le emissioni attuali rimarranno nell'atmosfera questo produrrà dei cambiamenti climatici strutturali, riducendo terre fertili, foreste, modificando le coste e sommergendo grandi città.

Le dispendiose e penose conferenze internazionali come L'Accordo di Parigi del 2015 e l'incontro di Katowice del dicembre scorso sono stati piuttosto deboli nella determinazione e nelle decisioni sulla riduzione delle emissioni, lasciando alla buona volontà dei governi sia gli obbiettivi che il controllo delle tabelle di marcia. L'ostacolo principale sono ovviamente l'uso dei combustibili fossili, non solo il petrolio, ma anche metano e lignite per produrre energia elettrica e trasporti. Ormai sappiamo che le fonti di energia rinnovabile potrebbero essere la soluzione solo se gli ingenti investimenti in infrastrutture iniziassero a modificare la mobilità, ma anche il modo di produrre in agricoltura e industria.

Purtroppo le grandi corporation finanziarie hanno già rinunciato al "tutto elettrico" : lo dicono le conclusioni del rapporto presentato nell'aprile 2018 dalla JPMorgan, che si chiama “Pascal's Weger”, la scommessa di Pascal, ovvero se volete credere di poter fermare il cambiamento climatico potrebbe essere come credere in Dio, razionalmente non è possibile dimostrarne l'esistenza, ma aiuta a vivere pensare che sia possibile cambiare il nostro modello di produzione. Le corporations finanziarie mondiali punteranno solo sulla creazione di barriere di diversi metri di altezza intorno a New York, Calcutta, Los Angeles e altre grandi città costiere, contro l'innalzamento del livello del mare e per proteggere le infrastrutture. Una lunga gettata di cemento sulle coste, enormi Mose, che non è difficile immaginare inefficaci di fronte a uragani sempre più violenti e ad un innalzamento degli oceani inarrestabile.

Di fronte a questa sensazione di inadeguatezza della politica e della finanza internazionale stiamo assistendo invece ad una presa in carico delle responsabilità solamente da parte delle nuove generazioni: le manifestazioni belghe, ma anche quelle francesi, nei primi giorni di febbraio 2019 organizzate da una coalizione piuttosto giovane #generationclimatic (che si stanno diffondendo anche in Italia) hanno posto attenzione alla questione ambientale e alla decarbonizzazione dell'economia, con alcuni spunti originali.

Intanto far pagare ai ricchi i costi della transizione. Troppo vicina è la scottatura del popolo francese, che di fronte alla Carbon Tax di Macron sui carburanti diesel, ha rotto gli argini ed è scoppiata nella rivolta dei Gilets jaunes.

Per questo un documento belga, scritto a ridosso delle manifestazioni popolari dal Partie du Travail de Belgique, pone degli obbiettivi chiari. Riduzione del 60% di emissioni entro il 2030 (l'UE chiede agli stati membri una riduzione del 32%).

Costituire un solo ministero per clima, trasporti, energia, una banca per gli investimenti climatici finanziata con tasse sui grandi patrimoni e le aziende più inquinanti (centrali a carbone, cementifici e acciaierie). L'abolizione dell' ETS ovvero dei certificati "verdi". Il loro fallimento a livello europeo certifica in realtà l'impossibilità del sistema capitalistico di trasformarsi e preoccuparsi dell'interesse collettivo. La ricerca del profitto, ma anche l'aumento del prodotto interno lordo, sono incompatibili con l'ambiente e la sopravvivenza della civiltà umana.

Per questo occorre tornare ad una pianificazione forzata, che tenga conto anche della produzione locale e del controllo da parte dei municipi, delle comunità e delle cooperative: le energie alternative strutturalmente si prestano molto più facilmente all'auto consumo locale e al km0.

Meno convincenti sono le "soluzioni tecnologiche". Ogni proposta che va in quella direzione (riconversione dei trasporti col vettore idrogeno oppure mobilità tutta elettrica, piante OGM che catturano CO2, reti intelligenti, materiali riciclabili per l'isolamento termico in bio-edilizia, e recentemente la fusione nucleare) in se non sono idee sbagliate, ma non tengono conto della complessità intrinseca dei sistemi umani e naturali e delle ripercussioni che centralità produttiva e gigantismo tecnologico possono rivelarsi un boomerang, se isolate dai contesti locali.

Poi esiste la complessità della società umana: un esempio sono le auto a metano. Potenzialmente meno climalteranti, ad un costo al chilometrico più basso, si sono rivelate più climalteranti proprio perché vengono usate di più, proprio perché più ecologiche e perché hanno ricevuto incentivi cospicui producendo un numero di chilometri di percorrenza maggiore degli altri modelli. Stessa cosa avverrà, quando qualcuno ci spiegherà dove finiranno le batterie, con le auto elettriche, oppure se consideriamo il bilancio energetico complessivo dell'impronta ecologica nell'uso dei server che mettono in rete computer e telefonini. Il raffreddamento delle centrali di server ha superato il consumo di energia mondiale per autotrazione. La "Green economy", ovvero la tecnologia verde, nasconde bene i suoi problemi.

Proprio i rapporti scientifici sui gas serra ci raccontano che il bando di produzioni nocive in realtà ha spostato macchinari in Asia o America latina dove le leggi ambientali sono meno rigorose, rendendo difficile ridurre l'emissione climalterante a livello globale : recente il caso del Cfc, i gas killer dell'ozono, che nel 2010 hanno ricominciato a crescere .

Non possiamo fare niente allora? non possiamo salvarci dai cambiamenti climatici se dobbiamo combattere anche un modello di sviluppo che con grandi sofferenze ci ha portato fin qui? Oppure dobbiamo abbandonare tutto e gettarsi nel panico più assoluto?

Stime parlano di migrazioni di 1 miliardo e mezzo di persone che fuggiranno nei prossimi 100 anni dalla siccità, dalla fame e dalla sete, dai paesi più poveri e popolosi ai paesi del Nord Europa e Canada. La " rottura metabolica" tra uomo e natura raccontata da Marx e prodotta dal capitalismo e dall'industrialismo, dalla crescita e dal produttivismo, sta producendo un conto salato, che nessuno vuole pagare, meno che mai i giovani che erediteranno questa terra.

Essi chiedono invece alla politica di cambiare strada adesso, prima che sia troppo tardi, chiedono che la politica si trasformi in una grande operazione di soccorso, una protezione civile globale che agisca per mitigare da subito i bisogni immediati delle popolazioni che verranno colpite e che contemporaneamente porti avanti operazioni di riduzione forzata delle emissioni climalteranti, abbandonando le grandi opere inutili e grandi impianti a carbone : tra i primi 10 impianti industriali più inquinanti in Europa ci sono le centrali a carbone, di cui 7 tedesche, due polacche e una estone, ma l'undicesima è italiana, Torrevaldalica nord di Civitavecchia.

Per questo tutti i movimenti che si battono contro le grandi opere e per un cambiamento delle politiche energetiche ha lanciato un appuntamento il 23 Marzo a Roma, contro le Grandi Opere e i Cambiamenti climatici: iniziamo da qui. Iniziamo a chiudere.
Questo articolo é in uscita sulla rivista Grandevetro, trimestrale di immagini, politica e cultura.

21 marzo 2019. Nella giornata in ricordo delle vittime innocenti e dell'impegno contro le mafie organizzata da Libera, qui un'introduzione al fenomeno dell'ecomafia nel Nord Est, una mostruosa piovra che con i suoi tentacoli invisibili avviluppa l’economia e la politica. (i.b.)

La Mafia in Veneto, prende forma come crimine d’impresa con alleati preziosi dentro la Pubblica amministrazione che in certi contesti si è elevata a sistema, promuovendo e condizionando l’avvio di iniziative economiche impattanti per la comunità (quando non estremamente pericolose), di opere pubbliche infrastrutturali inutili e dannose come il Mose o la Pedemontana, forme occulte di abusivismo edilizio, autorizzazioni improprie o illegittime per l’esercizio di discariche.

Le recenti indagini della Procura distrettuale antimafia di Venezia, la guardia di finanza e la Polizia di Stato dimostrano che le cosche storiche si sono insediate anche nella regione Veneto, prendendo il controllo della criminalità e allacciando rapporti con l’imprenditoria e la politica.

I camorristi, insediati a Eraclea da oltre vent’anni, ottenevano il pizzo da imprese dell’edilizia e della ristorazione, controllavano il narcotraffico e la prostituzione e rifornivano le aziende di lavoratori in nero. Costituivano ditte destinate alla bancarotta e producevano false fatture. Insomma, avevano intrecciato stretti legami con l’imprenditoria locale, diventando protettori, dispensatori di favori e soci in affari.

È del 12 marzo 2019, la notizia di trentatré ordinanze cautelari verso gli appartenenti a un’organizzazione criminale di matrice ‘Ndranghetista operante a Padova e dedita alla commissione di gravi reati, tra cui, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, violenza, usura, sequestro di persona, riciclaggio, emissione e uso di fatture per operazioni inesistenti.

L’ecomafia é diventata un altro tassello fondamentale, spesso non considerato, nel grande puzzle dei danni ambientali. L’opaco binomio tra corruzione, mafia e saccheggio ambientale é una tra le cause principali degli effetti nocivi sul nostro territorio e sulla nostra salute. L’ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente indica che il fatturato dell’ecomafia è salito a 14,1 miliardi, una crescita dovuta soprattutto alla lievitazione nel ciclo dei rifiuti che è sempre di più il cuore pulsante delle strategie ecocriminali.

Le finte operazioni di trattamento e riciclo per ridurre i costi di gestione e per evadere il fisco sono tra le forme criminali predilette dalle organizzazioni di stampo mafioso. Lo smaltimento dei rifiuti è infatti un settore di grande valore economico gestito da funzionari pubblici e singoli amministratori che hanno un ampio margine di discrezionalità. Così, coloro i quali dovrebbero in teoria garantire il rispetto delle regole e la supremazia dell’interesse collettivo su quelli privati, creano l’humus ideale per le pratiche corruttive. L’aumento delle inchieste sui traffici illegali di rifiuti è anche all’origine dell’incremento registrato degli illeciti ambientali, di persone denunciate e dei sequestri effettuati.

Solo un anno fa abbiamo assistito all’inchiesta “Blood Money” del giornale napoletano Fanpage sul business del ciclo di rifiuti che, dalla Campania si sarebbe diramato al Nord, e riguardava un possibile affare legato allo smaltimento di rifiuti mediante una costruzione di un sito di stoccaggio a Marghera che avrebbe dovuto contenere rifiuti frutto di un sequestro degli anni 2004- 2005.

E ancora, il sequestro di due cave nel 2018, riempite di immondizia a Noale, in provincia di Venezia, e a Paese, in provincia di Treviso dove, anziché trattare i rifiuti, eliminando amianto e metalli pesanti si attuava una miscela con altri rifiuti, meno inquinati, aggiungendo calce e cemento per produrre un amalgama da usare nell’edilizia o nelle grandi opere stradali. Risultato: 280mila tonnellate di materiale contaminato da metalli pesanti e da amianto utilizzato per lavori come il Passante di Mestre, il casello autostradale di Noventa di Piave, l’aeroporto Marco Polo di Venezia e il parco San Giuliano di Mestre. Due giorni fa, il 19 marzo, nel Basso Vicentino è stato scoperto un capannone, di proprietà di un noto istituto bancario di livello nazionale, in cui erano illecitamente occultate circa 900 tonnellate di rifiuti non riciclabili derivanti anche da processi di lavorazione industriale.

Il Veneto non è nemmeno immune alle Agromafie, altro settore illecito in crescita, correlato ai fenomeni della contraffazione, del riciclaggio e del Caporalato. Nell’agricoltura e nell’allevamento il capolarato è una piaga che toglie dignità al lavoratore mediante abusi, sfruttamento e salari inferiori rispetto alle regolari tariffe del mercato. Le condizioni lavorative disumane a cui sono costretti i braccianti sono difficilmente denunciate per paura di perdere il lavoro. Ciò accade perché la posta in gioco per i lavoratori, molto spesso extracomunitari regolari, è troppo alta: avere un’occupazione è condizione imprescindibile per mantenere il permesso di soggiorno, per cui una denuncia potrebbe causare effetti ancora più gravi come il non riuscire più a rinnovare il permesso di soggiorno, in quanto per la legge Bossi-Fini per rimanere regolarmente in Italia è necessario avere uno stipendio.

Tre anni fa, nel veneziano, si era scoperta una baraccopoli in cui vivevano in condizioni sanitarie pessime alcuni braccianti bengalesi che lavoravano sette giorni su sette a 150-200 euro al mese. Mentre, a settembre 2018, è stata sgominata una rete di caporalato che faceva riferimento a due cooperative fittizie le quali reclutavano in nero la manodopera dall’Albania e dalla Romania, facendo fare ai lavoratori la spola fra i campi del Veneto e della Toscana.

Grazie alla l.68/2015 che disciplina gli ecoreati e che li ha introdotti nel Codice penale, si sono compiuti molti passi in avanti. Tuttavia ciò non basta, soprattutto dopo l’abolizione del divieto di vendita dei beni sequestrati alle mafie, in sostanziale modifica alla L.109/1996 la quale prevedeva il loro riuso prevalentemente per fini pubblici e sociali creando un autentico e pulito riscatto economico e sociale.

Infatti, il Decreto-legge Sicurezza, ora convertito in L.132/2018, non è altro che un regalo alle Mafie. Vendendo i beni immobili confiscati ai privati implicitamente si favoriscono i clan, che potrebbero riacquistare i beni attraverso prestanomi e riciclare i patrimoni e le ricchezze accumulate illecitamente.

Inoltre, con la nuova manovra, le pubbliche amministrazioni potranno sostenere spese fino a 240.000 euro senza fare gare o appalti: ciò significa che la Mafia non dovrà nemmeno fare uno sforzo per partecipare.


Breve bibliografia di riferimento

Gianni Belloni e Antonio Vesco, Come pesci nell'acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto. Mafie, impresa e politica in Veneto, Donzelli, 2018.

Legambiente, Rapporto ecomafia, 2018.

Antonio Pergolizzi, Emergenza Green Corruption. Come la corruzione divora l'ambiente, Andrea Pacilli Editore, 2018

Visula Lab - Gruppo Gedi, Atlante criminale Veneto, 2018

Osservatorio Placido Rizzotto - Flai Cgil, Quarto rapporto agromafie e caporalato, 2018
Fanpage, Bloody Money, 2018

19 marzo 2019. Conferenza stampa davanti al Ministero dell'Ambiente per spiegare i motivi della mobilitazione di sabato a Roma, una marcia che inizierà alle 14.00 da piazza della Repubblica e arriverà a San Giovanni. Qui il link per aggiornarsi sul percorso. (i.b.)

Oggi, comitati ambientalisti e i comitati territoriali da diversi luoghi del paese, si sono ritrovati in conferenza stampa presso il Ministero dell’Ambiente per annunciare la marcia per il clima, contro le grandi opere inutili e contro la devastazione ambientale del 23 Marzo a Roma (partenza alle ore 14 da piazza della Repubblica)

Giungeranno dalla Val di Susa, da Taranto, passando per la Laguna di Venezia, per la Terra dei Fuochi, per le zone terremotate delle Marche i manifestanti che invaderanno Roma per suonare il campanello dall’arme sull’urgenza di un cambiamento di rotta. Come spiegato davanti alle finestre del ministro Costa, “la mancanza di manutenzione delle infrastrutture, la corruzione e la cementificazione selvaggia seminano morti e feriti a ogni ondata di maltempo perché le risorse pubbliche vengono utilizzate per la costruzione di opere che perpetuano un modello di sviluppo volto al profitto di pochi, senza il rispetto dei territori e di chi li abita“. Decine di pullman in arrivo da tutta Italia, dalla Sicilia all’estremo nord si ritroveranno per una mobilitazione inedita, ecologica e sociale, che unirà le istanze dei comitati che si battono da anni contro i progetti inutili e nocivi per l’ambiente a quelle del nascente movimento contro il cambiamento climatico.

La mobilitazione di sabato arriverà infatti a poco più di una settimana dallo Sciopero mondiale per il clima che ha portato in piazza milioni di giovani in Italia e nel mondo per chiedere ai governi azioni concrete contro il cambiamento climatico. “Siamo scesi in piazza il 15 marzo e scenderemo in piazza il 23 perché come Greta ci ha insegnato, la crisi climatica non si affronta in un giorno solo, e dobbiamo ribadire che la nostra generazione non ha intenzione di pagarne le conseguenze sulla nostra pelle e sulle terre che attraversiamo” dice Vittoria, studentessa alla Sapienza. Proprio dall’università sabato partirà un piccolo corteo studentesco che raggiungerà i comitati in piazza della Repubblica.

I Comitati rivendicano la lotta alla cementificazione e alle grandi opere inutili come primo punto in agenda per una politica ambientale che non sia soltanto un ipocrita nascondersi dietro le tracce di Greta Thunberg. Mentre in Val di Susa, nonostante gli annunci, partono i bandi per il cantiere del TAV, il governo ha fatto retromarcia su tutte le altre grandi opere devastanti sul territorio nazionale: il TAV Terzo Valico, il TAP e la rete SNAM, le Grandi Navi e il MOSEa Venezia, l’Ex-ILVA , ora ArcelorMittal a Taranto, il MUOS in Sicilia, la Pedemontana Veneta, inscenando, inoltre, un tira e molla sulle trivellazioni, con esiti catastrofici nello Ionio, in Adriatico, in Basilicata ed in Sicilia. A questo si aggiunge la mancata ricostruzione delle zone che hanno subito nella maniera più tragica la mancata messa in sicurezza dei territori come le Marche. Proprio i terremotati marchigiani saranno presenti con una delegazione sabato a Roma.

Una presenza particolarmente importante arriverà dal Sud Italia. “In Campania, forse abbiamo sperimentato gli effetti sulla salute prima che in altre regioni tanto è che in quelle terre è nato il termine biocidio per indicare l’attacco alla vita stessa che riguarda ognuno di noi” dice Raniero del comitato Stop-Biocidio prima di lasciare alla parola a Margherita dei Movimenti per il diritto all’abitare romani. «Centinaia di migliaia di immobili vuoti sono simbolo a Roma di come la cementificazione e la speculazione edilizia non hanno mai risposto alle esigenze abitative delle altrettante centinaia di migliaia di persone che hanno diritto alla casa» aggiunge prima di annunciare un concentramento di sfrattati e senza casa al Ministero delle infrastrutture a Piazza Porta Pia alle ore 11, come prologo del concentramento di Piazza della Repubblica.

Tra i tanti comitati ovviamente c’erano anche i notav: «La lotta è lunga e dura, sono 30 anni che la portiamo avanti, riguarda noi e i nostri figli che hanno diritto a vivere in una valle salubre, non intossicata dallo smerino e dalle polveri provocate dallo sventramento delle montagne» dice Emilio arrivato dalla Val di Susa.

L’obiettivo della manifestazione è quello di pretendere un cambiamento di rotta radicale nella gestione delle risorse. Un nuovo modello di sviluppo che dovrebbe ribaltare le priorità: non quelle di una classe imprenditoriale che ha passato gli ultimi trent’anni a delocalizzare e inquinare in nome del profitto ma delle persone che lavorano, studiano e vivono nel nostro paese. Mentre negli ultimi mesi i giornali sono stati invasi dal pensiero unico dello Sviluppo e del Progresso e il dibattito pubblico è stato preso in ostaggio da un manipolo di industriali senza scrupoli messi in fila dietro il feticcio del SITAV, sabato a Roma risuonerà finalmente una voce diversa.

I timidi provvedimenti presi nei confronti del cambiamento climatico, nel rispetto degli Accordi di Parigi 2016, sono del tutto insufficienti. Il cambiamento climatico è l’effetto di politiche estrattiviste legate a un sistema di produzione che sposa speculazione e profitto per pochi a danno dei molti. Siamo ancora in tempo per cambiare ma questo tempo è adesso, dicono i comitati davanti al Ministero dell’ambiente invitando ad unirsi al corteo del 23 marzo.


Il 23 marzo 2019 anche eddyburg si unisce alle migliaia di persone che scenderanno in strada per le vie e le piazze di Roma in una grande Marcia per il clima, contro le grandi opere inutili e per una giustizia ambientale. Ancora una volta sono i movimenti, i comitati, gli abitanti a rivendicare le ragioni per una rivoluzione del sistema, del modello di sviluppo in assenza di una sintesi politica capace di cogliere la svolta radicale necessaria per coniugare la salute, il benessere sociale, la salvaguardia del nostro pianeta terra e delle specie che lo abitano e i diritti umani. (i.b)

comune-info.net, 13 marzo 2019. Fermare subito l'estrazione di giacimenti indurrebbe uno “shock” al sistema produttivo capitalistico, obbligandoci a ripensare al nostro modo di abitare il pianeta e uscire da questo modello di sviluppo nefasto. Una degna risposta alle rivendicazione del 15 e 23 marzo prossimo. (i.b.)

Qui il link all'articolo.

Il 15 marzo in tutto il mondo si svolgeranno manifestazioni per esigere dai governanti azioni concrete e immediate per impedire la fine della vita sul pianeta minacciata dai cambiamenti climatici. In prima linea ci sono i ragazzi e le ragazze del movimento FridaysForFuture, ispirato dalla quindicenne Greta Thunberg che la scorsa estate si è seduta davanti al parlamento svedese in protesta per tre settimane. Da settembre ogni venerdì un numero crescente di persone, non solo giovani, si sono unite allo sciopero. (i.b.)

Sul nuovo sito di Laudato Si potrete trovare i materiali del Forum che si è tenuto a Milano il 19 gennaio 2019, nel quale si sono discussi temi quali cambiamenti climatici, depredazioni ambientali, migranti, riconversione ecologica, ecofemminismo, beni comuni, diritto al salute e pace. (a.b.)

A Roma scenderanno in campo comitati, associazioni e movimenti per reclamare un programma di azioni concrete capace di contrastare il riscaldamento globale, fermare le grandi opere inutili e dannose e salvaguardare i territori non solo dai cambiamenti climatici ma anche dal saccheggio in nome del profitto. Qui l'appello. (i.b.)


MARCIA PER IL CLIMA, CONTRO LE GRANDI OPEREINUTILI
Non serve il governo del cambiamento, serve un cambiamento radicale

Chi siamo

Siamo i comitati, i movimenti, le associazioni e i singoli che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte e per l’inizio di una nuova mobilitazione contro i cambiamenti climatici e per la salvaguardia del Pianeta.

Abbiamo iniziato questo percorso diversi mesi fa, ritrovandoci a Venezia lo scorso settembre, poi ancora a Venaus, in Val Susa e in molti altri luoghi, da nord a sud, dando vita ad assemblee che hanno raccolto migliaia di partecipazioni. Siamo le donne e gli uomini scesi in Piazza lo scorso 8 dicembre a Torino, a Padova, Melendugno, Niscemi, Firenze, Sulmona, Venosa, Trebisacce e in altri luoghi.

Dall’assemblea di Roma del 26 gennaio lanciamo l’invito di ritrovarsi a Roma il 23 Marzo per una manifestazione nazionale che sappia mettere al centro le vere priorità del paese e la salute del Pianeta.


Grandi opere e cambiamento climatico

Il modello di sviluppo legato alle Grandi Opere inutili e imposte non è solo sinonimo, come denunciamo da anni, di spreco di risorse pubbliche, di corruzione, di devastazione e saccheggio dei nostri territori, di danni alla salute, ma è anche l’incarnazione di un modello di sviluppo che ci sta portando sul baratro della catastrofe ecologica.
Il cambiamento climatico è uscito da libri e documentari ed è venuto a bussare direttamente alla porta di casa nostra.
Nel nostro paese questa situazione globale si declina in modo drammatico. La mancanza di manutenzione delle infrastrutture, la corruzione e la cementificazione selvaggia seminano morti e feriti a ogni temporale, a ogni ondata di maltempo, a ogni terremoto.

Il cosiddetto “governo del cambiamento“ si è rivelato essere in continuità con tutti i precedenti, non volendo cambiare ciò che c’è di più urgente: un modello economico predatorio, fatto per riempire le tasche di pochi e condannare il resto del mondo a una fine certa. Le decisioni degli ultimi mesi parlano chiaro.

Mentre ancora si tergiversa sull’analisi costi benefici del TAV in Val di Susa, il governo ha fatto una imbarazzante retromarcia su tutte le altre grandi opere devastanti sul territorio nazionale: il TAV terzo Valico, il TAP e la rete SNAM, le Grandi Navi a Venezia, il MOSE, l’ILVA a Taranto, il MUOS in Sicilia, la Pedemontana Veneta, oltre al tira e molla sul petrolio e le trivellazioni , con rischio di esiti catastrofici nello Ionio, in Adriatico, in Basilicata ed in Sicilia.

Giustizia sociale è giustizia climatica

Le catastrofi naturali non hanno nulla di naturale e non colpiscono tutti nella stessa maniera.

Lo vediamo purtroppo quotidianamente e chi sta in basso, infatti, paga i costi del cambiamento climatico e della mancata messa in sicurezza dei territori.

È vero fuori dai grandi centri cittadini, dove la devastazione ambientale mangia e distrugge la natura, ma è vero anche negli agglomerati urbani, luoghi sempre più inquinati in cui persino i rifiuti diventano un business redditizio.
È vero non solo dal nord al sud dell’Italia, ma anche dal nord al sud del nostro pianeta.

Milioni di migranti climatici sono costretti a lasciare le proprie terre ormai rese inabitabili e vengono respinti sulle coste europee.

Nel nostro paese terremotati e sfollati vivono in situazione precarie, carne da campagna elettorale mentre le risorse per la ricostruzione non sono mai la priorità per alcuna compagine politica.

Quando le popolazioni locali, in Africa come in Europa, provano ad opporsi a progetti tagliati sui bisogni di multinazionali e lobby cementifere la reazione dello Stato è sempre violenta e implacabile.
L’unica proposta “verde” dei nostri governanti è di scaricare non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ecologica su chi sta in basso.

Noi diciamo che se da una parte la responsabilità di rispondere al cambiamento climatico è collettiva e interroga i comportamenti di ciascuno di noi, dall’altra siamo convinti che i costi della transizione ecologica debbano ricadere sulle spalle dei ricchi, in primis le lobbies che in questi anni si sono arricchite accumulando profitti, a discapito della collettività e dei beni comuni.

Il sistema delle grandi opere inutili e il capitalismo estrattivo sono altrettante espressioni del dominio patriarcale che sollecita in maniera sempre più urgente la necessità di riflessione sul legame tra donne, corpi e territori e sarà uno dei temi portato nelle piazze dello sciopero transfemminista globale dell’8 marzo.

E’ giunto il momento di capire di cosa il nostro paese e il nostro pianeta hanno davvero bisogno

Si potrà finalmente cominciare a dare priorità alla lotta al cambiamento climatico, cessando così di contrapporre salute e lavoro come invece è stato fatto a Taranto, dove lo stato di diritto è negato e chi produce morte lo può fare al riparo da conseguenze legali solo:

– riducendo drasticamente l’uso delle fonti fossili e del gas e rifiutando che il paese venga trasformato in un Hub del gas

– negando il consumo di suolo per progetti impattanti e nocivi e gestendo il ciclo dei rifiuti in maniera diversa sul lungo periodo (senza scorciatoie momentanee) con l’obiettivo di garantire la salute dei cittadini
– praticando con rigore e decisione l’alternativa di un modello energetico autogestito dal basso, in opposizione a quello centralizzato e spinto dal mercato

– abbandonando progetti di infrastrutture inutili e dannose e finanziando interventi dai quali potremo trarre benefici immediati (messa in sicurezza idrogeologica e sismica dei territori , bonifiche, riconversione energetica, educazione e ricerca ambientali)

E’ urgente garantire il diritto all’acqua pubblica, una nuova Strategia Energetica Nazionale riscritta senza interessi delle lobbies, la messa a soluzione delle scorie nucleari, la riduzione delle spese militari, il disarmo nucleare.

I nostri territori, già inquinati da discariche fuori controllo, inceneritori e progetti inutili, sono oltremodo distrutti da monoculture e pesticidi che determinano desertificazione e minano la possibilità di una sempre maggiore autodeterminazione alimentare.

E’ necessario che le risorse pubbliche vengano destinate ad una buona sanità, alla creazione di servizi adeguati, al sostegno di una scuola pubblica e di università libere e sganciate dai modelli aziendalisti, ad un sistema pensionistico decoroso, ad una corretta politica sull’abitare e di inclusione della popolazione migrante con pari diritti e dignità.

Appuntamenti verso il 23 marzo (agenda ancora in aggiornamento)

27 gennaio: Vicenza. Assemblea regionale dei comitati veneti
2 febbraio: Roma. Rete Stop TTIP Assemblea nazionale
2 febbraio: Napoli. Assemblea Regionale Stop Biocidio
3 febbraio: Termoli. Assemblea di movimenti e comitati in lotta contro la deriva petrolifera
23 febbraio: Venezia. Iniziativa e mobilitazione dei comitati e associazioni del Veneto
23 febbraio: Tito. Assemblea coi sindaci No Triv della Basilicata e della Campagna.
3 Marzo: Napoli. Prossima assemblea nazionale verso il 23 marzo.
8 marzo: Roma. Non una di Meno. Sciopero Globale Transfemminista.
8-9-10 marzo: Roma. A Sud. Tavoli su giustizia climatica, energia, ecofemminismo.
15 marzo: Global Climate Strike
22 marzo: Roma. Giornata su alimentazione agroecologia a cura di Genuino Clandestino
15-31 marzo: Fabriano. Festival Terre Altre.

Siamo ancora in tempo per bloccare le grandi opere inutili e inutili!
Siamo ancora in tempo per contrastare il cambiamento climatico!
Siamo ancora in tempo per decidere NOI il nostro futuro!

Continua il percorso dei comitati e movimenti ambientalisti italiani contro le grandi opere inutili, per una giustizia ambientale, che rimetta al centro dell’azione la difesa, la messa in sicurezza dei territori, i diritti degli abitanti. Qui il contributo dal Veneto (i.b.)

"Un clima rivoluzionario" é il contributo scritto portato dei comitati veneti sul rapporto tra grandi opere e giustizia climatica alla quarta Assemblea Nazionale dei comitati e movimenti ambientalisti italiani, che oggi, 26 gennaio si riunisce a Roma, ospitata dagli studenti de La sapienza di Roma, presso la Facoltà di Lettere.

Su questo importante percorso intrapreso dai comitati si legga su eddyburg: "Manifestazione Nazionale contro le grandi opere e la giustizia ambientale" .

Questo l'appello di convocazione della Quarta Assemblea dei comitati contro le grandi opere inutili e i movimenti per la giustizia ambientale:
A tutti i comitati, i movimenti, le associazioni e i singoli che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte e per una nuova stagione di giustizia ambientale e la salvaguardia del Pianeta.

Ci siamo ritrovati a Venezia lo scorso settembre, poi ancora a Venaus, in Val Susa e in molti altri luoghi, da nord a sud, dando vita ad assemblee che hanno raccolto migliaia di partecipazioni. Siamo le donne e gli uomini scesi in Piazza lo scorso 8 dicembre a Torino, a Padova, Melendugno, Niscemi, Firenze, Sulmona, Venosa, Trebisacce e in altri luoghi.

Tutte e tutti abbiamo accolto una sfida, quella di portare a Roma il prossimo 23 marzo la nostra voce ed un nuovo messaggio. Un messaggio che ribadisca la necessità di farla finita con il modello di sviluppo legato alle grandi opere inutili e dannose: una tragedia per l’ambiente, un furto di denaro pubblico per interessi di pochi, una manna per i corrotti, con progetti e cantieri che, in barba alla volontà popolare, vengono imposti manu militari, reprimendo il dissenso.

Porteremo le nostre valutazioni sul “governo del cambiamento“ che mentre tergiversa sull’analisi costi benefici del TAV in Val di Susa, ha fatto chiara retromarcia su tutte le altre opere e gli altri territori: Il TAV 3° Valico, il TAP, le Grandi Navi ed il MOSE a Venezia, l’ILVA a Taranto,le autorizzazioni a cercare idrocarburi nello Ionio, in Adriatico, in Sicilia ed il rischio di rilascio di numerose concessioni on shore, Il MUOS in Sicilia e così via.

Dovremo esprimere un punto di vista chiaro su ciò di cui il nostro Paese ha davvero bisogno, facendola finita con le grandi opere inutili, per avviare un percorso unanime e virtuoso di programmi concreti a favore delle vere necessità del popolo e dei territori, mettendo al primo posto la cura e la messa in sicurezza del territorio, le bonifiche, piccole opere necessarie a vivere meglio ed in grado di dare lavoro diffuso e garantito, buona sanità, servizi adeguati, scuola pubblica ed università libere e sganciate dai modelli aziendalisti, sanità e pensioni decorose, una corretta politica sull’abitare e di inclusione della popolazione migrante con pari diritti e dignità.

L’ultimo rapporto IPCC indica che le emissioni vanno ridotte subito, altrimenti nel 2040 avremo già superato la soglia di sicurezza del riscaldamento globale di 1,5°C.

Affronteremo la crisi climatica che è collegata al modello di sviluppo attuale che ha già fatto troppi danni. Assistiamo ai continui fallimenti delle COP governative (l’ultima a Katowice, in Polonia, pochi mesi fa) e siamo consapevoli che solo un grande movimento può cambiare il corso di questa catastrofe climatica che si aggrava di anno in anno.

Molto si può e si deve fare!

Solo rinunciando da subito al carbone, agli inceneritori, alla combustione di biomasse, alla geotermia elettrica, agli agrocombustibili; solo riducendo drasticamente l’uso delle fonti fossili, del gas anch’esso climalterante; solo praticando con rigore e decisione l’alternativa di un modello energetico autogestito dal basso, in opposizione a quello centralizzato e di mercato, abbandonando progetti di infrastrutture inutili e dannose, finanziando interventi dai quali potremo trarre benefici immediati (messa in sicurezza idrogeologica e sismica dei territori , riconversione energetica, educazione e ricerca ambientali), si potrà finalmente cominciare a dare priorità alla lotta degli effetti climalteranti, cessando così di contrapporre salute e lavoro come invece è stato fatto a Taranto.

E’ urgente imporre un cambio di rotta rispetto all’attuale paradigma energetico e produttivo, per il diritto al clima ed alla giustizia climatica, per favorire cooperazione e sviluppo scientifico al servizio del valore d’uso.

E’ urgente garantire il diritto all’acqua pubblica, una nuova Strategia Energetica Nazionale riscritta senza interessi delle lobbies, la messa a soluzione delle scorie nucleari, la riduzione delle spese militari, il disarmo nucleare.

Sosteniamo che questa transizione ecologica indispensabile la debbano pagare i detentori di capitale, i grandi gruppi finanziari, le élite che negli ultimi anni hanno approfittato della crisi per arricchirsi riservando alle persone e ai territori solo la ricetta dell’austerità e la distrazione di massa della guerra tra poveri, mettendo l’uno contro l’altro, alimentando la disinformazione.

Assieme al NO , la nostra piazza sarà capace di trasmettere l’urgente necessità di cambiamento della società a fronte del modello capitalistico che distrugge convivenza ed ecosistema.

Siamo consapevoli che ad oggi nessun governo, tanto meno quello in carica, ha mostrato di avere le condizioni per poter realizzare quello che vogliamo e che necessita per far sopravvivere il pianeta.

A fronte delle emergenze reali che chiamiamo in causa, chi ha il potere è impegnato a soffiare sul fuoco del razzismo, del sessismo e dell’autoritarismo, alimentando, con costante opera di manipolazione mediatica, nuove forme di desolidarizzazione ed oscurantismo.

Discuteremo di come costruire un movimento, uno spazio pubblico aperto che in tante e tanti stiamo cercando per trasformare la società, il modo in cui si guarda alla vita dei territori, per decidere insieme il nostro futuro, per iniziare un cammino di giustizia ambientale, che non può più aspettare.

La manifestazione di Roma, il prossimo 23 marzo, sarà un passo importantissimo in questa direzione. Prepariamolo assieme!

Al Palazzo Reale di Milano il 19 gennaio 2019 dalle 9.30 si terrà un incontro sulla connessione tra cambiamenti climatici, depredazioni ambientali, migranti e povertà; si parlerà di riconversione ecologica, ecofemminismo, beni comuni, diritto al salute, resistenza culturale, antifascismo come fondamentali antidoti a questa società in declino. (i.b.) Qui il programma.

FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE
Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino

Milano, 19 gennaio 2019
Palazzo Reale
Piazza del Duomo, 12
ore 9.30-13, 14-17.30

SALUTI
Basilio Rizzo (consigliere comunale Milano in Comune)

INTRODUZIONE
Daniela Padoan (presidente associazione Laudato si’)

Prima sessione (9.30-13)

1. CLIMA
Degrado ambientale e profughi, energia, rinnovabili, decarbonizzazione
Coordina Mario Agostinelli (Energia felice)
Massimo Scalia (docente Fisica matematica Università La Sapienza, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie)
Karl Ludwig Schibel (coordinatore italiano dell’Alleanza per il Clima delle città europee)
Angelo Consoli (direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin)

2. DEPREDAZIONE AMBIENTALE
Landgrabbing, watergrabbing, estrattivismo e grandi opere, difendere i difensori della Terra
Coordina Oreste Magni (Ecoistituto della valle del Ticino)

Elena Papadia (NoTAP)
Roberta Radich (NoTriv)
Elena Gerebizza (Re:Common)
Chiara Sasso (NoTav)
Francesco Martone (già senatore, In difesa di)

3. MIGRANTI
Accoglienza, contrasto delle politiche di respingimento e militarizzazione delle frontiere, razzismo, criminalizzazione della solidarietà
Coordina Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà)

Sergio Bontempelli (Associazione Diritti e Frontiere)
Luigi Manconi (coordinatore UNAR, presidente A buon diritto)
Donatella Di Cesare (filosofa)
Riccardo Gatti (capomissione Proactiva Open Arms)
Anna Camposampiero e Fabrizio Ungaro (Rete No-CPR)

4. POVERTA’ ED ECONOMIA DELLO SCARTO
Cultura della sottomissione e nuovo schiavismo, cultura dei diritti, lavoro e politiche contro la povertà
Coordina Giovanna Procacci (Libera)

don Virginio Colmegna (presidente Casa della carità)
Francesca Re David (segretaria nazionale FIOM)
Gigi Malabarba (Ri-Maflow)
Guido Barbera (presidente CIPSI)
Guido Pollice (già senatore, presidente Verdi Ambiente e Società)
Alessandro Pagano (segretario FIOM Lombardia)

Seconda sessione (14-17.30)

5. DEBITO, RICONVERSIONE, LAVORO
Debito, finanza, politiche dei grandi sistemi, riconversione ecologica, lavoro per tutti, amianto e salute pubblica
Coordina Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà)

Antonio De Lellis (Comitato per l’annullamento del debito illegittimo)
Fulvio Aurora (segretario nazionale Associazione It. Esposti Amianto)
Aldo Bonomi (sociologo, direttore Consorzio AASTER)
Andrea Di Stefano (direttore “Valori”)
Luigi Agostini (presidente Federconsumatori)
Vincenzo Vasciaveo (Distretto Economia Solidale Rurale - Parco Agricolo Sud Milano – GAS)

6. VIVENTE
Critica dell’antropocentrismo, tutela del vivente, patriarcato ed ecofemminismo, diritti della natura, diritto alla salute
Coordina Daniela Padoan (scrittrice, presidente Ass. Laudato si’)

Laura Cima (già deputata e presidente Gruppo parlamentare Verde)
Vittorio Agnoletto (medico, già parlamentare europeo)
Francesco Remotti (professore emerito, già ordinario di Antropologia culturale nell'Università di Torino)
Annamaria Rivera (antropologa)

7. PACE E BENI COMUNI
Disarmo, denuclearizzazione, beni comuni, diritti ambientali, tempo di vita, diritto alla bellezza
Coordina Mario Agostinelli

Lisa Clark (Rete italiana per il disarmo, co-presidente International Peace Bureau, Beati i costruttori di pace)
Paolo Cacciari (responsabile dipartimento beni comuni di DemA)
Elio Pagani (Pax Christi)
Luca Zevi (architetto e urbanista)

8. EDUCAZIONE, COMUNICAZIONE, RESISTENZA
Scuola, comunicazione e nuovi media, contrasto dei linguaggi d’odio, resistenza culturale, memoria storica e antifascismo

Coordina Simona Sambati (Casa della carità)
Raniero La Valle (giornalista, già deputato e senatore)
Roberto Giudici (FIOM, Zona 8 Solidale)
Alessandra Ballerini (avvocato, Terre des Hommes)

CONCLUSIONI
Don Virginio Colmegna (presidente Casa della carità)

A partire da una critica al capitalismo e al modello di sviluppo corrente, la decrescita ha sviluppato un interessante dibattito su una possibile trasformazione politica radicale. (i.b.)


Il concetto della decrescita è una delle critiche più interessanti al capitalismo e al modello di sviluppo corrente, che a partire dai ragionamenti dell'economista Nicholas Georgescu-Roegen e André Gorz ha sviluppato un dibattito su una possibile trasformazione politica radicale tesa al superamento delle ingiustizie e dell'insostenibilità ecologica del nostro modo di abitare il pianeta.
Si legga "Introduzione a 'Decrescita: vocabolario per una nuova era' – di Giorgos Kallis, Federico Demaria e Giacomo D’Alisa" tratto dal sito Effimera.

Per un approfondimento del rapporto tra lavoro e natura, e dell'ineluttabile nesso tra lotta di classe e lotte per l’ambiente e per i beni comuni, lotte accomunate da una critica all'accumulazione per appropriazione - del lavoro domestico, servile o delle risorse ambientali - si legga il libro "Lavoro Natura Valore – André Gorz tra marxismo e decrescita" di Emanuele Leonardi (2017, Orthotes editore), di cui si veda la una recensione in perunaltracittà.
Segnaliamo inoltre due volumi, editi da Marotta e Cafiero, parte di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo:

“Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione” a cura di Marco Deriu (2016, editori) che raccoglie una serie di articoli che cercano di spiegare che è necessario "un ripensamento radicale del nostro modo di concepire la modernità, l’insieme delle relazioni sociali, l’idea di benessere e di benvivere, le logiche di fondo alla base dell’evoluzione tecnica ed organizzativa e della costruzione di una democrazia politica" (dall' introduzione di Marco Deriu). Qui una recensione al libro di Paolo Cacciari.

“La decrescita tra passato e futuro” a cura di Paolo Cacciari sul significato e il valore di liberarsi dal dominio della crescita economica per immaginare delle trasformazioni ecologicamente sostenibili e socialmente giuste.


8 dicembre 2018, in migliaia sono scesi in piazza contro questo modello di sviluppo che sta devastando l'habitat in cui viviamo. Contro le grandi opere inutili e dannose; l'inquinamento dell'aria; la contaminazione di acque e suolo da processi industriali; gli inceneritori, le politiche sui rifiuti e l'ecomafia che ci specula; il consumo di suolo; le grandi navi; i gasdotti e la dipendenza dai fossili; la sottrazione di beni comuni; le antenne militari; l'erosione della democrazia; il prevalere del profitto di pochi sul benessere di tutti. Non solo per la difesa dell'ambiente, della salute, dei territori, ma per un inversione di rotta.
Fonte: l'immagine è della manifestazione di Torino, presa dal sito notav.info. Altre le città dove si sono svolte le manifestazioni: Padova; Firenze, Sulmona, Pescara, Niscemi; Melendugno; Giugliano (NA), Venosa (PZ), Melendugno (LE), Trebisacce (CS). (i.b.)

Intervento al Convegno Nazionale "Luigi Mara e Medicina Democrazia: la stagione del modello operaio di lotta alle nocività", Milano, 20 ottobre 2018: Per non dimenticare il ruolo importante di Medicina Democratica e di quelle lotte operaie nella difesa della salute umana e dell'ambiente. (i.b.)

Prima di tutto voglio riproporvi il messaggio del 14 maggio2016 di Franco Rigosi di Medicina Democratica di Venezia e Mestre checondividiamo in toto:
«Luigi Mara, fondatore di Medicina Democratica nel 1976 conGiulio A.Maccacaro, ci ha lasciato, inesorabilmente colpito da un improvvisomalore nel pomeriggio del 12 maggio 2016. Impossibile, a caldo, esprimere oltreal dolore di tale perdita quanto Luigi rappresentasse per il nostro Movimento,per l’ambientalismo scientifico e il movimento operaio. Un oramai raro esempio di intellettuale incui il rigore scientifico e la chiarezza di intenti si univano a una integra (eintegrale) scelta di classe. Esigente in primo luogo con sé stesso,instancabile e incredibilmente capace di lavorare contemporaneamente sumolteplici argomenti ed iniziative, ha caratterizzato la storia quarantennaledi Medicina Democratica con un autentico umanesimo: a favore dei più deboliaffinché si risvegliasse la coscienza e l’auto-organizzazione dal basso (la nondelega). Ha inoltre portato nelle aule dei Tribunali la richiesta di giustiziae di riconoscimento della dignità per le vittime dell’organizzazionecapitalista dei luoghi di lavoro svelando la scienza (e gli scienziati) alservizio del profitto, Si è battuto per una giusta condanna dei responsabilidei tanti ecocidi sparsi per l’Italia e non solo (da Porto Margheraall’Eternit). A tutti gli appartenenti a Medicina Democratica il compito diraccogliere il testimone e proseguire, a barra diritta, nella lotta perl’affermazione della salute a partire dal diritto ad un ambiente salubre.»
La morte di Luigi Mara anche per tutti noi di Venezia,Mestre e Marghera è una perdita enorme. Io ho conosciuto Luigi nel 1986 graziead un incontro promosso da Gabriele Bortolozzo a Marghera e da allora LuigiMara è stato un punto di riferimento costante ed un aiuto per me e per tuttiquei pochi lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera che per moltianni hanno denunciato i molti danni cheproduceva l’industria chimica all’ambiente, che lottavano contro le produzioni cancerogene e pericolose, che lottavano per condizioni di vita e dilavoro più salubri, che lottavano perchéi diritti fossero realmente riconosciuti e garantiti. Ricordo una bellissimafrase sentita ad uno dei primi convegni di Medicina Democratica ai quali hopartecipato e che abbiamo subito “rubato” e sempre inserita nei nostridocumenti e fogli di controinformazione:
«Non è mai esistito, né mai esisterà, un posto di lavorosicuro perché nocivo ed inquinante. Dovenon si affermano sicurezza e protezione, dell’uomo come dell’ambiente, non sicostituiscono certezze occupazionali. Inogni caso, le produzioni di morte devono essere bandite ed eliminate.»
Porto Marghera: il lavoro, le lotte, la ristrutturazione, lafine di una storia
Nel 2017 il polo industriale di Porto Marghera compiva 100anni. Porto Marghera è stato uno dei poli industriali più grandi d’Italia. Nasce nel 1917 con lavori di bonifica di unaparte della Laguna di Venezia.

Il numero dei lavoratori riportato nella tabella, è quellodei lavoratori diretti, ma se si considerano anche i lavoratori delle imprese,il periodo di maggior occupazione è quello relativo agli anni 1965-1975, quandosi stavano costruendo nella seconda zona industriale i nuovi impianti,prevalentemente chimici e si stima che tra personale diretto e personale diimprese lavorassero circa 40.000 lavoratori.
Nel settore della chimica e raffinazione petrolio nel 1976,anno di punta della massima occupazione, c’erano circa 8.800 lavoratoridiretti.
Nel 2016 nell’area del petrochimico (chimica) e dellaraffineria erano occupati complessivamente circa 1.700 lavoratori diretti. Nelpolo industriale di Porto Marghera gli unici settori che sembrano tenere sonoquelli delle attività legate alla Portualità e quelle legate alla cantieristicanavale. In questo ultimo settore (Fincantieri) lavorano meno di 1.000 lavoratori diretti ed un esercitodi 3.000 lavoratori di imprese, che operano in sub-sub appalto e in condizionidi lavoro paurose, di sfruttamento e retributive da terzo mondo.
La ristrutturazione del polo industriale di Porto Marghera èiniziata nel 1981 (come in altri poli industriali italiani) e parte dallostabilimento Petrolchimico dove per la prima volta viene introdotta la cassaintegrazione speciale e il prepensionamento per un numero massimo di 616persone, ma una volta raggiunto questo numero invece di decadere rimane erimarrà in vigore sino al 1991 e tramite questo meccanismo verranno espulsi2751 lavoratori. Al Petrolchimico in questi 10 anni fiorisce un vero e propriomercato con l’istituzione di vere e proprie figure di mediatori (sindacalisti)che accompagnano i singoli lavoratori all’ufficio del personale per ottenerebuonuscite, incentivazioni all’esodo, favori, e nascono tutta una serie diclientele e giochi sporchi; su questo ci sarà anche un’indagine dellamagistratura e un’indagine interna del sindacato. Dal 1981 in poi, grazie alleorganizzazioni sindacali CGIL CISL UIL e i referenti dei partiti della“sinistra” PCI e PSI, in un vortice pauroso vengono man mano svendute esmantellate tutte le conquiste delle lotte degli anni ’60 e ’70.
Viene introdotta la nuova organizzazione del lavoro – con lacogestione della ristrutturazione continua. Vengono altresì introdotti: i“Circoli di qualità” su modello giapponese; i “nuovi contratti di FormazioneLavoro” (nuove assunzioni tramiteclientelismo politico-sindacale); la Terziarizzazione e la Lottizzazione ditutte quelle attività considerate non strategiche (queste attività vengonosubito “rilevate” da prestanomi che erano ex sindacalisti che avevano dietro aloro strutture politiche e sindacali). Vengono poi svenduti reparti e lineeproduttive ad altre società e a multinazionali che dopo un certo periodo ditempo li ristruttureranno ulteriormentee poi man mano li chiuderanno.
Questa purtroppo è la triste storia della lunga agonia diquesti ultimi anni della storia di Porto Marghera dal punto di vistaoccupazionale.
Ma nel polo industriale di Porto Marghera si sono visteanche storie molto belle
Gli anni ’60 e ’70 sono il periodo delle lotte per i dirittidei lavoratori, dei Consigli di Fabbrica, delle lotte per la sicurezza neireparti e luoghi di lavoro, delle lotte contro le fughe di gas e gli incidenti,del Sapere Operaio, dei Comitati Operai – i Comitati dei Lavoratori. Essivedono anche la nascita di un “ambientalismo operaio”, la presa di coscienzache bisognava difendere l’ambiente nel quale si lavorava e nell’ambiente nelquale si viveva.
Negli anni ’80 e ’90 emergono le esperienze di gruppi dilavoratori che facevano controinformazione e che denunciavano sia le condizionidi lavoro, che gli incidenti, le malattie, le morti sul lavoro e ladevastazione dell’ambiente e del territorio (inquinamento dell’aria, delleacque, del territorio, traffico di rifiuti, discariche abusive).
Dal 2000 in poi, si assiste alla nascita di gruppi dicittadini che lottavano per la difesa della loro salute e dell’ambiente controla chimica di morte e le lavorazioni nocive.
Porto Marghera Archivio AmbienteVenezia
Perché non si perda la memoria storica di quanto è successoin questi anni, nel 2017, centenario di Porto Marghera, abbiamo aperto unapagina facebook (qui il link) dedicata a Porto Marghera con molti materiali raccoltiin questi ultimi decenni. Sono a disposizione di tutti coloro che utilizzanofacebook e che vogliono vedere una parte molto importante della storia e dellelotte per i diritti sul lavoro e sul diritto a vivere e lavorare in un ambientesalubre.
Chi visiterà questo vero e proprio archivio troverà: foto,volantini, documenti, manifesti, interpellanze, dossier, libri e molti articolidei giornali locali e nazionali che raccontano la nostra storia e le nostrelotte. [1]

In particolare vi segnaliamo:

Troverete momenti della storia e delle lotte operaie per la difesa dei diritti e della salute, del "Sapere Operaio" e dei ragionamenti che facevamo in quegli anni:

Sono cose e storie di cui oggi molti dei vecchi protagonisti ha rimosso dalla memoria e che le nuove
generazioni non conoscono. Sono documenti che possono far capire che un altro tipo di mondo sarebbe possibile e che se si vuole si può tentare di cambiarlo veramente.

Tutti i documenti cartacei raccolti sono stati depositati e sono consultabili presso l’IVESER (Calle Michelangelo 54 P, Zitelle, Giudecca, Venezia) all'interno del Fondo Porto Marghera costituito da 28 raccoglitori di cartone.
Il materiale raccolto è stato ordinato per data, documentazione varia che va dal semplice volantino o articolo di giornale a documenti più consistenti come libri, giornali e opuscoli di fabbrica, verbali dei Processi Petrolchimico e Breda Fincantieri e documenti anche tecnici che affrontano anche problematiche produttive.
Presso l’IVESER troverete anche altri fondi con documenti sulla storia di Porto Marghera: Fondo Franco Bellotto, Fondo Luigi Scatturin, Fondo Emanuele Battain, Fondo Cesco Chinello.

Presso il Centro di Documentazione di Storia Locale di Marghera (Biblioteca di Marghera, Piazza Mercato, Marghera) troverete: Fondo AmbienteVenezia – Luciano Mazzolin, Fondo Associazione Gabriele Bortolozzo; Fondo Augusto Finzi.

Nel sito di https://www.medicinademocratica.org/wp/ sono consultabili e facilmente scaricabili i documenti di due archivi di AmbienteVenezia: Porto Marghera e Ambiente Laguna e Territorio, con documenti fino a dicembre 2011.

Qui i link alle schede di dettaglio allegate all'intervento, relative a tre esperienze (con link per accedere al documento pdf):

Scheda 1:Agenzia di informazione COORLACH
Scheda 2: Assemblea Permanente Contro il Rischio Chimico
Scheda 3: Il processo petrolchimico

Note

[1] L’archivio AmbienteVenezia è curato da Luciano Mazzolin. Email: luciano.mazzolin@libero.it

Al terzo appuntamento dell'assemblea nazionale contro le grandi opere inutili che si è tenuta a Venaus si è confermata la manifestazione capillare sui territori per l'8 dicembre e lanciato una grande manifestazione nazionale a Roma il 23 di marzo prossimo. (i.b.)
Il 17 novembre si è tenuta a Venaus l'assemblea nazionale dei comitati ambientali contro le grandi opere. Era il terzo appuntamento dopo quello di Venezia del 29 settembre e quello di Firenze del 6-7 ottobre. Sono la risposta di movimenti e comitati, sempre più consapevoli dei gravi problemi causati da politiche nazionali e locali neoliberiste, orientate allo sviluppo predatorio e senza limiti, alla speculazione, al profitto degli interessi della rendita, del cemento e dell'automobile e incuranti delle devastanti ripercussioni dei cambiamenti climatici.

Se l'8 dicembre sarà l'occasione per una mobilitazione diffusa nei territori (per esempio in Veneto la Marcia Mondiale per il clima a Padova; in Sicilia una manifestazione NO MUOS a Niscemi; in Piemonte la Marcia No Tav a Torino), il 23 marzo prossimo si terrà una grande Manifestazione Nazionale a Roma in cui confluiranno tutte le lotte territoriali "per rimettere al centro dell’azione la difesa e la messa in sicurezza dei territori, lo stop alle grandi opere inutili e la redistribuzione dei fondi pubblici, sprecati ad oggi per questi progetti, verso le priorità del Paese e del pianeta". (i.b.)


Oggi si tiene un 'assemblea a Venaus, per rafforzare il fronte di chi ha cuore il futuro dei territori e chiede uno stop immediato di tutte le grandi opere inutili e dannose, appuntamento che segue il percorso iniziato a Venezia a settembre. Qui i dettagli delle mobilitazioni. (i.b.)

Prosegue in Val di Susa il percorso nazionale contro le Grandi Opere e le politiche del governo iniziato il 29 settembre a Venezia.

Un’assemblea partecipata da centinaia di persone provenienti da tutto il paese, protagoniste le molteplici lotte territoriali che da nord a sud difendono la vita di chi quei territori li vive e cercano di porre in primo piano la tutela dell’ambiente e la sicurezza dei territori.
Se nei mesi di campagna elettorale abbiamo sentito gli esponenti del “governo del cambiamento” promettere un’inversione di rotta rispetto le politiche delle grandi opere, ad oggi queste affermazioni restano lettera morta.

Solo un anno fa la nostra valle vedeva i boschi bruciare e 6 mesi fa la montagna franare sulle case di molti valsusini, tutto ciò a causa della mancanza di investimenti pubblici per la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio. Pochi mesi fa crollava il ponte Morandi a Genova e nei giorni scorsi la Sardegna piangeva morti e distruzione a causa del maltempo. Un film visto troppe volte, dove speculazioni, negligenza ed interessi dei privati la fanno da padrona e le priorità del governo sembrano altre, come l’approvazione del decreto Sicurezza che si traduce in una dichiarazione di guerra ai poveri di questo paese.

Non abbiamo mai delegato la nostra lotta a nessuno e come noi numerosissime lotte territoriali vogliono prendere parola e raccontare quella verità che molti vorrebbero nascondere: non c’è alcun cambiamento, non c’è nessun rispetto per i territori e per chi li vive, non c’è alcuna garanzia per il futuro di tutti e tutte.

Continuiamo ad essere convinti della necessità di proseguire un percorso comune, convocando un’assemblea nazionale il 17 novembre in Val di Susa, a Venaus, per rafforzare il fronte di chi ha cuore il futuro dei territori e chiede uno stop immediato di tutte le grandi opere inutili e dannose. Il giorno successivo costruiremo un’iniziativa di lotta sul territorio alla quale invitiamo tutti e tutte a partecipare!

Dalla Conferenza dei Territori riunitasi a Firenze il 6-7 ottobre giunge l’invito ad una mobilitazione diffusa sui tutti i territori l’8 dicembre, data storica per il nostro movimento e dal 2010 celebrato dal 2010 come la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte. L’assemblea del 17 novembre sarà l’occasione per coordinarci e rilanciare con forza questa mobilitazione su tutto il territorio nazionale!

Quest’ulteriore tappa di un cammino comune si auspica possa moltiplicare i momenti di confronto sul territorio e portare nei prossimi mesi ad una manifestazione nazionale a Roma contro le Grandi Opere, per la giustizia ambientale e i beni comuni.

Lo ricordiamo, casomai ce ne fosse ancora bisogno, che non esistono “governi amici” e che la difesa del futuro è nelle nostre mani.

Ci vediamo in Val di Susa il 17 novembre!

Qui il link alla pagina NOTAVINFO.

Proseguono le mobilitazioni ambientaliste iniziate a Venezia il 29 settembre. L'8 dicembre Assemblea e Marcia Mondiale per il clima a Padova. Eddyburg aderisce! Qui appello e riferimenti agli eventi. (i.b.)


Invito per tutti i comitati al "Siamo Ancora in tempo" meeting del Veneto. Per continuare il percorso iniziato con la grande assemblea nazionale di Venezia dello scorso 29 settembre.


Programma

Sala Diego Valeri, Via Valeri, Padova. Assemblea aperta per confrontarci sulla necessità di organizzare una mobilitazione regionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale. L'orario sarà comunicato al più presto.

A seguire: Marcia Mondiale per il Clima, corteo per le vie di Padova.

Appello

L'ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) afferma che abbiamo poco più di una decina di anni per contenere l'aumento della temperatura mondiale entro 1.5° e mantenere gli effetti del riscaldamento già in corso entro livelli gestibili; diventa quindi sempre più importante spingere verso un nuovo sistema di sviluppo basato su fonti alternative e rinnovabili.

Raccogliamo l'invito dei collettivi dei cittadini francesi per il clima a una mobilitazione internazionale durante i negozionati sui cambiamenti climatici COP24 che si terranno in Polonia dal 3 al 14 Dicembre. L'8 Dicembre è una giornata globale di mobilitazione per dire che siamo ancora in tempo a cambiare rotta e facciamo nostra l'indizione declinandola rispetto le contraddizioni del nostro territorio.

Il Veneto è la nuova terra dei fuochi: avvelenamento delle acque da Pfas; devastazione e sventramento dei nostri territori con la costruzione di nuove autostrade e super strade, come Valdastico e Pedemontana; il passaggio delle Grandi Navi a Venezia e nella laguna, un’offesa all’ambiente, al paesaggio, al delicatissimo ecosistema lagunare; una terra colpita da fenomeni meteorologici estremi che interrogano la tenuta di un territorio martoriato da un modello di sviluppo dissennato e piegato al profitto; valore di pm10 ed altre polveri sottili nell’aria nella nostra pianura tra i più alti in Europa e nel mondo.

Dalle montagne, alle colline, al mare della nostra regione non c’è angolo che non sia devastato dalla logica del guadagno per pochi, del denaro, della merce!

Abbiamo di fronte vecchi e nuovi predatori dei beni comuni, dell’acqua, dell’aria e della terra. Multinazionali senza scrupoli, come la Miteni di Trissino, principale responsabile dell’avvelenamento della seconda più grande falda acquifera in Europa e di un rischio per la salute presente e futura di circa 800 mila persone, oppure la famiglia Benetton, proprietaria al 90% delle concessioni autostradali (vedi Genova). Questi soggetti hanno mano libera da parte delle istituzioni politico-amministrative locali e regionali, sono parimenti responsabili, ma la politica ancor di più, poiché dovrebbe tutelare gli interessi e la qualità della vita dell’intera comunità e non quelli dei privati e delle lobby affaristiche.

Cos’è cambiato dall’ormai famigerato Giancarlo Galan, governatore del Veneto per molti anni, tristemente famoso per lo scandalo Mose, all’attuale amministrazione di Luca Zaia? Stessi attori, stessi metodi, stesso complice silenzio ed altrettanto complice assenso rispetto al criminale biocidio della nostra terra, devastazione ambientale e danni spesso irreversibili per la salute di migliaia di cittadini.

La logica delle grandi opere, appalti e concessioni dal “pubblico” al “privato”, è di per sé criminogena, produce corruzione e malaffare: un mostruoso intreccio politico-economico le cui conseguenze ricadono sulla vita e riproduzione dell’intera comunità.

Fermiamo la colossale macchina che produce distruzione e morte.

In Veneto esistono molte realtà, comitati, associazioni, movimenti, cittadini consapevoli che si auto-organizzano al di fuori di partiti ed istituzioni per difendere i beni comuni: partono, come è naturale, da situazioni territoriali e problemi locali e specifici.

La scommessa deve essere quella di trovare elementi comuni pur nelle differenze, di riunire tutte queste espressioni conflittuali, grandi o piccole che siano, in un grande fronte di lotta condiviso e aumentare con l’unità la nostra forza e potenza di agire su chi comanda e governa i nostri territori.

Uniamo la pluralità delle voci in un unico grande coro che gridi con forza sotto il palazzo della regione Veneto: «Ora basta! Non c’è più tempo! Stop biocidio!»

Verso la costruzione di una mobilitazione regionale di tutti i comitati e movimenti per la difesa dell’ambiente, della salute, del territorio!

Giù le mani dai beni comuni!

Basta con i predatori delle nostre vite!

Siamo ancora in tempo!

Promosso da:
Comitato Zero Pfas Padova
Comitato NO Grandi Navi Venezia
Comitato No Dal Molin Vicenza
Comitato No Pedemontana Treviso
Comunità Salviamo la Val d'Astico

Per aderire manda un messaggio sulla pagina FB Siamo Ancora In Tempo - Veneto.


Riferimenti
Si moltiplicano e si estendendo i movimenti popolari per la difesa dell'ambiente ed è sempre più acuta la consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. Qui un articolo di Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano con i link ai passati incontri e che illustra i prossimi appuntamenti

Si moltiplicano e si estendendo i movimenti popolari per la difesa dell'ambiente ed è sempre più acuta la consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. Qui le date e gli appelli.

Il 30 settembre scorso si è tenuta a Venezia un Assemblea nazionale dei comitati ambientali per fare il punto sulle grandi opere inutili e le nefaste ripercussioni che il modello di sviluppo, basato sulla crescita infinita e sull'unico obiettivo dell'incremento del profitto, sta avendo sui territori.

Con un appello alla giustizia ambientale si sono convocati tutte le realtà di resistenza alle devastazioni e alle violazioni ambientali e non solo, per cercare un percorso comune. Da Taranto alla Val di Susa si sono ritrovati all'assemblea più di trecento persone in rappresentanza di 56 comitati e movimenti, dai No Tap ai No Pfas, da Trivelle Zero a Stop Biocidio, dai No Tav a No Grandi Navi, che hanno ospitato l'incontro e lanciato questo percorso. E' emerso un'inequivocabile dissenso nei confronti del governo non solo contro le grandi opere, ma anche nei confronti del crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua, delle privatizzazioni di beni comuni, della dipendenza energetica dal fossile che consente l'intensivo trivellamento e l'investimento sul gas. Qui il link al comunicato sottoscritto dai partecipanti.

ll 6-7 ottobre a Firenze si è tenuta la Conferenza dei territori – Viva l’Italia, l’Italia che resiste, il secondo incontro di questo percorso verso una mobilitazione comune. Qui i link agli interventi e al verbale della conferenza.

A seguito di questi incontri i principali comitati e i movimenti ambientalisti hanno deciso di incontrarsi di nuovo il 17-18 novembre 2018 a Venaus in Val di Susa, per un' Assemblea Nazionale e proseguire il dialogo e l'organizzazione di un fronte comune contro le Grandi Opere e per la Giustizia Ambientale. Qui l'appello e i dettagli.
Per l' 8 dicembre, una data storica per il movimento No Tav, è in programma una mobilitazione diffusa sui tutti i territori.

Queste ulteriori tappe hanno l'obiettivo di moltiplicare il confronto e la condivisione delle lotte e portare nei prossimi mesi ad una manifestazione nazionale a Roma contro le Grandi Opere, per la giustizia ambientale e la difesa dei beni comuni.

Il 6-7 ottobre a Firenze la seconda tappa degli incontri nazionali dei comitati ambientalisti, pronti a scendere in campo in un fronte unico contro il governo attuale, le grandi opere, e la deriva distruttiva del modello di sviluppo neoliberista. Con riferimenti (i.b.)

Conferenza dei territori – Viva l’italia, l’italia che resiste
Firenze, 6-7 ottobre 2018

Il degrado ambientale dei territori è crescente, la vivibilità presente e futura dei residenti è visibilmente minacciata. Le soluzioni, note da anni, sono la cura e il risanamento dei territori, la pianificazione degli investimenti delle infrastrutture, la prevenzione per evitare i danni provocati da ogni evento naturale o derivante da opere infrastrutturali.

La drastica riduzione delle riserve di materie prime e fonti energetiche, evidenziata dal raggiunto picco del petrolio convenzionale, impone di ripensare alla radice il sistema dei trasporti e delle infrastrutture,così come le trasformazioni edilizie ed urbanistiche del territorio e delle città.

Siamo convinti che la mobilitazione dei cittadini sia indispensabile per affermare dal basso le iniziative per contrastare questa deriva distruttiva quasi sempre descritta come conseguenza inevitabile del “progresso” e/o delle “catastrofi naturali”.

Cura, risanamento e messa in sicurezza del territorio hanno bisogno di nuove ‘geografie mentali’ e progettuali costruite dal basso e insieme agli abitanti, capaci di considerare il territorio come ecosistema complesso e vitale, arrestandone la morte ambientale, ecologica ed in fin dei conti economica.

Le associazioni e i movimenti che si oppongono contro le Grandi Opere Inutili e Imposte – riconosciuti come soggetto politico, e quindi fortemente contrastati - hanno indicato da tempo che per il raggiungimento degli obiettivi per la difesa e il risanamento dei territori è indispensabile che i Governi e ogni altra istituzione preposta ad assumere decisioni diano ascolto ai cittadini ed esaminino i loro argomenti, come richiesto dalla Convenzione di Århus, che è legge dello Stato.

Il Comitato No Tunnel TAV e il Movimento No TAV promuovono la Conferenza dei Territori del 6-7 ottobre 2018, un evento al quale contribuiranno le associazioni e i movimenti che lottano da anni contro le GOII – Grandi Opere Inutili e Imposte, con l’obiettivo di:

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Riferimenti
Sul programma e obiettivi dell'assemblea nazionale che si terrà a Firenze il 6-7 ottobre si veda il sito di notavfirenze. In merito a questo percorso si consiglia l'articolo scritto per eddyburg di Paolo Baldeschi "Politica e grandi opere inutili".
Sulla precedente assemblea a Venezia del 29 settembre 2018, la prima tappa di questo percorso, si legga il "Report assemblea nazionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale".

Sul sito Nograndinavi l'appello dell'assemblea di Venezia del 30 settembre con l'elenco dei comitati e movimenti che hanno aderito.

Effimera, 27 luglio 2018. Questa recensione, è un utile introduzione al concetto di antropocene, una prospettiva utile e interessante per comprendere, interpretare e agire sul rapporto tra essere umano e natura. (i.b.)

Non è facile pubblicare un libro sull’Antropocene. Questo per due motivi: in primo luogo, in pochissimi luoghi (e questa piattaforma è uno di questi) si discute attivamente di questo tema (e in generale della crisi ecologica), che rimane quindi ai margini del dibattito politico-etico (sopratutto italiano); in secondo luogo, il concetto stesso è pervaso da una vaghezza che a tratti sfiora l’inconsistenza che lascia sconfortato chi prova ad avvicinarsi al tema per capirne qualcosa di più. Antropocene vuole dire una molteplicità di cose; è possibile parlarne in una molteplicità di sensi; spesso le critiche e le discussioni che vertono su questo concetto si strutturano intorno a specifiche concezioni dell’Antropocene che ne lasciano completamente da parte altri significati, altrettanto sensati (se non altrettanto comuni). Pubblicare un testo che ha come titolo Nell’Antropocene è dunque già di per sé azione meritoria, non fosse altro perché è un ammirevole tentativo di introdurre una parte del pubblico di lettori al problema.

Chi voglia leggere il libro di Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola si troverà un valido strumento introduttivo ad una serie di posizioni relative all’Antropocene, o meglio, che intendono questo “tempo della fine” (o dell’inizio) in sensi anche opposti. Questo compito introduttivo e didascalico è svolto dagli autori nella prima parte del testo, che riporta dunque, dopo aver spiegato in breve il significato del termine da un punto di vista più legato alle scienze del clima e della Terra, nel breve spazio di un’ottantina di pagine, le posizioni degli ecomodernisti, dei catastrofisti, dei difensori del Capitalocene, e dei naturalisti, per riprendere il lessico dei due studiosi. Emerge già in queste pagine l’idea degli autori a proposito dell’Antropocene. Esso è il tempo della “natura” ibrida, e cioè dello spazio di mescolanza tra natura e cultura, natura ed artificio, che si espande al Globo intero. Tale idea trova la sua esplicazione migliore nella lunga seconda parte, quella che gli autori dedicano all’etica, dove ha luogo una dettagliata e, a parere di chi scrive, originalissima analisi delle posizioni etiche che si possono assumere riguardo al rapporto tra uomo e natura. Ripercorrendo moltissime posizione, assunte ed assumibili, gli autori vanno alla ricerca di qualcosa che non sia antropocentrico, cioè che non faccia identificare il valore a partire dalla centralità dell’umano, ritenendo in questo modo di poter valorizzare il mondodell’Antropocene al di là del valore che attribuiamo o meno all’umano. Se il loro tentativo è senza dubbio interessante, vorrei però sottolineare che esiste tutta una parte dell’antropologia contemporanea (penso in particolare a Viveiros de Castro, ma anche a Philippe Descola) che ha identificato forse non morali, ma deleuzianamente-spinozianamente etiche, ovvero forme di vita che si costruiscono nella maniera più ecologica immaginabile proprio a partire dall’umanizzazione dell’universo. De Castro, in Esiste un mondo a venire descrive proprio queste società radicalmente antropomorfiche e proprio per questo non antropocentriche. Per questi amerindi, tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano.

In ogni caso, i nostri autori giungono ad affermare che l’unico modo per costruire quest’etica non antropocentrica che vanno ricercando è la valorizzazione della contingenza, tanto più presente nell’Antropocene, in forza dell’esistenza pervasiva di ibridi, di composizioni che nella loro assoluta contingenza e quindi fragilità sono da salvaguardare. Come le saline di Priolo o le tubature della Chevron al largo della California, elementi originariamente distruttivi di ecosistemi ma che poi hanno dato a loro volta vita a ricchissimi ecosistemi, brulicanti di vita, composizioni dell’Antropocene. Oppure, utilizzando un termine caro ai due studiosi: monumenti del rapporto tra uomo e natura. L’oggetto prodotto da tale ibridazione ha valore in sé, poiché nella sua contingenza è il datum da salvaguardare, che è che potrebbe non essere più. A questi ibridi si rivolge la proposta etica di Pellegrino e di Di Paola.

Mi pare ci sia un problema in questo tipo di prospettiva. Se la chiave di volta dell’argomentazione sta nella valorizzazione della contingenza in quanto tale, l’Antropocene non è forse il luogo ed il tempo in cui l’interezza delle composizioni naturali (oloceniche) si mostrano nella loro fragilità? La sesta estinzione di massa, in fondo, mostra la contingenza e la accidentalità del leone, del gorilla di montagna e dell’abete dei Nèbrodi. Non che gli autori non se ne rendano conto; solo, non si capisce bene perché questo non dovrebbe portare ad una difesa di tutto l’esistente in quanto tale, proprio perché è contingente. Come si concilia, insomma, questa posizione, con l’idea, spesso difesa dai due autori, che non si tratti di difendere spazi di natura wild o con ogni forma di esistenza in generale? D’altro lato, questo tipo di posizione, e questo è tanto più chiaro dagli esempi che abbiamo evidenziato (sono esempi riportati esplicitamente dai due autori), rischia di divenire, a posteriori, giustificativa di ogni forma di ibridazione. In fin dei conti, la Chevron devastò l’ambiente naturale in cui impiantò le sue tubature. Quale azione poteva essere meno raccomandabile di quella? Eppure, essa ha portato alla nascita di un ecosistema specifico, in quanto tale certamente da salvaguardare. Ma se la posizione diviene quella della valorizzazione di ogni possibile contingenza, non si rischia di avvallare simili azioni in forza della possibile nascita di composizioni così brulicanti di vita? Pare che la potenza del vivente di adattarsi e di proliferare anche dove alcuni umani fanno di tutto per eliminare la vita possa divenire l’arma giustificativa di una costruzione infinita, di un’azione senza limiti perché comunque portatrice di vita. Un’oscillazione, insomma, come sarà chiaro, tra due opposti, forse speculari: da un lato, la difesa di ogni elemento in quanto tale perché contingente, dall’altro il disinteresse verso ogni datum in quanto comunque superabile da nuove forme di contingenza. Non dico certo che questa sia la posizione dei due autori: mi chiedo solo se non possano verificarsi impasse di questo tipo quando si ponga al fulcro di tutto quello che è senza dubbio un valore fondamentale in un ragionamento che voglia mettere al centro l’ecologia, e cioè la contingenza.

Nella terza ed ultima parte gli autori passano alla politica, per tirare ancora in ballo il vecchio Deleuze. In prima battuta riconoscono la crisi della politica liberal-democratica di fronte alle sfide tipiche dell’Antropocene ed in generale della crisi ecologica, identificando diversi punti di caduta della difficoltà degli stati occidentali ad occuparsi di questa nostra crisi: responsabilità democratica, legittimità democratica, neutralità liberale. Senza l’ambizione di proporre soluzioni definitive a questa sfaccettata crisi Di Paola e Pellegrino propongono quello che secondo loro è un primo passaggio verso una “cittadinanza attiva” all’interno dell’Antropocene. Essi, ritenendo che, al fondo, grande spazio nella storia delle democrazie liberali abbia il “progresso morale” dei cittadini, i quali, se trasformati moralmente, possono imporre l’agenda ad una politica che per definizione segue i loro interessi manifesti e rivendicati, immaginano una “repubblica dei giardini”, nella quale un primissimo passo possa essere l’implementazione di quelle pratiche di orti urbani e di coltivazione interna agli spazi urbani (luoghi principe di quella dimensione ibrida da essi identificata come fondante l’Antropocene) che possano dare luogo ad un rinnovato interesse verso i temi ambientali. Una nuova forma di “cittadinanza attiva”, dunque, valida al tempo dell’Antropocene.

In questa ultima parte mi pare emergano con più forza alcune difficoltà inerenti all’approccio ed al tipo di “campo di azione” all’interno del quale il libro è pensato, nonché altri punti indubbiamente validi. Senza dubbio (e su questo è presente nel testo una valida critica a Bruno Latour) l’Antropocene impedisce di pensare la politica nella forma liberale, anche per i motivi identificati dagli autori. E’ quindi necessario porsi le domande che gli autori si pongono sul superamento di alcuni luoghi comuni delle liberal-democrazie. Allo stesso tempo, è certo che una politica all’interno dell’Antropocene non possa prescindere da una forma di etica, proprio nel senso di una forma di vita differente da quella generalmente moderna che (secondo una categorizzazione molto ampia e forse da rivedere nella sua genericità) ha abitato gli ultimi secoli. Torneremo su questo in conclusione.

D’altra parte, se i due autori rimangono pienamente interni alla prospettiva delle democrazie liberali e dello Stato (sottolineando, a mio parere con acutezza, che non può esistere una politica dell’Antropocene che non coniughi locale e globale), in queste pagine essi parlano di resilienza contro conservazione propendendo per la prima, in virtù di quel paradigma dell’ibrido che abbiamo visto in precedenza. E’ noto come il concetto di resilienzasia quanto di più problematico possa esserci da un punto di vista ecologico e come esso, unito a quello di adattamento sia alla base di tutti i discorsi ecomodernisti in primo luogo e di quelli legati alla green economy (per una critica approfondita di queste forme concettuali si veda il testo di Romain Felli, La grande adaptation, Seuil, 2016 ). Sembra proprio, in questi ultimi passaggi, che quell’oscillazione che abbiamo visto poco sopra tenda pericolosamente verso un giustificazionismo della trasformazione e della costruzione infinita. Abbiamo la prova che questo composizionismo ha un rischio teorico, certo non inevitabile, di non poco conto: quello di divenire politicamente e concettualmente poco servibile per identificare una qualsivoglia (anche relativa, modulabile) forma del limite, concetto che, appunto, non sembra piacere molto ai due autori, che rifiutano senza remore tutto il discorso relativo alla decrescita. D’altronde, i due autori sono chiari nel sottolineare che non si può ridurre la crisi ecologica alla dinamica capitalistica, nonché che ogni discorso che voglia fare seriamente i conti con la crisi ecologica non possa che essere di fatto pro-capitalistico, cioè, dicono Di Paola e Pellegrino, perché gli investimenti per politiche energetiche alternative non possono che derivare da investimenti, le cui risorse sono estraibili solo attraverso un’opera di convincimento dei capitalisti stessi, con i quali quindi è necessario venire a patti. (p. 217) Non esattamente un’idea conflittuale di politica, possiamo dire. La politica non è un rapporto di forza, è un’operazione di convincimento. Da questo punto di vista, la “politica dell’Antropocene” non pare così diversa dalla politica tipica della Terza Via degli anni ’90.

Si possono identificare due problemi in queste posizioni, in un libro che comunque conserva intatta la sua validità analitica ed il suo interesse (nonché la sua originalità). Il primo lo definirei di natura politica. Da questo punto di vista sembra che per i due autori la “politica dell’Antropocene” non possa partire che in una cornice che è quella della cittadinanza attiva, in cui i cittadini prenderanno coscienza (ma c’è davvero il tempo per aspettare tanto, nell’Antropocene?) della necessità di conservare l’ibrido e faranno leva sui loro rappresentanti perché rispettino le loro richieste, a questo punto “ecologiche”. Non pare, va detto, una grande soluzione (per quanto i due autori relativizzino sempre la portata delle loro proposte). Il problema mi pare, in parte, legato alla modalità con cui i due autori concepiscono l’istituzione. Secondo loro, le istituzioni sono sostanzialmente quelle già esistenti e al massimo le loro idee a proposito di “nuove istituzioni” sono quelle di tavoli di studio dei problemi delle generazioni future o ministeri specifici. Non c’è traccia né delle discussioni su neo-municipalismo ed ecologia, né di quel pensiero dell’istituzione che sta nascendo in giro per il mondo. E’ forse il concetto di comune che manca in questo tipo di approcci. Naturalmente, però, parlare di comune, anche e sopratutto in senso ecologico, significa immediatamente prendere come punto di attacco il capitalismo. Se si parlasse di comune a proposito dell’Antropocene, non per forza si darebbe tutta la “colpa” dell’Antropocene al capitale; ma certamente se ne vedrebbe l’uscita in una critica radicale del capitalismo. Non ci si potrebbe certo rammaricare, come fanno di due autori, del fatto che spesso i movimenti ecologisti si fondono e si intersecano con quelli che criticano il capitalismo come sistema di sfruttamento. E dunque è ancora il comune che si affaccia qui alla prova della politica e del legame possibile tra ecologia e politica. E che si affaccia in una duplice veste, politico-etica (ma non nel senso che i due autori danno a quest’ultima parola): il comune sarebbe un’istituzione ma anche (anzi, proprio per questo) una forma di vita, un’etica (ma nel senso di Spinoza, e non di Kant), dunque immediatamente politica. Non si tratterebbe di convincersi per convincere, ma di divenire altri.

Il secondo problema, è di natura direi più filosofico-teorica. Come si è ripetutamente detto, il fulcro della proposta dei due autori sta nel riconoscimento della natura ibrida dell’Antropocene e nel conseguente obbligo morale di riconoscere la contingenza degli ibridi dell’Antropocene. Abbiamo visto i possibili problemi che questa posizione può suscitare, come l’oggettiva oscillazione verso il paradigma della resilienza che si trova alla fine del testo. Si tratta forse, da parte di chi scrive, di una fissazione, ma non si potrebbe identificare il problema proprio in questo modo di declinare il tema dell’ibridazione? E cioè, pensare la composizione come indefinitamente data a partire dall’incontro dell’infinità degli elementi che popolano il mondo (umani e non-umani), tutti interni alla natura e quindi tutti “natural-culturali” non porta forse a non dare gli strumenti per pensare un relativo limite, un confine modulabile, di questa composizione? In fondo, parlare di Antropocene, oltre che parlare di ibridi, non vuol dire anche parlare di ciò che non si può continuamente costruire?Forse il punto è proprio questo. Tracciare una linea si può fare solo se ci si ricorda che la contingenza di cui tanto e giustamente parlano i due autori, è davvero propria di tutto l’universo, almeno nelle sue forme specifiche (altri avrebbe detto, dei suoi modi). E dunque anche di quei particolari ecosistemi e vite che devono essere colte nella loro specificità, e non all’interno di un quadro che parli di una generica potenza della vita, in quanto tale sempre ibridabile e sempre in grado di adattarsi alle tubature della Chevron. Si tratta forse, e questo non nega certo una prospettiva che valorizza l’ibrido ma prova a completarla, di smettere di concentrarsi sempre sulla composizione indefinita, che non pone limiti alla costruzione, ma di pensare l’Antropocene a partire da quella parte incostruttibile della Terrache è forse la vera bandiera di chi combatte in una Valle, in un campo di ulivi, o in una foresta Amazzonica. Non certo una Terra originariamente data, non certo la wilderness: ma quello spazio di gioco tra Dato e Azione, tra Attivo e Passivo, tra un mondo con le sue regole e la sua autonomia e un essere umano parte di questo mondo, su cui ed in cui solo può darsi costruzione (inevitabilmente necessaria ed anche positiva, come lo è la tecnica). E senza il quale spazio, non potrà più esserci, in futuro, alcuna costruzione.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Effimera, 20 giugno 2018. Segnalazione di libro che affronta come gli abitanti più compiti da disastri ambientali, sanitari ed economici riescono a resistere al neoliberismo eurocentrico che si avvale anche del neofascismo, del razzismo e del sessismo.

Il libro Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo comprende 17 capitoli scritti da 15 autori di diversi paesi sulle resistenze ai vari disastri in Turchia, Libano, Tunisia, Spagna, Francia e Italia e in generale in tutto il Mediterraneo. Soprattutto dal XIX secolo e ancora di più dagli anni Settanta le popolazioni dei paesi mediterranei sono colpiti da disastri sanitari e ambientali che provocano milioni di morti e ammalati. A questo si aggiungono i disastri economici anch’essi dovuti alla devastazione del territorio e alla diffusione dell’inquinamento, oltre che alle guerre, alle neo-schiavitù; tutto ciò spinge a migrazioni disperate e spesso tragiche. La responsabilità di questi disastri è delle multinazionali e dei poteri politici che mirano sempre al profitto di pochi a tutti i costi. Si tratta del crimine contro l’umanità e il pianeta Terra, il fatto politico totale del XXI secolo che colpisce la maggioranza delle popolazioni prive di ogni protezione, in particolare nel mondo mediterraneo attaccato dal neoliberismo eurocentrico che si avvale anche del neofascismo, del razzismo e del sessismo.
Tuttavia, da anni si sviluppano sempre più le Resistenze delle vittime e degli abitanti delle zone più colpite che riescono anche a conquistare alcune vittorie quando si crea collaborazione fra essi e i professionisti non corrotti delle agenzie di prevenzione e controllo e delle varie istituzioni, associazioni e sindacati. Il libro vuole valorizzare e promuovere tutte le resistenze perché esse indicano l’unica prospettiva di effettiva resilienza rispetto ai disastri, la fattibilità di bonifiche e risanamento delle realtà a rischio, di estinzione e riconversione delle attività che producono morte. Promuovere la collaborazione di tutti e quindi delle diverse conoscenze e competenze per lo sviluppo delle resistenze: questa è la scommessa per non rassegnarsi alla morte stessa del Mediterraneo costruendo collettivamente prosperità e posterità dignitose per la maggioranza delle popolazioni oggi priva di tutele sufficienti.

"Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo", DeriveApprodi, Roma, 2018. A cura di Salvatore Palidda, con contributi di Mara Benadusi, Anna D’ascenzio, Kamel Doraï, Sümül Kaya, Stefania Ferraro, Antonio Mazzeo, Luca Manunza, Laurent Mucchielli, Salvatore Palidda, Jean Francois Pérouse, Antonello Petrillo, Vittorio Sergi, Salvo Torre, Lucia Vastano, Zoé Vernin.

Qui potete scaricare e leggere il capitolo 17, scritto da Salvatore Palidda: Quali insegnamenti trarre dagli studi su antropocene, capitalocene, necropolitica, per la resistenza ai disastri ed elaborare alternative?

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.


Riceviamo da Guido Viale e e pubblichiamo lo scritto inviatoci dall'autore uscito in formato ridotto su il manifesto di oggi. Due tragedie, che Viale connette in un unico discorso, centrali per la nostra sopravvivenza. (e.s.)


Che cosa ci siamo dimenticati? Chiedeva Urbi et orbi, a Roma e al mondo, the Young Pope di Sorrentino. Ci siamo dimenticati i cambiamenti climatici e la conversione ecologica.

I cambiamenti climatici provocati dai combustibili fossili colpiscono tutto il pianeta. Ma devastano di più i paesi fragili ed esposti, quelli da cui proviene la maggioranza dei profughi e dei migranti odierni, per lo più sfuggendo a guerre e conflitti innescati da una riduzione delle fonti di sopravvivenza e dall’appropriazione da parte di alcuni, o di pochissimi, delle terre e delle risorse ancora disponibili. Sono guerre e conflitti in gran parte alimentati anche da diversi Governi dell’Occidente e non, che hanno trasformato in rapina economica e degrado ambientale il controllo diretto che esercitavano quando quei paesi erano ancora le loro colonie.

I cambiamenti climatici in corso si possono ancora frenare, e in parte anche invertire; le terre che ne vengono devastate si possono bonificare e recuperare; i profughi ambientali e di guerra costretti ad abbandonarle potrebbero, e in molti vorrebbero, tornare da dove sono partiti per ricostruire i loro paesi e rigenerare le loro terre e le loro comunità, se solo ne avessero la possibilità; e molti altri loro connazionali potrebbero a loro volta partire alla volta dell’Europa, decisi a fare ritorno, dopo aver lavorato qualche anno con noi, se avessero la possibilità di farlo per vie sicure e legali. Niente di ciò che sta trasformando l’Europa in una caserma, il Mediterraneo in un cimitero e la Libia in un Lager è irreversibile, ma non c’è più molto tempo. Tra breve quei processi diventeranno irreversibili: il pianeta Terra si trasformerà in un habitat insopportabile per la maggior parte dei suoi abitanti, compresi quelli che oggi si sentono al sicuro; le persone costrette ad abbandonare il loro paese per cercare di sopravvivere si conteranno a centinaia di milioni; il falso benessere che molti di noi (in realtà sempre meno) pensano di poter difendere con barriere sempre più alte intorno al proprio paese, affidando a politici menzogneri il compito di costruirle, è destinato a dissolversi nel giro di pochi decenni. Ne beneficeranno solo i ricchissimi: sempre di meno è sempre più ricchi, come già sta succedendo da tempo sotto i nostri occhi.

Per anni i padroni del petrolio e quelli delle industrie che ne dipendono, corrompendo studiosi, politici e giornalisti, hanno cercato di negare il pericolo mortale dei cambiamenti climatici e loro cause, pur sapendo benissimo quanto quel pericolo fosse invece reale; anche i militari lo sapevano benissimo e si preparavano da tempo a combattere non più il comunismo, il narcotraffico o il terrorismo (tutte cose con cui hanno giustificato in passato la necessità di armarsi sempre di più), bensì le ondate migratorie che avrebbero investito le cittadelle ricche dell’Occidente quando gli effetti dei cambiamenti climatici cominceranno a farsi sentire in modo diffuso e profondo: lo testimonia un documento del Pentagono di 15 anni fa.

Oggi non si nega più niente di tutto ciò; semplicemente lo si ignora: lo fanno politici, media, giornalisti, intellettuali, solo flebilmente contraddetti dal grido di quegli scienziati che vedono avvicinarsi la notte per la vita umana sul nostro pianeta. Il problema al centro della politica, in Europa come negli Stati Uniti, è ormai solo come fermare i profughi ai confini esterni o interni degli Stati, come se i migranti si materializzassero improvvisamente ai bordi del Mediterraneo o alla frontiera con il Messico, senza preoccuparsi né del prima né del dopo.

Il “prima” è la devastazione delle terre, la rapina delle risorse, le guerre e la vendita di armi che hanno costretto tanta gente, e continueranno a costringerla, a fuggire. Il dopo, se un dopo ci potrà ancora essere, non è certo “la crescita”, i pochi punti o decimali di punto di aumento dei PIL, purchessia, che economisti, politici e banchieri si affannano a inseguire come se fosse quella la chiave della salvezza per tutti (lo è solo, e per poco tempo, per alcuni di loro). Il vero “dopo”, se sapremo costruirlo, è quello che può offrire terra, casa, lavoro a tutti, migranti e nativi, anche a chi si ritrova sempre più ai margini di una società che non offre e non promette più niente, se non rinunce e sacrifici; e proprio mentre fa balenare davanti agli occhi di tutti i lussi sfrenati dei pochi che possono permetterseli. Quel futuro per tutti c’é solo nella conversione ecologica, nella cura della casa comune, nella salvaguardia della Terra; cioè nell’abbandono in tempi rapidi di tutti i combustibili fossili, nella riconversione delle industrie inquinanti e delle fabbriche di armi, nella chiusura di tutti i cantieri delle “Grandi opere” che devastano il territorio e non creano né occupazione né benessere, nell’arresto del saccheggio delle risorse, nell’abbandono della cultura e dell’economia dello scarto, che trasforma uomini e cose in rifiuti nel più breve tempo possibile, nella lotta alla povertà e allo sfruttamento garantendo a tutti, migranti e nativi, un reddito sufficiente a vivere, ma anche la possibilità di studiare, imparare e trovare un lavoro che valorizzi le capacità di ciascuno.

Sono le cose che tutti (tranne chi vive dello sfruttamento altrui) sognano, ma che sono riusciti a farci credere che siano irraggiungibili perché il problema vero sarebbe la crescita che non porta più nessun vantaggio se non a chi ha già tutto e vorrebbe avere sempre dì più. Sono le uniche cose di cui dovrebbero parlarci i partiti politici, invece di impegnarsi in una corsa cinica, crudele e mortifera a chi fa di più e meglio per respingere i migranti che cercano di raggiungere l’Europa: pochissimi, finora, rispetto ai tanti costretti ad abbandonare le proprie terre. Così la politica è avvizzita e si è incrudelita; e invece di capire, studiare e spiegare come tutti quegli obiettivi, e altri ancora, si potrebbero ricondurre a un unico grande programma per rimettere in sesto il nostro pianeta, articolandolo paese per paese, città per città, quartiere per quartiere, azienda per azienda, campo per campo - e che senza l’arrivo di nuovi migranti e senza dare loro la possibilità di tornare per risanare le terre e le comunità che hanno lasciato - nessuno di quegli obiettivi potrà mai essere raggiunto (e le nostre condizioni peggioreranno sempre più), ci si accanisce lungo una spirale che ci sprofonda nella miseria.

Ma chi potrà fare quello che finora nessuno ha fatto? Possiamo cominciare con le associazioni, i comitati, i gruppi impegnati sul terreno della solidarietà e dell’accoglienza, che sono tanti ma non hanno voce né peso, soffocati da un dibattito insulso che parla d’altro e si svolge altrove. Di lì possono nascere e crescere le forze in grado di misurarsi con ciò che il nostro tempo mette all’ordine del giorno.

Il manifesto, 10 luglio 2018. Non è mai troppo tardi per comprendere. Un profeta ascoltato troppo poco ci ammonisce ancora. Forse è l'ultima occasione, non solo per noi ma per l'intera razza cui apparteniamo. Con commento. (e.s.)
Èormai quasi da un secolo che conosciamo il destino che toccherà alla nostrarazza se continuerà a consumare il pianeta Terra alla velocità a cui lo stafacendo. Un evidente vantaggio sulle altre razze di esseri viventi che hannoabitato il nostro pianeta e ne sono scomparse. A differenza dei dinosauri e degli altri animali cancellati dalla storiadella razza umana avevamo (o credevamo di avere) un quoziente più alto d’intelligenza:di conseguenza avevamo la capacità diconoscere il mondo, i suoi accadimenti, i suoi rischi e i modi per evitarli.

La storia ci conferma che per molti secoli è stato così: sembra che l’uomo avesse imparato a consumare ciò che era strettamente necessario alla sua esistenza (sia pure con gigantesche disuguaglianze tra chi consumava molto e moltissimo, e chi poco o pochissimo). Poi è successo qualcosa, una sorta di virus si è impadronito degli umani. Lo abbiamo chiamato “sviluppismo”, e abbiamo inventato, predicato e praticato i modi per vincerlo, o almeno miticarne gli effetti; si parlava di “lotta al consumo di suolo”, di “urbanistica”, di “pianificazione territoriale”. Lo ricorda Giorgio Nebbia, in questo articolo di cui raccomandiamo la lettura. (e.s.)


Il manifesto,11 luglio 2018
Clima, una lunga storia con i suoi inascoltati profeti
di Giorgio Nebbia

«Le tre alternative ai disastri ambientali: rassegnarsi, adattarsi, pianificare. La terza soluzione significa darsi l’obiettivo di non occupare nuovi spazi»
«L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra»: queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953, quando le bombe atomiche esplodevano nell’atmosfera.

Esplosione che stavano diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta. Nei decenni successivi l’umanità ha conosciuto un aumento dei consumi e dell’uso dell’energia e delle risorse naturali, accompagnato da un corrispondente aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e liquidi e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera, che stanno modificando la composizione chimica dell’atmosfera con conseguente aumento della temperatura media del pianeta.

Tale aumento provoca alterazioni nella circolazione delle acque e le conseguenze si vedono sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di frane e allagamenti in altre.

Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste.

Già novanta anni fa i biologi matematici Volterra e Kostitzin avevano spiegato che l’intossicazione dell’ambiente dovuto ai rifiuti delle attività dei viventi porta ad un inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano, tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant’anni fa Commoner («Il cerchio da chiudere») aveva scritto che i guasti ambientali sono proporzionali al “consumo” procapite di merci e risorse naturali e alla conseguente produzione di scorie. Temi poi ripresi dal libro sui «Limiti alla crescita». Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere economico e dalle autorità politiche perché disturbano il ”normale” andamento delle cose.

Che fare per, almeno, attenuare costi e dolori? Ci sono varie alternative: quella attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci saranno sempre più frequenti disastri ambientali come quelli che hanno devastato la bella Nuova Orleans, o le Filippine, o le fortunate isole e coste turistiche, e rimediando i danni con i soldi. In Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro devastati da eventi futuri.

Lo stesso vale per i disastri mondiali per i quali le comunità locali o internazionali spendono soldi per risarcire i danni che le persone hanno subito, per l’imprevidenza dei loro governi i quali non hanno preso le precauzioni — tanto per cominciare la limitazione delle emissioni di gas serra — che avrebbero salvato vite e beni; poco conta se aumentano i dolori umani e le morti che non entrano nelle contabilità nazionali e aziendali, poco conta se l’agire “come al solito” provoca migrazioni di masse umane in fuga dall’avanzata dei deserti, dalle zone devastate da cicloni e frane, provoca conflitti senza fine fra popoli che si contendono terre in cui vivere.

La seconda alternativa È offerta dalla recente invenzione della resilienza, cioè dell’adattamento alle prevedibili catastrofi senza fare niente per prevenirle. Si sa che le tempeste tropicali e l’aumento del livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: pensiamo allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive; si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni: pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. la fantasia dei resilientisti è senza fine nel suggerire come adattarsi alla ”cattiveria” della natura e del pianeta senza ricorrere a divieti che rallenterebbero il glorioso cammino della crescita economica.

Ci sarebbe un’altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura e prevedere come circoleranno le acque e le masse d’aria in conseguenza di quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in atto, cioè di consumare meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le forze distruttive della natura.

La chiamavano pianificazione territoriale ed era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché perfino il minimo rimedio della pianificazione presuppone lo “sgradevole” coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi catastrofici.

Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento [trecento- n.d.r] metri di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di prevenzione, priva l’uso delle zone più appetibili e ne danneggia i proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo stato che, teoricamente, sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia di vendere le spiagge ai “concessionari”, dopo che essi hanno già devastato le zone ricevute in affitto.

La pianificazione e la prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà (privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano “ad altri” di risparmiare costi futuri. nessuna ragionevole persona, nella società del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando “ad altri”, non al prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più rivolgiamo un pensiero a “quei poveretti”, fra una forchettata e l’altra. E così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Avvenire, 4 maggio 2018. I disastri inconsapevolmente compiuti da chi governa e non pratica la pianificazione del territorio. Ma loro non sono le vittime, sono i carnefici. Con postilla

Vent’anni fa, tra il 5 e il 6 maggio 1998, una colata di fango scendeva su Sarno soffocando 137 persone, più altre 23 nei Comuni di Siano e Bracigliano, in provincia di Salerno, e in quello di Quindici (Av). 160 morti causati da un nubifragio eccezionale (30 cm di pioggia in tre giorni) che provocò il veloce scivolamento di due milioni di metri cubi di terra dai fianchi del Pizzo d’Alvano; altre frane interessarono diversi versanti del monte. La frazione Episcopio di Sarno venne completamente distrutta da 5 metri di fango, tanto da essere soprannominata «Pompei del 2000»; anche l’ospedale della cittadina venne spazzato via. Ma nella tragedia si intravede anche la colpa degli uomini: molte abitazioni erano costruite su terreni a rischio e il sistema fognario dei paesi colpiti era insufficiente. L’ex sindaco Gerardo Basile sarà processato e prima assolto, poi condannato a 5 anni di domiciliari. Dopo quel disastro si decise finalmente la sistematica mappatura del rischio idrogeologico in Italia.

Sarno, Italia. Vent’anni dopo. «Allora fu un fatto devastante» ricorda Francesco Russo, che era vicepresidente dell’Ordine dei geologi della Campania quel 5 maggio 1998, in cui la marea di fango si portò via un intero territorio. Le tracce sono visibili ancora oggi, sotto le volte del vecchio ospedale: in quelle ore, venne inghiottito tutto, gli uomini e le cose.

Sarno pagò il prezzo più alto, con 137 morti e la frazione Episcopio spazzata via dalle colate di lava fredda. Annichiliti anche i Comuni di Quindici, Siano, Bracigliano e San Felice a Cancello. Cosa resta di quella tragedia? «Il problema è stato proprio la gestione del dopo, in termini di pianificazione e di gestione del territorio» sottolinea adesso Russo.

All’epoca, furono fatali la quantità enorme di pioggia, i ritardi nella comunicazione dell’allarme imminente alla popolazione, il mancato sgombero di alcune famiglie. Scene che poi si sono ripetute, a distanza di anni, in altre situazioni e hanno interessato altri angoli della nostra penisola. Sulle opere compiute in questi anni, si discuterà in un convegno organizzato domani a Salerno, nel giorno dell’anniversario della tragedia: secondo i tecnici, Sarno ha visto completarsi l’85% delle opere previste. «Ma è venuta meno la messa in sicurezza della montagna» ha osservato Antonio Milone, che in quella tragedia perse il padre e che da anni guida l’associazione dei familiari delle vittime. Il problema vero è la manutenzione e dei fondi, che non ci sono.

Ad allungare lo strazio dei parenti delle vittime è rimasta in piedi anche la questione risarcimenti. Sarebbero una settantina i giudizi pendenti. «Non sediamo ai tavoli che contano – si lamenta Russo, a nome di tutti i geologi – . Si tagliano le risorse per la difesa del suolo e nessuno ha ancora capito davvero che, senza la necessaria messa in sicurezza di tutto il territorio, l’Italia resterà un Paese senza vere prospettive di sviluppo».

Nell’atto di accusa della categoria, c’è ovviamente il continuo rimpallo di responsabilità sul 'chi fa cosa', l’eterno scaricabarile che si mette in atto in Italia quando si parla di dissesto idrogeologico. «Vuole un esempio? Il cosiddetto 'vascone' di Sarno è stato pensato perché dovrebbe raccogliere una gran mole d’acqua nel caso di precipitazioni enormi, come quelle della primavera del 1998. Da solo non basta, però, se non si progetta a monte. Altre cose vanno completate, a partire dalle opere di contenimento».

È il rischio delle altre 'Sarno d’Italia', spesso dimenticate e trascurate, quello che va dunque esorcizzato una volta per tutte. In che modo? Puntando sugli interventi non strutturali, attraverso l’attivazione di presidi territoriali sull’intero territorio nazionale, valorizzando l’esperienza che fu avviata nelle zone interessate dagli eventi alluvionali del 1998, in modo da garantirne l’operatività non soltanto nelle fasi emergenziali, ma soprattutto in tempi di tregua. Quando si potrebbe fare di meglio e di più.

postilla

Ogni volta che accade una "calamità naturale", o la si ricorda, ci si comporta come dei bambini di prima elementare, anche se si pontifica dalle cattedre mediatiche o si finge si essere dei tuttologhi. Il guaio è che la cultura moderna ha trasformato l'uomo in un essere che sa guardare la realtà (ogni realtà) come se fosse un ammasso casuale di pezzettini privi di connessioni, se non quelle create dal caso.
Sfugge a tutti che la cose che ci appaiono come frammenti di un caos sono spesso realtà
olistiche: realtà che sono un insieme organizzato e coerente di parti interdipendenti le une dalle altre, talchè manometterne una, o anche semplicemente spostarla, significa rompere un equilibrio e, spesso, provocare un caos.
La superficie del nostro pianeta, il territorio, è appunto una realtà olistica, e per intervenire su di essa e governarne le trasformazioni occorre una visione che sia anch'essa olistica. Perciò l'unico procedimento inventato per governare il territorio senza farlo precipitare nel caos (oppure in qualcosa interamente governato dalle sole leggi della natura), è quello della sua pianificazione: si, la pianificazione territoriale, parte di una disciplina negletta e abbandonate alle ortiche per lasciare campo libero a ogni mano rapace e ignorante che vuole trasformare un pezzettino di suolo per diventare un po' più ricco o più potente.

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