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Un libro prezioso che offre una prospettiva d'insieme e una critica documentata sul progressivo disimpegno dello stato nel campo delle politiche abitative ultimi quattro decenni. (m.b).

Anno di ricorrenze, questo 2018. In estate saranno quarant’anni esatti dall’entrata in vigore, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, della legge 457 sull’edilizia residenziale e della legge 392 sull’equo canone. Il 9 dicembre, saranno vent’anni dall’approvazione della legge 431 che ha liberalizzato il mercato dell’affitto e l’ultimo giorno dell’anno ricorreranno vent’anni dall’abrogazione del contributo GESCAL, che ha segnato la fine dell’impegno dello stato nel settore dell’edilizia pubblica.

Quarant’anni sono anche il periodo coincidente con la vita lavorativa di Giancarlo Storto, già direttore generale delle Aree urbane e dell’edilizia residenziale presso il Ministero dei Lavori pubblici, che una volta in pensione ha deciso di ripercorrere criticamente la lunga stagione di cui è stato testimone diretto. Il suo libro La casa abbandonata, uscito in questi giorni per Officina Edizioni, offre una prospettiva storica e un inquadramento complessivo al susseguirsi di provvedimenti e iniziative che hanno progressivamente smantellato l’intero settore delle politiche abitative pubbliche. E per questo risulta particolarmente prezioso.

Le conseguenze negative della disarticolazione del progetto riformatore iniziale e della scomparsa - anche lessicale - dell’edilizia residenziale pubblica, le difficoltà di gestione del patrimonio realizzato, la dialettica con la pianificazione urbanistica, la mancata integrazione con le politiche sociali, l’accondiscendenza verso il settore edilizio privato e gli intrecci con la rendita immobiliare, il primato attribuito alla proprietà della casa a discapito dell’affitto, le ripercussioni della mancata riforma istituzionale e della contraddittoria ripartizione di competenze fra stato, regioni ed enti locali: tutti i nodi critici della questione della casa sono affrontati con riferimenti precisi accompagnati da chiare sottolineature, come questa: “Non pare vi sia consapevolezza nelle istituzioni” che la gestione sia parte integrante dei piani e dei programmi e “appare essersi radicata negli uffici una sorta di accettazione passiva sull’ineluttabilità delle disfunzioni”. Come dirlo meglio e come non convenire sul fatto che la sottovalutazione di questi aspetti si sia rivelata esiziale perché ha accreditato la propaganda contro la burocrazia che alimenta il circolo vizioso in cui siamo tuttora intrappolati?

Dobbiamo a Giancarlo Storto anche un doveroso riconoscimento per aver ideato e sostenuto, alla fine degli anni novanta, i Contratti di quartiere, un’iniziativa di carattere sperimentale rivolta agli insediamenti di edilizia residenziale pubblica. L’unico tra i programmi complessi che non ha fatto affidamento sulla leva immobiliare. Nel libro si sottolinea che dagli esiti positivi di questa vicenda, così come dai difetti e dai limiti riscontrati sul campo, si sarebbe potuto imparare molto per definire i contenuti di una rinnovata stagione di politiche pubbliche intersettoriali, inclusive e abilitanti e per riorganizzare e rivitalizzare, conseguentemente, la macchina amministrativa. Nulla di tutto ciò è accaduto, come ben sappiamo, a dispetto del profluvio di proclami spesi sulle periferie e sulla rigenerazione urbana.

Come mostrano questi due piccoli esempi, nonostante l’autore non rinunci ad esprimere giudizi severi, La casa abbandonata sfugge ai cliché dell’indignazione e della denuncia, così come a quelli del fallimento e della sconfitta. È invece un testo rigoroso e meditato, cosa rara in questi tempi sguaiati. Per questo lo possiamo inserire tra i libri indispensabili. Quelli che si consultano quando serve un riferimento affidabile, ma nei quali troviamo le parole giuste per interpretare e raccontare le questioni che ci stanno a cuore.

Giancarlo Storto, La casa abbandonata, Officina edizioni, Roma, 2018

Riferimenti

Su eddyburg abbiamo pubblicato molti articoli sulla fine delle politiche abitative pubbliche, mascherata dalle retoriche e dal sostegno al cosiddetto housing sociale, prodotta dall'affermazione del pensiero unico liberista anche in questo settore. Per accedere basta fare un click sull'etichetta "abitare è difficile", subito sopra il titolo del post.

Internazionale, 24 novembre 2017. Gli abitanti e la vita a Cosmopolis, una delle tante gate community per la middle class di Bucarest, lontana dalla città, recintata, vigilata, verde, sicura, e socialmente omogenea. (i.b)

Ai margini di Bucarest cinquemila persone vivono in un invitante universo parallelo, lontane dalla confusione della città. Casette dai tetti color turchese, come nel Monopoly, si affacciano su un lago e, più avanti, palazzi gialli di dieci piani incorniciano grandi piscine piene d’acqua limpidissima. Tutti lasciano i telefonini e i portafogli in vista sulle sdraio. Un pallone rimbalza sull’acqua. Un ragazzo abbronzato con un braccialetto rosa al polso si tuffa per prenderlo, schizzando le persone a bordo piscina. Tutti portano lo stesso braccialetto di plastica. Indica che hanno il permesso di stare qui.

Il complesso residenziale Cosmopolis

Cosmopolis è uno dei più grandi complessi residenziali della zona di Bucarest, premiato perfino a livello internazionale. Qualche anno fa qui c’erano solo terreni abbandonati lungo le rive del lago Creţuleasca. Oggi c’è un quartiere che appartiene al comune di Ştefăneştii de Jos. L’ingresso ricorda una frontiera: muri, cancelli e guardie. Uno dei vigilanti, con occhiali da sole, maglietta azzurra e pancia d’ordinanza, fa la stessa domanda a tutti gli sconosciuti: dove va? Qui possono entrare solo i residenti, altrimenti bisogna essere annunciati con una telefonata in portineria.

La crisi è passata, gli stipendi crescono, e sempre di più gli abitanti di Bucarest vogliono comprare casa in uno degli oltre cento complessi residenziali costruiti alla periferia della città. Queste strutture hanno servizi di vigilanza, parchi e piscine, e le case non costano più dei vecchi appartamenti del centro. Molti hanno fretta di comprare perché temono che i prezzi tornino a salire e raggiungano i livelli precedenti alla crisi. I dati di Eurostat mostrano che la Romania è il paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di proprietari di casa. L’affitto è considerato una soluzione transitoria, che sul lungo periodo serve solo a buttar via soldi. Per questo abbiamo cercato di capire perché i romeni sono così legati alla proprietà della casa, e soprattutto che vantaggi e che svantaggi hanno a vivere in quartieri periferici chiusi e mal collegati alla città. Abbiamo viaggiato tra passato e futuro, tra campagna e città, tra comunità reali e virtuali. E abbiamo capito che il modo in cui abitiamo dice molto su chi siamo e su chi vogliamo diventare.

Alice e Răzvan. È domenica prima dell’ora del pranzo e via Europa, nel complesso Cosmopolis, è deserta. Qualche alberello spunta dal cemento. Siamo a venti chilometri dal centro di Bucarest, fuori dal raccordo. Davanti al cancello c’è la fermata del minibus che porta in città; se non c’è traffico in mezz’ora si arriva alla prima fermata della metropolitana. La sala d’attesa ha le pareti gialle. Sotto un grande specchio è disegnato un divano azzurro, e dal soffitto pende un candelabro di finto bronzo. In fondo alla strada principale, in una casetta circondata da una palizzata bianca, abitano Alice e Răzvan Petrescu insieme alla loro figlia. Prima di lasciare la città sono stati in affitto a Cosmopolis per un periodo di prova. Quando Alice è rimasta incinta si sono decisi: hanno venduto l’appartamento di Bucarest e hanno comprato qui. In giardino hanno il barbecue, le sdraio, alberi da frutta e lillà. Alice ha piantato le erbe aromatiche che le ha dato la nonna. “Quando sei cresciuta in città e improvvisamente hai un pezzo di terra ti sembra una magia”, dice. Al piano di sopra ci sono le camere da letto, mentre al piano terra la cucina e il salotto, che si è trasformato in un parco giochi per la bambina. È stato il suo arrivo, raccontano, a convincerli a prendere una decisione radicale e a cercare un quartiere simile a quelli che avevano visto in Europa occidentale.

Alcune palazzine di Cosmopolis

A differenza che in città, qui Alice può andare tranquillamente in giro con il passeggino e non deve preoccuparsi per quello che può succedere alla bambina. Quando era piccola, Alice voleva diventare ginnasta, come Nadia Comaneci. “Solo che esercitandomi una volta ho battuto la testa sull’asfalto. Qui c’è l’erba”. I coniugi Petrescu hanno entrambi tatuaggi del gruppo musicale tedesco Rammstein sulle braccia e durante le vacanze vanno in giro per festival e concerti. La scorsa estate sono stati a un festival a Cluj, l’Electric castle, e a vedere i Depeche Mode, sempre con la figlia. Alice ha 37 anni, indossa una salopette a fiori e ha i capelli neri e lunghi, legati in una coda. Ha lavorato per otto anni e mezzo come consulente legale per una multinazionale, senza riuscire a occuparsi delle sue passioni: l’astronomia, la musica e l’arte. Alla fine ha deciso di mettersi a studiare pianoforte e di lasciare il lavoro. Insieme alla sua migliore amica ha aperto una scuola d’arte, Artskul, che aiuta le persone a sviluppare il proprio talento. Ed è soddisfatta. Con la nascita della figlia si è presa una pausa, e ora si prende cura della bambina, va in piscina e cucina.

A volte non esce dal complesso per settimane, perché qui ha tutto quello che le serve: supermercato, campi sportivi, bar, negozi. Perfino il dentista. Anche Răzvan è laureato in giurisprudenza. Indossa pantaloncini corti e una maglietta beige su cui è disegnato un topolino. Nella stanza da letto ha un diorama di Star Wars che si è costruito da solo con i mattoncini del Lego. Răzvan e Alice raccontano di essere scappati da Bucarest perché era troppo caotica e perché ai loro vicini non importava della pulizia e dell’ambiente. C’era chi gettava gli avanzi nelle condutture per la raccolta comune della spazzatura, chi gli scrollava la tovaglia sul balconcino. Loro si sforzavano di fare la raccolta differenziata, gli altri non capivano. “E quelli strani eravamo sempre noi”, spiega Alice. Le discussioni con i vicini erano quotidiane. A Cosmopolis, invece, tutti sono aperti alle novità, s’interessano di ecologia e stanno attenti a non disturbare. “Voglio vivere in una comunità di persone come me. La differenza di età comporta anche una differenza in materia di istruzione. La nostra generazione è molto più responsabile”, dice la donna.

Una vera comunità


Sempre a Cosmopolis, a pochi passi da Alice e Răzvan, in un appartamento di tre camere con terrazzo vivono Ramona e Cătălin Ivan, insieme a Puiu, il loro gatto, che hanno raccolto per strada. Dopo aver abitato per dieci anni in una casa in affitto, volevano avere un posto tutto loro. Ramona insegna inglese in una scuola privata di Greenield, un altro complesso residenziale che si trova al nord della capitale, e Cătălin lavora in un’azienda di comunicazioni al centro della città. Vivono qui da due anni e mezzo. Hanno deciso di trasferirsi perché passando in autostrada vedevano le casette del quartiere, con i loro tetti turchesi, e sognavano di viverci. “Quando siamo entrati per la prima volta nell’appartamento, abbiamo capito subito che era quello che volevamo”, dice Ramona. Consigliano anche ai loro amici di venire a vivere qui, perché Cosmopolis “è un posto più civile di Bucarest”. “Un autista della scuola dove lavoro mi ha raccontato che una volta è venuto a prendere un bambino a Cosmopolis”, racconta Ramona. “Appena ha passato l’ingresso, un altro bambino che era sul bus gli ha chiesto: ‘Signore, in che paese siamo qui?’”.

La persona che li ha convinti a trasferirsi a Cosmopolis è Gabriel Voicu, che dirige l’ufficio vendite del complesso. Porta la giacca, ma non la cravatta, e guarda continuamente l’orologio. Il suo telefono non smette di squillare, ma lui non risponde. Dice che l’85 per cento degli abitanti del complesso sono giovani, alcuni con bambini piccoli. Anche lui prima viveva a Bucarest, poi si è trasferito con la moglie e il figlio. “Il primo shock l’ho avuto quando è nato il bambino”, racconta. “Per arrivare al parco più vicino, quello di Herăstrău, mia moglie doveva camminare venti minuti in mezzo alle macchine. Allora ho capito che non avevo nessun motivo per restare in città. Ricordo il frastuono dei tram e delle macchine che passavano di notte a tutta velocità. Non riesco a credere di non sentire più quel rumore”. Voicu è cresciuto in un quartiere operaio a Costanza. Dice che somigliava a Cosmopolis perché “era una vera comunità”: gente della stessa età, con lo stesso status sociale e gli stessi ideali. Oggi è convinto che quasi tutti quelli che vivono a Cosmopolis siano felici della scelta fatta, tranne poche persone che si lamentano su Facebook per la qualità delle rifiniture, la polvere che entra dalle finestre e gli insetti.

Mille nuovi muri

Cosmopolis, Greenield, Militari Residence, Confort City e gli oltre cento complessi residenziali chiusi di Bucarest e dintorni, nel distretto di Ilfov, devono il loro successo ai romeni della classe media, spesso dipendenti di multinazionali. In alcuni casi questi inquilini hanno cercato di applicare allo spazio in cui vivono le regole del loro lavoro. In un complesso nel quartiere di Titan, per esempio, c’è chi ha proposto di introdurre un sistema per definire i problemi da risolvere e poi stabilire le priorità. Per entrare nel complesso Area Residence bisogna invece sostenere un colloquio. “Se non gli piaci, non ti vendono casa”, ci racconta al telefono compiaciuto un rappresentante degli inquilini. Quasi tutti i complessi residenziali hanno un ingresso sorvegliato, sono circondati da recinzioni o laghi e sembrano separati dalla città. All’interno le persone raccontano di sentirsi sicure, parte di una comunità in cui lo stato e altri fattori esterni intervengono il meno possibile.

Gli antropologi chiamano questi complessi residenziali gated communities. La loro diffusione si spiega con la mancanza di fiducia dei cittadini nelle autorità. Più precisamente, secondo gli studiosi europei e statunitensi, chi vive in queste strutture non crede che lo stato possa offrire servizi di qualità. Qui gli abitanti si gestiscono da soli. Come spiega l’urbanista statunitense Peter Marcuse nel suo saggio Walls of fear and walls of support (muri di paura e muri di sostegno) queste cittadelle offrono servizi di vigilanza, piscine, campi da tennis e da golf, aree gioco, ristoranti e palestre di cui gli inquilini usufruiscono in comune.

Le gated communities sono apparse per la prima volta negli anni settanta negli Stati Uniti, e poi si sono diffuse, verso la metà degli anni novanta, in Europa occidentale. Negli Stati Uniti oggi comprendono più di dieci milioni di abitazioni. Secondo i sociologi, la loro diffusione è legata alla crescita delle disuguaglianze sociali. In Romania questi complessi sono arrivati alla fine degli anni novanta e si sono moltiplicati dopo il duemila.

“Siamo passati dal controllo assoluto dello stato sull’edilizia abitativa degli anni del comunismo all’anarchia totale”, spiega l’architetto Ştefan Ghenciulescu, docente all’università di architettura e urbanistica Ion Mincu di Bucarest e direttore della rivista Zeppelin. Ghenciulescu è nato e cresciuto a Bucarest e da sempre osserva lo sviluppo della città. Negli anni novanta – racconta – i romeni odiavano la vita nei condomini, rifiutavano tutto quello che gli ricordava una dimensione collettiva. “Ognuno voleva la casa di proprietà. Con il giardino”, ricorda Ghenciulescu. Poi spiega che chi si sposta nei nuovi palazzi in periferia cerca di tenere insieme i vantaggi della vita di città con quelli della campagna. Ma alla fine non ha né gli uni né gli altri: “ Sei isolato dalla città e dai suoi benefici, ma non godi neanche della natura e del silenzio, perché in questi posti la densità abitativa è elevatissima. Si è costruito tantissimo, non ci sono veri spazi verdi né intimità”. Il motivo è che questi comprensori sono stati realizzati senza un vero progetto, senza pianificazione o infrastrutture. “In un sistema che funziona a volte è il comune che costruisce le infrastrutture”, dice Ghenciulescu, “altre volte è il costruttore stesso, che poi le cede alla città, altre volte ancora il pubblico e il privato collaborano. Da noi non succede nulla di tutto questo”. Dopo la rivoluzione del 1989 a Bucarest sono stati costruiti molti palazzi di oltre dieci piani. Parchi e spazi verdi sono stati restituiti ai vecchi proprietari, che li hanno usati per farci soldi e hanno cementificato tutto. Il risultato è che oggi gli spazi verdi sono pochi, meno di quelli previsti dagli standard dell’Unione europea. Inoltre, secondo i dati del produttore di dispositivi GPS TomTom, Bucarest è la quinta città più trafficata del mondo.

I complessi residenziali ai margini della capitale sono una conseguenza di questi problemi, “a prescindere dal fatto che le persone se ne rendano conto o meno”, dice Ghenciulescu. Molti li scelgono per sfuggire ai fastidi della città e per vivere in maniera più sostenibile. Ma non si rendono conto che, anche facendo scelte ecologiche, alla fine consumano più risorse lì che in città. I palazzi, infatti, occupano meno spazio delle case, sono più facili da riscaldare e consumano meno energia.

Un altro motivo che spinge i romeni a trasferirsi nelle gated communities è la presenza di guardie e sistemi di vigilanza. Tuttavia, contrariamente alla percezione generale, secondo i dati Eurostat sui furti denunciati, la Romania è uno dei paesi più sicuri d’Europa, allo stesso livello del Lussemburgo e meno pericolosa di Spagna e Francia. Ma non è l’unica nazione dell’Europa orientale in cui le strutture abitative protette da cancelli e recinti sono sempre più numerose. Sonia Hirt, preside della facoltà di architettura dell’Università del Maryland, negli Stati Uniti, ha studiato le gated communities di Soia, in Bulgaria. Dopo il crollo del muro di Berlino, racconta, i paesi dell’ex blocco sovietico hanno cominciato a erigere nuovi piccoli muri. Costruite intorno a case e palazzi, queste barriere sono di fatto la conseguenza di “forti tensioni sociali. E la quantità di ferro, cemento, mattoni e malta usati per costruirle è infinitamente maggiore di quella usata per tirare su il muro di Berlino”.

Disuguaglianze e traslochi

Cosmopolis e gli altri complessi del genere sono spazi impersonali, che offrono l’illusione dell’indipendenza. Chi ci abita non vuole avere i fastidi legati alla vita nei condomìni, con le regole imposte dai vicini e dagli amministratori, spiega Bogdan Iancu. Si fugge dalla città per sentirsi parte di una comunità con un livello di sviluppo più elevato. Iancu insegna antropologia visuale e sociologia della vita quotidiana e s’interessa alle modalità abitative della classe media e alle comunità recintate. È cresciuto in un palazzo nella città di Râmnicu Vâlcea e oggi vive in un appartamento di due camere in una zona semicentrale di Bucarest. Davanti ha i grandi edifici costruiti per gli operai ai tempi del comunismo e dietro le ville borghesi di inizio novecento. Iancu racconta che i complessi residenziali chiusi non si trovano solo a Bucarest, ma anche, seppure in numero minore, in altre grandi città del paese. Gli abitanti di Cluj-Napoca, tuttavia, sembrano preoccupati più per la chiusura degli spazi pubblici, che per la tutela di quelli privati.

Qualche anno fa l’associazione dei condomini di un palazzo ha fatto erigere una grande porta per limitare l’ingresso a uno dei punti più pittoreschi della città, lungo il canale del mulino, dove i bambini vanno da sempre a vedere le anatre. Adrian Dohotaru, un attivista poi eletto deputato con il partito Unione salvate la Romania, è stato tra quelli che si sono battuti per eliminare la porta. “Alla fine, dopo l’intervento del comune, la barriera è stata demolita, in quanto illegale. I muri non incoraggiano la mescolanza sociale”, dice Dohotaru, che ricorda come in Romania il problema delle disuguaglianze sia particolarmante serio. Per questo è convinto che le autorità dovrebbero cercare di limitare il fenomeno delle gated communities. “Il proliferare di queste strutture indebolisce la città.

Una democrazia efficace ha bisogno di spazi pubblici, non di luoghi chiusi in cui le persone si isolano sempre di più”. Più di altri centri romeni, oggi Bucarest è un aggregato di comunità recintate, separate dalla città da cattive infrastrutture. Spesso le strade di nuova costruzione non sono state pensate per far fronte al traffico generato dai grandi palazzi sorti in periferia. Oltre a quello delle infrastrutture, alcuni abitanti dei complessi recintati hanno anche un altro problema: dopo essersi trasferiti si rendono conto che la nuova vita non fa per loro e che il silenzio li disturba. Il cambiamento dello stile di vita riguarda anche chi decide di andare a vivere nei paesi poco fuori Bucarest. Carmen Mihalache, etnologa del Museo del contadino romeno ha lasciato il suo appartamento in città per trasferirsi nel comune di Chiajna.

Subito dopo il trasloco ha cominciato a studiare la storia di questa comunità, cercando di capire come i nuovi arrivati ne stiano cambiando le abitudini. Nel centro di Chiajna ci sono le case vecchie, ognuna con il suo orto e il suo giardino; in periferia si vedono invece i muri in cemento voluti dai nuovi abitanti per recintare i loro prati. Mihalache racconta che chi arriva dalla grande città non è interessato a entrare in contatto con la gente del posto e le sue tradizioni. In questo modo il divario tra i vecchi e i nuovi abitanti si allarga. “È come se venissero i colonialisti e si sedessero accanto ai nativi”, commenta Bogdan Iancu. Alcuni “cittadini” gli hanno confessato che a volte si mettono a guardano con il binocolo cosa fanno gli abitanti più poveri, come fosse “una specie di safari umano”, aggiunge l’antropologo.

I vantaggi del proprietario

Per comprare una casa spesso gli abitanti di Bucarest accendono un mutuo. E molti si rivolgono a Dragoş Nichifor, che dirige una delle più vecchie società di intermediazione finanziaria della città. Nel 2006 Nichifor ha comprato un appartamento in un quartiere semiperiferico della città. Allora il mercato immobiliare era in rapidissima crescita, tanto che era difficile anche solo riuscire a visitare delle case in vendita. Nessuno immaginava che presto sarebbe arrivata la crisi e i prezzi sarebbero crollati. “Ho visto l’appartamento per un paio di minuti, non sono nemmeno arrivato sul balcone. E ho subito detto all’agente immobiliare che l’avrei preso”, racconta. “È assurdo. Perfino per comprare una bicicletta ci si mette di più”. L’ideale, aggiunge, sarebbe “poter passare qualche ora nell’immobile, magari affittarlo per un giorno, passarci la notte”.

Nichifor segue il mercato immobiliare da quando era adolescente. Nel 2002 a Bucarest un appartamento di due stanze costava circa 15mila euro. Sei anni dopo, all’apice della bolla immobiliare, per lo stesso appartamento potevano volerci anche 120mila euro. La crisi ha fatto crollare i prezzi di oltre il 50 per cento, ma da qualche anno il mercato ha ripreso a crescere. Nel giro di cinque anni si potrebbe tornare ai livelli pre-crisi. Nichifor è convinto che i romeni non vogliano vivere in affitto per motivi economici, ma anche per colpa della burocrazia e delle falle nella legislazione che regola i rapporti tra proprietario e locatario. “Quando il mercato è caotico e non regolamentato, con ognuno che fa come vuole, è chiaro che possedere una casa offre certezza e stabilità”. In Romania la maggior parte degli affittuari non ha contratti registrati e non conosce i propri diritti. Il risultato è che, quando ci sono problemi, di solito si risolvono a favore del proprietario.

A quanto pare, continua Nichifor, i giovani sono quelli che hanno più fretta di comprare. Ma prendere un prestito prima dei trent’anni può essere un rischio, perché a quell’età è difficile prevedere che direzione prenderà la propria vita. E con la prima casa si può rimanere in trappola, senza la possibilità di rivendere o di affittare per cinque anni. Bogdan Suditu, esperto di pianificazione territoriale, è d’accordo. Anche lui crede che i giovani dovrebbero stare in affitto per un po’ prima di diventare proprietari. Tra il 2006 e il 2013 Suditu ha guidato l’ufficio per i servizi urbanistici, lo sviluppo locale e le politiche abitative del ministero dello sviluppo economico, e ha anche lavorato alla riforma dell’Agenzia nazionale per la casa (Anl), che dovrebbe offrire soluzioni abitative ai giovani senza mezzi economici. “Chi si occupa di politiche pubbliche in questo paese non si è mai concentrato sull’affitto”, dice Suditu, convinto che in Romania manchi un dibattito serio sulle politiche abitative, “forse perché l’edilizia è uno dei settori che ‘muovono l’economia’”.

Con qualche eccezione, in Europa occidentale e negli Stati Uniti è normale vivere in affitto, almeno in dai tempi della rivoluzione industriale. I proprietari controllano interi palazzi che amministrano come vere e proprie aziende. In alcuni paesi, poi, lo stato interviene a tutela degli inquilini. In Germania, dove quasi la metà della popolazione vive in affitto, i prezzi sono regolamentati dalle autorità e i proprietari non possono aumentare il canone prima della fine del contratto. In più, se vogliono riaffittare l’appartamento ad altri, devono prima parlare con i vecchi locatari.

Domicilio instabile

“Tre traslochi equivalgono a un incendio per quanto riguarda i danni che fanno a una casa”, dice Pompiliu Sterian. A 98 anni, Sterian recita nello spettacolo di teatro documentario Domicilio instabile accanto ad altri anziani della casa di riposo della comunità ebraica Moses Rosen, a Bucarest. In scena indossa una cravatta dorata e una giacca azzurra e racconta ai giovani come si viveva in città tra le due guerre e durante il comunismo. “I proprietari aumentavano continuamente l’affitto. Se non eri d’accordo, ti buttavano fuori. E non potevi farci niente perché non avevi un contratto”. Gli altri anziani snocciolano le loro storie, sempre influenzate dalla classe sociale di appartenenza. Alcuni ricordano con piacere il periodo prima della seconda guerra mondiale, quando erano proprietari di grandi case, e si lamentano del comunismo, che li ha costretti a vivere accanto a nuovi inquilini; altri raccontano che il comunismo gli ha permesso di vivere in appartamenti in affitto. Lo spettacolo è messo in scena dal regista David Schwartz, che lavora da tempo con gli anziani della casa di riposo. È un tentativo di raccontare i modi dell’abitare a Bucarest negli ultimi ottant’anni e di capire come siano stati percepiti dai cittadini i cambiamenti dell’ultimo secolo.

Schwartz ha 32 anni, è alto, porta i capelli corti e indossa una canottiera gialla larga e dei pantaloni corti di cotone. Ci incontriamo al Macaz, un teatro-bar gestito da una cooperativa di artisti. Il regista spiega di aver cominciato a interessarsi al tema della casa nel 2006, quando molti, tornati proprietari delle case che erano state nazionalizzate, hanno cominciato a sfrattare le famiglie povere che ci abitavano in aitto. Colpito dall’ingiustizia, insieme ad alcuni compagni di università Schwartz ha realizzato uno spettacolo teatrale per raccontare la sorte degli sfrattati. Da allora non ha mai smesso di occuparsi di povertà e disuguaglianze sociali. Katia Pascariu, una delle attrici che lavorano con lui, racconta che in Domicilio instabile è stato sorprendente vedere come i racconti degli anziani non coincidessero. Ognuno credeva che la sua esperienza fosse condivisa da tutti. Lo spettacolo è quindi un tentativo di mettere insieme punti di vista opposti sul tema dell’abitare. E si chiude con Sterian in , sul palco, che recita i seguenti versi:

Che ognuno abbia una casa,
con tante prelibatezze sulla tavola.
E, perché no?
Diciamolo chiaramente:
che sia anche proprietario.

Come in vacanza

In un appartamento di due camere nel quartiere di Drumul Taberei, la madre di Răzvan, l’avvocato che abbiamo conosciuto a Cosmopolis, tira fuori da un cassetto un servizio da cafè proveniente da Kaleh, l’isola sul Danubio che fu sommersa dall’acqua nel 1970 durante la costruzione della grande diga sul fiume, all’altezza delle Porte di ferro. Mariana Petrescu conserva anche altri oggetti della casa dei genitori, a Craiova: vasi di porcellana, candelieri e vassoi d’argento. Costruita dal nonno, la casa aveva due piani e dieci camere. Ai tempi del comunismo fu demolita per far posto a dei palazzoni. “Sono cose che non si dimenticano”, dice la donna. “Ci soffro ancora”. Mariana è piccola di statura, ha i capelli neri e porta un paio di occhiali con la montatura dorata. È ingegnera e fino a pochi anni fa insegnava all’università. Prima che l’edificio fosse demolito, i comunisti le avevano messo degli inquilini in casa e sequestrato gli oggetti di valore. “Allora avevo paura di invitare i colleghi: temevo che potessero vedere quello che avevamo”, dice. “E ancora oggi vivo con questo terrore: far entrare sconosciuti in casa”. Anche il padre di Răzvan, Sorin Petrescu, veniva da una famiglia considerata borghese ai tempi del comunismo. Avevano una casa e una piccola fabbrica di prodotti chimici: fu tutto confiscato. E lui fu mandato ai lavori forzati perché non aveva consegnato una collanina d’oro.

I genitori di Răzvan si conobbero alla stazione Obor di Bucarest. Erano entrambi pendolari e si resero subito conto di avere tante cose in comune. Lui la invitò al ristorante e dopo un anno si sposarono. All’inizio andarono ad abitare in un monolocale di 18 metri quadrati ricevuto dallo stato. Tenevano aperte porte e inestre perché gli sembrava di sofocare. Dopo la nascita di Răzvan riuscirono ad avere un appartamento di due stanze. Ma erano al piano terra e d’inverno si gelava. Dal 1987 Mariana ha cresciuto Răzvan da sola. “Da quando mio marito è morto non sono nemmeno più andata in vacanza. Non sono più stata da nessuna parte. Ho solo lavorato”. Răzvan era il suo unico appoggio. “Gli ho sempre detto che eravamo noi due soli. Anche se era un bambino, parlavo con lui di tutto quello che mi preoccupava”.

I soldi bastavano a malapena per arrivare alla fine del mese. Dopo il 1989 Mariana ha comprato dallo stato l’appartamento di due camere in cui abitava, prendendo un prestito alla Cassa di mutuo soccorso, alimentata dai contributi dei lavoratori. Lo stesso hanno fatto anche molti altri romeni, approfittando della misura che permetteva a tutti i cittadini di comprare dallo stato l’appartamento in cui abitavano (in quegli anni sono stati venduti più di 1,8 milioni di appartamenti, ciascuno per un prezzo equivalente a qualche stipendio mensile). Dal suo appartamento di Bucarest Mariana Petrescu pensa spesso al figlio che vive a Cosmopolis. Ricorda che in da piccolo Răzvan sognava una casa con giardino. Quando va a trovarli le sembra di “stare in vacanza”, anche se la loro casa non è “nemmeno un quarto di quella che avevano i miei genitori a Craiova”. All’ora di pranzo di una domenica qualsiasi la strada principale di Cosmopolis è deserta. Al cancello i vigilanti fermano le macchine che non riconoscono. Alice e Răzvan raccontano che a Cosmopolis speravano di trovare maggiore sicurezza per la figlia.

Una delle piscine di Cosmopolis

E per un certo periodo hanno creduto di aver fatto la scelta giusta. Ma le grandi manifestazioni contro la corruzione organizzate a Bucarest all’inizio del 2017 gli hanno fatto cambiare idea. A febbraio sono scesi in piazza anche loro e si sono resi conto che, per quanto cerchino di tenersi lontani dall’incompetenza delle autorità, vivere isolati non è possibile. Neanche dietro le barriere del loro complesso residenziale. Oggi pensano di lasciare il paese, magari per trasferirsi in Portogallo. “Quando penso che a un certo punto nostra figlia dovrà andare a scuola mi vengono i brividi”, dice Alice. Anche l’inefficienza della sanità pubblica le fa paura. Verso sera arriva la nonna per giocare con la nipotina. Sta con loro in giardino, all’aria aperta. Dice che Răzvan ha tutto quello che ha sempre desiderato: sicurezza, una famiglia, una casa. Lei l’ha aiutato come ha potuto e gli ha dato i soldi ricavati dalla vendita di alcuni terreni recuperati dopo il 1989. “Non importa quello che ho passato io. Questa è la mia ricompensa”.

Tutta la famiglia è riunita intorno alla bambina e ognuno vuole insegnarle qualcosa. Sul divano è appoggiata una bambola nera, sul tablet ci sono applicazioni sull’igiene e la salute, e sul tappeto sono sparsi pezzi di Lego che aspettano solo di essere assemblati. Ma la bambina vuole tornare in piscina. Prende la ciambella e, insieme al papà, attraversa il recinto bianco del giardino.
Riferimenti all'articolo originale: Internazionale 1232, pp. 62-69.
Link: https://www.internazionale.it

Tutte le immagini sono prese dal sito: https://blog.cosmopolis.ro/

The Guardian, 31 marzo e 31 ottobre 2017. Mentre si sta completando un grande progetto di rinnovamento di spazi pubblici, avanza la demolizione in massa di case economiche che sfratterà circa un milione di abitanti. (i.b)

Il centro della città di Mosca si sta rinnovando attraverso un grande progetto di riqualificazione urbana denominato “Moja Ulitsa” che significa “La mia via”. Lanciato nel 2014 dall’amministrazione comunale sta completando la realizzazione di 50 nuovi parchi, la risistemazione di 50 km di strade e piazza, 12 lungofiumi, e il restauro di moltissime facciate storiche, con progetti del Design Strelka e alcune star dell’architettura mondiale.


Uno dei lungofiumi riqualificati dal programma "La mia via"
Fonte: Russia Beyond
Una delle strade rinnovate dal programma "La mia via"
Fonte: Russia Beyond

A questo programma di riqualificazione si stanno affiancando due altre operazioni, entrambe meno pubblicizzate.


La prima, è un massiccio programma di demolizione delle case economiche del Soviet, le cosiddette "khrushchevka", tipici edifici per appartamenti a basso costo construiti negli anni Sessanta per fare fronte alla crisi abitativa. Questa decisione ha suscitato non poche proteste, ma anche consensi visto che, per legge, non si possono intraprendere demolizioni o ristrutturazioni senza il consenso dei 2/3 dei proprietari/residenti.

In primo piano i "khrushchevka" da essere demoliti,
sullo sfondo i nuovi edifici
Fonte: The Guardian

Pur essendo realizzati con moduli standard prefabbricati, senza ascensori e con materiali economici e metrature minime, gli edifici da demolire sono generalmente situati in zone ben dotate di servizi e spazi pubblici. La maggior parte dei residenti, diventati poi proprietari, hanno vissuto a lungo in questi appartamenti e stabilito delle relazioni profonde con il quartiere.

Il sistema prefabbricato di un edifico costruito nel 1961.
Fonte: The Guardian (Getty Images)

All’approvazione della demolizione i residenti hanno 90 giorni di tempo per evacuare e trovarsi un altro alloggio. Sono circa un milione le persone coinvolte nel programma di demolizione dei palazzi sparsi in diverse zone della città.

Con il sostegno del presidente Vladimir Putin, il sindaco di Mosca Sergei Sobyanin ha dichiarato il programma una "necessità assoluta" per poter sostituire le vecchie abitazioni. Mentre per molti abitanti questa è un operazione di pura speculazione, in cui i soldi hanno il sopravvento su qualsiasi altra cosa. I residenti sostengono che, pur non essendo perfetti e avendo bisogno di essere ristrutturati, sono solidi. Inoltre non solo rappresentano un pezzo di storia ma danno un senso di appartenenza a comunità di quartier consolidate nel tempo. Non vogliono trasferirsi in nuovi grattacieli costruiti in zone a loro estranee. Perchè nonostante le promesse dell’amministrazione sarà difficile che gli abitanti potranno rimanere in zona.


Uno dei "khrushchevka" in procinto di essere demolito
Fonre: The Guardian

L’amministrazione sostiene che i vecchi "khrushchevka" non sono ristrutturabili, ma analisti e attivisti sostengono che il programma è mosso soprattutto da una forte volontà politica di eliminare tutto quello che ricorda il Soviet e dagli interessi economici dalle lobby del mercato immobiliare, costruttori compresi.

Gli articoli del Guardian, qui sotto ripresi, documentano questo processo.

La seconda operazione riguarda la completa riqualificazione dei cortili residenziali. L'ufficio del sindaco sostiene che questi spazi, situati all’interno di grandi complessi, non dovrebbero essere dei passaggi pubblici aperti di collegamento, ma devono diventare degli spazi privati.

L’amministrazione è in procinto di adottare entro la fine dell’anno nuove norme regionali di pianificazione urbana che dividono per la prima volta i quartieri residenziali in aree private e pubbliche. Gli accessi al piano terra ai negozi e attività aperte al pubblico avverrà solo dalla strada per consentire che le corti di diventare degli spazi di “comfort” con accesso riservato e solo pedonale. Qui il link a un articolo del Russian Reader . (i.b.)






31 Marzo 2017

MOSCOW'S BIG MOVE: IS THIS THE BIGGEST URBAN DEMOLITION PROJECT EVER?
di Alec Luhn

In the 1970s, machinist Yevgeny Rudakov was living in a communal apartment with 30 people in north-central Moscow where “there was always a line for the toilet”. He was also in line for his own flat, through the institute where he worked.

Finally his turn came, and he and his wife were given a two-room flat at 16 Grimau Street. Built in 1957, the four-storey, 64-flat building is considered the first “Khrushchevka”, a kind of prefabricated, low-rise flat block that was erected in the tens of thousands across the USSR and came to be called after then-Soviet leader Nikita Khrushchev (The colloquial term has come to apply to almost any late Soviet five-storey residential building.)

Now 16 Grimau Street, along with up to 7,900 other Soviet flat blocks in Moscow, are to be torn down, in what will be one of the largest urban resettlement programmes in history. With the backing of the president, Vladimir Putin, Moscow mayor Sergei Sobyanin has declared the programme an “absolute necessity” to replace ageing housing. He promised the replacement flats would be 20% larger on average.

To Rudakov, however, it is just another example of profit taking precedent over heritage. “This is the first housing block that Khrushchev built. They don’t have any regard for this now,” he said of his home. “Money comes before anything else.” He added that he didn’t “know why Putin said” to tear such flat blocks down. “The building is good, the walls are thick.”

Yevgeny Rudakov, che vive in quello che è considerato
il primo "krushchevka", costruito nel 1957.
Fonte: Alec Luhn /The Guardian
Many residents have joined him in speaking out, fearful that the government will build huge housing towers rather than comfortable neighbourhoods, and resettle people far away from their current addresses. Many of the Khrushchevka buildings could be renovated, they say. Analysts have argued the demolition project is driven by politics and profits.

Furthermore, the federal legislation to give the Moscow city government power to knock down entire neighbourhoods has worrying implications for the rights of residents and small-business owners. Residents who do not sign an agreement to transfer ownership of their flat within two months will be taken to court. “They are forcing people out, like under Stalin,” said activist Lena Bogushch.

Opposition activist and former MP Dmitry Gudkov noted that the legislation would allow the government to tear down not just Soviet prefabricated flat blocks, but also nearby “analogous” buildings. When asked about how the fate of nearby buildings would be decided, the author of the law, MP Mikhail Degtyaryov, recently told TV Rain that a city commission would simply “take a neighbourhood and circle” the whole thing for demolition.

“The law allows the programme to be realised not in the interests of residents, but in the interests of the construction lobby,” Gudkov said.

Since Sobyanin came to power in 2010, Moscow has tackled several huge urban development projects. It has refurbished Gorky Park, opened the Moscow Ring Railroad, and started a 120bn-rouble (£1.4bn) renovation of one million sq metres of streets. It has encouraged the demolition and redevelopment of gigantic Soviet industrial areas.

But the programme to renovate five-storey buildings, as the city euphemistically calls it, will be by far the largest undertaking yet. Although the city has yet to list the buildings that will be demolished, Sobyanin has promised that 25 million sq metres of residential real estate – more than 10% of the city’s housing stock – will be torn down. An estimated 1.6 million people will be resettled. The city says it will spend at least 300bn roubles, and independent experts have estimated the actual investment will be 3tn roubles.

It’s not clear what kind of buildings will replace the Soviet housing. Moscow’s chief architect declined to comment, and the mayor’s office asked for written questions but failed to answer them.

Il Soviet costruì circa 200 milioni di metri quadrati di appartamenti tra il 1933 e il 1970.
Fonte: The Guardian (skyNext/Getty Images/iStockphoto)
Ubiquitous throughout the former USSR, Khrushchevka buildings stand as testaments to a sea-change in Soviet policy and culture. Under Joseph Stalin, “Stalinist empire” architecture glorified the USSR with grandiose forms, and most new housing projects were individually designed, ornamental, spacious brick buildings reserved for the Soviet elite. The majority of the population lived in rickety barracks and crowded communal flats, sharing toilets and kitchens and bathing in public steam baths. After Khrushchev came to power, he declared that the architecture of the past 20 years had been full of expensive excesses that were “causing significant harm to the economy and hindering the improvement of residential and cultural and social conditions for the working classes”. Instead, the state should develop unembellished, prefabricated housing that could be erected cheaply and quickly, with the goal of giving every family its own flat.

Thus began a three-decade housing drive that was unprecedented in human history. It ushered in a new, industrial approach to construction: several different designs for prefabricated flat blocks were tried out in the Cheryomushki neighbourhood, where Rudakov lives, as was a residential district layout – minimising through-traffic and maximising green space – that would be repeated throughout the country.

Working mostly with concrete panels and other factory-produced components, brigades of labourers competed to see who could put together the huge flat blocks the fastest. One team managed it in 11 days. According to the Russian state statistics service, the amount of housing built by the state jumped from 26.9 million sq metres during the second five-year plan (1933-37), to 152.2 million sq metres in 1956-60 and 227.6 million sq metres in 1966-1970. Between 1955 and 1964, a quarter of the Soviet population, or 54 million people, received their own flats. By 1975, the state had built 1.3bn sq metres of housing, and it continued to build in huge amounts up until the Soviet breakup.

For the first time, large numbers of people had private housing in the city. This huge resettlement marked a boost in quality of life, a change in living habits, and a cultural shift that was commemorated in works including Dmitry Shostakovich’s operetta Cheryomushki, named after the neighbourhood where the first Khrushchev flats were built. “Look the hallway is ours, look the coat rack is ours! The whole flat is ours, ours! The kitchen too is ours, ours!” sang the main characters in a 1962 film based on the operetta.

According to Olga Kazakova, an art history PhD student and director of the Institute of Modernism, one theory is that along with Khrushchev’s de-Stalinisation policies, the privacy allowed by Khrushchevka flats contributed to the rise of dissident activity, such as samizdat (the copying and passing of banned literature by hand), in the 1960s.

In addition, the new housing was fairly low-density, and its common areas and green space facilitated socialising among neighbours, according to Nikolai Yerofeyev, a philosophy student at Oxford who is writing his dissertation on postwar Soviet housing. He also owns a flat in a Khrushchevka that will probably be torn down.

Of course, such mass-produced housing had drawbacks. The height of functionalism, Khrushchevka were architecturally monotonous: rectangular, five-storey boxes with evenly spaced windows, balconies and staircases. The ceilings were low and single-room flats were typically only 30-33 sq metres, while two rooms were 33-45 sq metres. Lifts and trash chutes were shunned as a costly extravagance. There were complaints about sound isolation and heating in the wintertime. Some included strange innovations, such as a small niche beneath the kitchen window, separated from the outside by only a few centimetres, meant to function as a refrigerator in the cold months.

The five-storey buildings were designed to last about 25 years. Most have served longer, with mixed results. Retired dentist Sofa Shkolnik, who lives with her husband, Felix, in a five-storey flat block built in 1962, said she is warm in the winter and can barely hear the neighbours. The building, which is surrounded by green space with apple, cherry and pear trees and several playgrounds, is on a tentative list of blocks to be torn down. Shkolnik fears they will be resettled to a high-rise building or moved far away from their daughter, granddaughter and great granddaughter, who all live nearby (the city has promised to resettle residents within their districts, but some of these cover large, incongruous areas).

La famiglia Shkolnik nel loro soggiorno
Fonte: The Guardian (Alec Luhn)
“I love modest housing – a small building, close to the earth, so I can look out the window and see trees and people,” she said, sipping tea on a stool at the tiny kitchen table, a pot of borscht on the stove next to her. Since the water pipes were recently replaced, she added, their building “could serve for a while more”.

But Felix said the sewage drainage system had not been replaced and had burst a pipe twice in the past decade. “We’re on a state of alert in case it breaks in another place, because the utilities are old,” he said, adding that he had recently drilled into the concrete panel wall to find it was disintegrating.

Sobyanin argued that the five-storey buildings are too difficult to renovate, since the pipes for plumbing and central steam heating are built into the wall. “Even if we do some sort of renovations in these buildings, in 10 to 20 years they will nonetheless turn into hazardous housing,” he told Komsomolskaya Pravda newspaper.

The quality and condition of five-storey buildings varies widely. While many were built with concrete, others were built with bricks, which are typically sturdier and more heat-efficient. The most dilapidated Khrushchevka buildings in Moscow have already been torn down, according to Yerofeyev. He called the programme an attack on “low population density, [which] apparently is too big a luxury in Moscow now”.

“The argument that they are in bad condition structurally is not convincing, especially since there are massive projects to reconstruct Khrushchyovka buildings in eastern Europe,” he said. “There are many methods of how to deal with (ageing prefabricated housing), and of course tearing it down and building a new tower is not the best one.”

n one notable example, Stefan Forster architects in Leinefelde, Germany, knocked down the top floors of eight Soviet flat blocks from the 1970s, stripped them down to their concrete structure and outfitted them with new windows and balconies and ground-floor gardens as part of an urban regeneration project.

Forster said renovation costs depend largely on how much is rebuilt to modern construction standards, such as better sound isolation requirements. “In principle, prefab flat blocks are suitable for conversion to affordable housing,” he said.

But Moscow is reportedly not up to the difficulty and cost of such a task. Earlier this month, the respected business newspaper Vedomosti quoted an unnamed official as saying the city had decided that building new housing would be cheaper than renovating. According to official statistics, half of the residential buildings in Moscow are in need of major structural repairs, and only a few dozen have been redone.

Another reason may be political, as Sobyanin and Putin are both likely to run for reelection in 2018. Political analyst Dmitry Orlov estimated that as long as residents aren’t moved too far away and small business owners are fairly compensated, the new programme could boost electoral support in Moscow by 15% for the mayor and 7% for the president. He based this on how a smaller resettlement programme under previous mayor Yury Luzhkov had “changed public opinion (and) allowed him to preserve a high level of trust over the years”, he said.

Activists’ main complaint is that the programme is mostly about money, and both developers and the city stand to make a handy profit. They point to a recent example of a partially completed programme started in 1999 to replace 1,722 five-storey buildings. For that scheme, the city contracted private developers, who built new tower blocks, set aside 30% of the apartments to resettle residents of the old buildings, and sold the rest. Vedomosti quoted a source in the mayor’s office as saying the new programme will free up a large number of land plots that will be sold to investors at auction.

The devil will be in the detail, and specifically in what kind of housing is built and where; new residential towers in Moscow are often as tall as 25 storeys, leading to less personable neighbourhoods and more traffic congestion. Already, Moscow traffic jams are among the worst in the world. Housing density will almost certainly increase, given that that five-storey buildings now occupy 8,000-10,000 sq metres per hectare, while city norms allow for up to 25,000 sq metres per hectare.

“They haven’t told us what technologies will be used in the new buildings, how they will look, and the quality of modern construction in Russia is not that high,” Kazakova said.

According to Maxim Trudolyubov, editor-at-large of Vedomosti, the programme’s results will depend largely on whether private firms or a state construction company build the new housing. “Private companies will need to sharply increase the amount of square metres that exist in Moscow, “which will choke the city for good with torrents of people and transport,” he wrote in a recent column.

For now, residents face an uncertain future. “Where will they put the people?” asked the Shkolniks’ daughter, Anna. “That makes us uneasy.”

31 ottobre 2017
THE WRECKING BALL SWINGS AT MOSCOW
A PHOTO ESSAY
di Chris Leslie and Jonathan Charley


Moscow is enduring one of its periodic urban convulsions: plumes of dust fill the air, cranes proliferate across the skyline and the streets are soundtracked by pneumatic drills. In the city centre, new parks, infrastructure and freshly decorated historical monuments are the most visible signs of renewal. But there is another, less visible reconstruction programme going on – and one that is startling in its scale.

In June this year, the Moscow Duma unanimously approved the demolition of more than 4,000 apartment blocks in various sites across the sprawling city, home to nearly 2 million people. Most of this housing is privately owned, the consequence of the privatisation of state housing after the collapse of the Soviet Union. It has been a highly controversial decision, bringing thousands of Muscovites into the streets in protest.

Al centro la serie di edifici "khrushchev" nel quartiere Butirsky che saranno demoliti
Fonte: The Guardian


The prototype

Yulia Fedosova and her son, Maxim, live in a typical five-storey concrete-panel apartment block. Known as a Khrushchevka, after the Soviet leader who orchestrated the industrialisation of house-building, Nikita Khrushchev, it first appeared in 1956 in an experimental housing estate in south-west Moscow that was quickly heralded as the solution to the postwar housing crisis. Factories were built, workers retrained, and by the mid-60s this modest, prefabricated style of apartment block had sprung up like clusters of mushrooms everywhere from Minsk to Vladivostok.

The Fedosovas’ estate is well-connected to the city centre. Essential services – kindergarten, schools, a health centre, transport links – are easily accessible on foot, and their flat looks down on to apple trees, flowers and a children’s play park. It is tranquil, the air is fresh and the development is planned at a human scale. Both Fedosova and her father grew up there; several generations of her family live in nearby flats.

Under the June law, if two-thirds of residents in a block vote yes to the so-called “renovation programme”, the block will be demolished. Fedosova voted no: for her, the demolitions won’t just destroy buildings, but also a sense of history, home and belonging.

Enough yes votes were cast, however, to slate the building for demolition. Once she receives the official notice, Fedosova will be required to leave her home in 90 days, or face forced eviction. She will be given no option of where to live, likely moved to a newly built tower block. The authorities have promised that residents will be rehoused in the same district, but many fear their longstanding networks of families and friends won’t survive the move. Above all, Fedosova fears being exiled in “New Moscow”, the hastily erected towers on the city’s periphery, many of which remain unsold. .

“The attitude towards people is bestial,” she says. “How is it possible to take people and move them to where the authorities want, in high-rise pens with just a patch of greenery in the middle? You cannot treat Moscow and its inhabitants like this. We are not here for the short-term. The city should be built for the comfort of its residents and not developed for the sake of maximising profits at all costs. I’m afraid of the new areas, they are creepy.”

The fix

To counteract the rumours that the renovation programme is really all about profiting from real estate the mayor of Moscow, Sergey Sobyanin, is working overtime to persuade residents that there is no alternative to demolition. His team are busily constructing show flats kitted out with state-of-the-art furnishings. Sobyanin insists that the Khrushchevka flats are beyond redemption: the kitchens are too small, there are no lifts or waste disposal system and the roofs often leak.

Yet many residents maintain nothing is wrong with their flats that standard repairs couldn’t fix. Anastasia Yanchikova is one of numerous residents left exasperated and confused by these explanations.

“I feel safe here. I can see my children in the yard,” she says. “We leave our bikes at the bottom the stairs. I have a right to stay in my neighbourhood. I want to choose myself where to live, in what kind of building, place and so on.

“I feel deceived. Two years ago politicians obliged me to pay into a capital repair fund for the overhaul of our housing that was scheduled to be completed by 2030. They told us that the houses are strong. And then this year the same politicians tell us that our homes are in an emergency condition and need to be demolished?”

Tatjana Goreleva, a lawyer, and her husband say they have invested more than 1m rubles in their apartment, in a five-storey block of robust brick in the Nishegorodsky district. Like Yanchikova’s, her house was also scheduled for major repairs in 2016 that were never carried out. Her anger mixes with suspicion.

“It is as if this has been done deliberately to bring the house into an emergency condition, and to finish off the opponents of demolition and renovation – morally and physically.”

There are undoubtedly problems with some of the older flats; the build quality is variable. Some architects and engineers argue, however, that the faults can be remedied without prohibitive expense. Professors at the prestigious Moscow Academy of Architecture such as Yuri Pavlovich Volchok and architect Evgeny Asse have said that with intelligent design many of the blocks can be given a new lease of life; structural engineer Sofia Pechorskaya notes that the planning process, which she calls “technically illiterate”, has been carried out without proper research and professional consultation.

The appeals

Vladimir Komarov, a retired government worker, lives in a veritable theatre set of Russian history. His flat is lined with antique green wallpaper, the floors are original hardwood, and he is surrounded by family portraits and clocks made by his horologist grandfather. Three generations have lived here; his grandmother is buried in the cemetery next door. When he received his eviction notice, Komarov had a stroke that put him in hospital for two months. He says he has been loyal to the state all his life, and feels betrayed.

His friend, Vera Voronina, boasts a brand new bathroom, kitchen and living room in her apartment. Over a six-year period, she and her husband saved everything they could and renovated the flat themselves. Though it is nearly complete, the majority of residents in her block voted for demolition, so they will be thrown out.

The residents of their building say their neighbourhood has its own special ecology: it boasts a district heating system and is well served by hospitals, clinics, schools, shops and transport links. Speculation swirls that this is why their apartments face the wrecking ball while other blocks that, they say, are more clearly in need of repairs but more isolated, are left standing.

One option for homeowners is monetary compensation based on what the authorities reckon the flat is worth. But many residents doubt they will receive a fair price. “Since May of this year we have lived as if on top of a powder keg,” says Goreleva. “We do not agree with the renovation program, but to challenge the new laws is not an easy thing to do,” Goreleva adds. “We are law-abiding citizens, and if the state has established the rules on renovation, we are compelled to obey them. But in respect of our home, there has been a clear violation of laws and regulations.”

The infighting

One of the consequences of the privatisation of the Russian housing sector was that homeowners became responsible for the upkeep and maintenance of their properties. For many people on low incomes who couldn’t afford to invest in repairs and renovations, this became an impossible burden. Vast numbers have voted for demolition having been lured by the prospect of a new apartment. Not surprisingly, the vote has caused considerable friction between friends and neighbours on opposing sides of the debate.

Olga and Vassily Leskova met at school. They have lived in their beautifully appointed apartment for 50 years, and seen their children and grandchildren grow up here. They are distraught at the news of their eviction.. Vassily sums it up in one phrase: “Pure deception.”

For the Leskovas, the vote has meant the breakup of the social foundations on which people have built their lives. The peace and harmony of their block has disintegrated. Arguments and shouting matches have broken out. The atmosphere has become hostile. The required meeting of all the residents to decide on the fate of their block never happened; instead, people voted individually and in secret.

One person who has seen both sides of the story is Tatyana Buyanova, an architect and town planner who lives a 10-minute walk away from the Leskovas with her son. Her picturesque two-storey cottage sits on prime land. A former employee of one of the development companies, Buyanova was involved in the selection of potential sites for new housing in the earmarked “renovation zones”.

Buyanova began to suspect that the urban restructuring programme was more about real estate speculation than any social commitment to improving people’s lives. Some journalists, lawyers and engineers say that building codes – including for light, height and proximity of buildings – are being relaxed, and construction permits expedited. When her own home – which she maintains was in good condition – was included on the demolition list Buyanova resigned and joined the protest movement.

“I can not understand how something that in principle is a good idea turned into a horror and a nightmare,” she says. “My neighbours voted for the demolition. I was against it, but it didn’t change anything. The city will not talk to me. One of the deputies even said, ‘Dissenters must submit!’ My apartment is everything that I hold dear – and now I’m losing it.”

The blacklash

Pavel Novikov, an engineer, lives in the former industrial district of Metrogorodok. His flat is not included in the programme, which he suspects is because the building site is too narrow to be of interest to developers. The blocks either side are coming down.

A member of the Muscovites Against Demolition protest group, he is typical of the activists who are resisting the demolitions. Most are ordinary folk: pensioners, single parents, newcomers to political action. Notably, a majority are women.

“One of the strange things about the protest movement,” Novikov says, “is that it has awakened in Muscovites a sense of having civil rights, and of their ability to oppose the state’s interference into their private lives.”

Certainly the sense of illegal dispossession is palpable, and in the early days of the protests banners were emblazoned with the word “deportation”. Nikolai Kanchov, who ran in the recent municipal elections for the Yabloko opposition party, argues that the forced evictions violate the Russian constitution, which guarantees the right to private property.

“In a nutshell, the demolition program has deprived me of my right to a home,” he says. “It has made me worried and uncertain about the future. I can’t be sure that my family and I won’t be forced out of our home tomorrow by the will of some tricky bureaucrat, greedy for money. I’m forced to study the legislation and collect testimony, write petitions, claims and appeals, gather signatures, all in order to protect my home. Instead of working and earning my living.”

As well as standing for local government, lobbying deputies, and holding street demonstrations and social media campaigns, dissidence has taken other forms. Artem Loskutov and Lucia Stein came to the attention of residents who noticed a new addition to the graffiti in the Basmanny district: plaster casts of a woman’s breasts, glued to five apartment blocks scheduled for demolition, accompanied by the slogan: “I will protect your home with my breasts.”

It made Stein a minor celebrity, and at just 21 years old she has just been elected as an independent deputy for the Moscow municipal government.

The demolition

Photographer Vivian del Rio can stare down, from her current flat, on the partially demolished neighbourhood where she once lived. She still remembers the chaos of moving out: people were still packing their bags as the wrecking crews moved in. Reluctantly, she has accepted a new flat in multi-storey tower.

“The view from up here is good, but I miss the birds and fruit trees, the high ceilings, and the neighbourliness. Also, this flat is poorly built. They wallpapered over cracks in the concrete. The doors were replaced within two months and they cheated me by including my balcony in the overall area of the flat.”

Anche il cottage di Tatiana Buyanova sarà demolito
Fonte: The Guardian

A kilometre down the road house lies a neighbourhood that will be completely razed. According to the Moscow Development Department’s interactive map, which shows all the properties scheduled for demolition, 80 apartment blocks will be removed in just this one locale. The website also shows the locations of the new replacement tower blocks – and the large area of land that will then become available for sale. Tellingly, it is close to the city centre, and only two stops from fashionable Gorky Park and the Tretyakov gallery. The land will be sold into the private sector; several luxury towers featuring penthouse flats have been built; there is speculation that other plots may be handed directly to banks by struggling construction companies to repay loans.

After the 90-day eviction period, the timing of the demolition itself is not made public, but the process can be rapid: whole blocks have disappeared in a day. In the Butirsky district of north Moscow, you can see the rubble of recently demolished five-storey buildings. From the top floor of one partially evacuated block, an old lady looked out with a smile. The flats either side of hers are already empty, but she doesn’t look in any hurry to move.

In Krilatskoye, in the north-west of the city, furniture is flying out of the frameless windows. In the empty flats, children’s drawings hang from the wallpaper and family photographs lie on the floor. Clothes, shoes and a ceramic print of someone’s grandmother sit in a pile. People have left in a hurry.

On the third floor of what otherwise appeared to be an entirely deserted block, one padded front door remains locked. The inhabitants have pinned a sign to it:

“We live in this apartment. If you don’t understand, take a look at article 139 of the Russian constitution: ‘The violation of the inviolability of the home.”

Chris Leslie is a documentary photographer and film-maker. Dr Jonathan Charley is a writer and teacher at the department of architecture of the University of Strathclyde. You can read more about their Disappearing Moscow project here.

officinadeisaperi.it, 30 ottobre 2017. Negli anni del pensiero unico liberista (sia dei governi di centro-destra che di centro-sinistra) l’impetuosa avanzata della rendita fondiaria è andata di pari passo con la definitiva chiusura del welfare abitativo. Un'analisi e una proposta. Riferimenti in calce (p.d.)

Esiste una marcata contraddizione tra l’area sempre più vasta e diversificata del disagio abitativo e, di contro, politiche di welfare che non contemplano il problema dell’abitare. La questione o viene ignorata o è affrontata come questione di ordine pubblico, com’è successo a Roma di recente con lo sgombero dei profughi eritrei accampati in un palazzo di piazza Indipendenza o come avviene quotidianamente con l’esecuzione di una miriade di sfratti. La categoria dell’“illegalità”, con cui una certa politica e i mezzi d’informazione sono soliti trattare (o meglio liquidano) l’argomento, non dà conto delle difficoltà e delle sofferenze di chi non ha un tetto sopra la testa e un letto in cui dormire, ma non rende giustizia nemmeno alla creatività e all’innovazione di chi vive l’esperienza di “occupanti”. Infatti di fronte alle clamorose inadempienze del governo e delle istituzioni locali, impotenti e incapaci a dare una risposta a bisogni reali, vi sono una serie di tentativi di trovare soluzioni alla mancanza di un alloggio.

In particolare, voglio segnalare un’esperienza che considero positiva. A Roma, a via di Santa Croce in Gerusalemme, l’ex Inpdap è occupata, da almeno tre anni, da 150 famiglie italiane e straniere. C’è stato un notevole lavoro di auto-recupero per adattare i vecchi uffici in piccoli e medi appartamenti. Poi, nel piano sotterraneo dove c’era l’auditorium e diversi saloni per conferenze e riunioni, si sono creati locali di ristorazione, sale per concerti o per mostre, si svolgono attività di cineforum e di presentazione di libri, c’è una sala dove si insegna tango, c’è un laboratorio di serigrafia, un altro di falegnameria, nel quale un peruviano crea o ristruttura tavoli, armadi, sedie e mobili in genere. Nel cuore della città si sta sperimentando un modo nuovo di intendere l’abitare, i servizi condominiali e alla domiciliarità. Si è creato uno spazio di co-working in un rapporto aperto con i residenti del quartiere. Che cosa c’è di “illegale” in tutto questo?
Facendo un parallelo storico che potrebbe sembrare azzardato, i movimenti degli occupanti sono paragonabili ai contadini poveri che, nel dopoguerra occupavano le terre incolte o mal coltivate dei latifondisti. Nel latifondo si annidava la rendita fondiaria. In un contesto mutato, negli edifici inutilizzati o abbandonati si annida la rendita urbana, anche quella assenteista. Gli occupanti di oggi sono l’avanguardia della lotta alla rendita, da cui passa gran parte della politica redistributiva.

La rendita immobiliare non è un concetto astratto, ma è la causa prima di un rapporto malato tra casa e territorio, come frane, alluvioni e terremoti dimostrano. Gli interessi congiunti di proprietari fondiari, imprese di costruzione e banche sono all’origine di un’espansione urbana incontrollata, di periferie degradate, di servizi inefficienti o inesistenti. Sono all’origine della carenza di alloggi pubblici, degli sfratti per morosità, delle abitazioni pignorate per l’impossibilità di onorare il pagamento del mutuo. In una parola, la rendita urbana ha, da un lato, falcidiato il reddito delle famiglie di ceto medio per il caro-casa, e dall’altro, ha generato un forte aumento del disagio e della povertà.

Il mio ragionamento, dunque, tende a escludere che si possa parlare di questione abitativa ignorando il ruolo e il peso della rendita in Italia. Vi sono studi della Banca d’Italia che spiegano come il declino industriale e produttivo dell’Italia sia andato di pari passo con la crescita impetuosa della rendita immobiliare, che solo dopo la crisi iniziata nel 2008 ha subito una relativa frenata. Basti pensare che l’ammontare complessivo annuo di stipendi e salari nel nostro paese (parliamo di cifre superiori a 400 miliardi di euro), da circa un ventennio a questa parte, è inferiore a quanto la rendita accumula ogni anno (Banca d’Italia). Ciò significa che c’è stato un colossale trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita immobiliare e finanziaria. Mutui casa e canoni di locazione sono alcuni dei modi di questo trasferimento. La crescita delle diseguaglianze sociali in Italia è esattamente l’altra faccia della rendita.

L’impetuosa avanzata della rendita è andata di pari passo con la definitiva chiusura di quel welfare abitativo che pure aveva contraddistinto la politica italiana dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta (il piano Fanfani, il piano decennale per l’edilizia – che ha prodotto un milione di alloggi Erp -, l’equo canone). Il 1998 è l’anno che segna lo spartiacque: si chiude il fondo Gescal, che aveva alimentato l’edilizia residenziale pubblica per circa un ventennio e con la legge 431 si regolamenta il mercato della locazione, con una liberalizzazione di fatto che produce una forte impennata negli affitti.
Al tempo stesso l’abbassamento dei tassi d’interesse, con l’approssimarsi dell’euro, favoriva e rendeva “conveniente” l’acquisto di un’abitazione anche a famiglie con reddito medio-basso. A parità di costo era meglio indebitarsi per diventare proprietari che rimanere in affitto. Fino al 2008, per far fronte alla crescente domanda si è costruito mediamente al ritmo di 300 mila unità abitative ogni anno. Cementificazione e consumo di suolo l’hanno fatta da padroni. Non si è esitato a massacrare ambiente e territorio. Il cosiddetto piano casa di Berlusconi del 2008 ha inaugurato poi una politica abitativa ispirata al laissez faire: “ognuno padrone a casa propria”. In pratica nessun sostegno al crescente disagio abitativo e crescita incontrollata dell’abusivismo.

Con una sostanziale continuità tra i governi di centro-destra e di centro-sinistra, negli anni del pensiero unico liberista, in Italia è stata dunque eliminata qualsiasi parvenza di welfare abitativo e si è alimentata e incentivata in tutti i modi la “casa in proprietà”. Si è creato così un forte squilibrio tra proprietà ed affitto: i proprietari che nel 1965 erano il 45% sono passati all’80% di oggi. Ciò è fonte di distorsioni nell’economia, nella società, nei consumi. L’asfittico mercato delle locazioni è quasi tutto in mano ai privati dopo la dismissione di quasi tutto il patrimonio abitativo degli enti previdenziali e di parte di quello gestito dagli ex Iacp.

Lo squilibrio tra offerta in proprietà e offerta in locazione – unito ai costi alti – è all’origine di fenomeni estesi di disagio, di precarietà e di esclusione abitativa. Le forme di lotta radicali, la radicalizzazione dei movimenti sono la conseguenza di un problema che non trova sbocchi attraverso i canali istituzionali. Ecco perché è riduttivo parlare di “emergenza abitativa”. Siamo in presenza, invece, di una “questione abitativa”, che è questione “strutturale”, con forti implicazioni sul reddito, sullo sviluppo, sull’ambiente, sulla crescita e sulla qualità urbana, sui rapporti sociali.

La chiave di volta per affrontare il disagio e le nuove domande abitative è dunque un cambio di paradigma, uno spostamento del baricentro delle politiche abitative dalla proprietà all’affitto. Riscoprendo il valore d’uso della casa. Mettendo in discussione la cosiddetta finanziarizzazione del mattone, che incorpora un’idea dell’abitare che è tutto “valore di scambio e poco o niente “valore d’uso”. Puntare oggi sull’affitto a un canone accessibile, comunque commisurato al reddito familiare, significa riscoprire il valore d’uso: l’abitazione come servizio alla famiglia. La casa a “geometria variabile”, adattabile, che cambia in base ai diversi percorsi di vita e di lavoro. Mano a mano che i componenti della famiglia aumentano o diminuiscono, vanno o tornano, studiano o lavorano (e magari capita più volte nella vita di ciascuno). Oggi, invece, rispetto a una domanda che richiede diverse tipologie di casa, anche di varia dimensione, con maggiori servizi condominiali e di quartiere, l’offerta è sempre la stessa, insufficiente, standardizzata, inadeguata. In una parola, rigida.

La cosa più assurda, infine, è che le politiche abitative non rientrino nei trattati europei. In epoca di globalizzazione, in una società caratterizzata da una continua circolazione di forza-lavoro, di studenti e da una forte pressione migratoria, l’UE non ha mai deliberato linee di indirizzo in materia abitativa. E’ una grave lacuna che, in particolare in Italia e in Spagna, ha avuto effetti negativi. Non a caso in questi due paesi vi è la percentuale di disoccupati giovani più alta d’Europa. Come documenta uno studio della Confindustria di qualche anno fa esiste una correlazione diretta tra disoccupazione e difficoltà alloggiativa. La rigidità del mercato delle abitazioni diventa un ostacolo insormontabile per la stessa mobilità del lavoro.

riferimenti
Se scrivete nella cella sensibile "cerca"(in alto, a sinistra, sotto la testata) la parola "rendita" trovate su eddyburg numerosi articoli utili.

il manifesto, 30 settembre 2017. Il dramma umano degli sfratti visto dalla parte di chi dovrebbe sfrattare. «A Roma sono 10 mila gli abusivi nei 74 mila alloggi popolari: 50 anni per sgomberarli tutti». E le case vuote delle immobiliari rimangono vuote: toccarle non si può, sono private

L’episodio del Trullo, l’ultimo di una serie, riporta in auge il tema casa che sembra legato a doppia maglia a quello della legalità. Ma se qualche mese fa abbiamo assistito all’ efficientissimo sgombero di Piazza Indipendenza, che il Prefetto ha definito operazione di «cleaning», ieri al Trullo lo Stato ha dovuto inesorabilmente retrocedere di fronte ad un gruppo di facinorosi. E a una ragazza madre che da poco occupava un appartamento rimasto vuoto dopo lo sgombero, un anno fa, dei precedenti abusivi.

A volte si ha l'impressione di un’applicazione selettiva o parziale e distratta della legalità, cosa che i dati confermano. All’interno dei 74.000 alloggi popolari i nuclei abusivi sono circa 10.000. Il fenomeno è talmente complesso che nei report degli enti gestori, Ater e Patrimonio di Roma Capitale, gli “abusivi” vengono classificati in 9 categorie: occupante con sentenza definitiva, sanatoria senza requisiti, utente abusivo, utente con domanda di voltura non accolta, utente con domanda di sanatoria incompleta, utente revocato e utente con domanda di sanatoria non accolta. Un fenomeno assai complesso che richiede per il suo contrasto una strategia articolata.

Organizzare uno sgombero di per sé è cosa complicata e costosa, servono almeno due pattuglie della Polizia Locale, un fabbro autorizzato, una ditta di traslochi, un medico e a volte l’ausilio della Polizia di Stato. Con le attuali capacità si possono organizzare circa 200 sgomberi all’anno, pertanto se decidessimo di sgomberare tutti i 10.000 in preda ad un fervore di legalità impiegheremmo circa 50 anni senza contare che dovremmo spostare una popolazione di 30.000 persone, come tre medi quartieri della Capitale. Inoltre l’affare si complica se teniamo conto che questi sono solo gli abusivi storici, infatti a Roma circa 1.000 alloggi popolari vengono occupati ogni anno.

Ergo, qualora anche implementassimo a 365 gli sgomberi all’anno avremmo un risultato finale deludente: per ogni alloggio sgomberato ne avremmo almeno tre occupati lo stesso giorno. Sembra qui riprodursi il paradosso di Zenone, quello in cui Achille non riesce mai a raggiungere la tartaruga. Quindi che fare? È del tutto evidente che se non si blocca l’emorragia di alloggi è inutile eseguire vecchi sgomberi che assumono solo una valenza simbolica, certamente giusti, ma non risolutivi.

Con la Giunta Marino si era tentato di dare un riassetto organico alla materia attraverso una azione articolata. Per fare questo si è costituito, attraverso la delibera 368/13, un gruppo di Polizia Locale altamente specializzato, Gruppo di Supporto delle Politiche Abitative, che concentra la maggior parte degli sforzi investigativi nell’impedire le occupazioni e a debellare i racket. Inoltre attraverso un Protocollo di Intesa con la Guardia di Finanza, ancora attivo ma siglato nel 2014, si procedeva a verifiche patrimoniali molto più accurate rispetto a quelle che vengono svolte attraverso l’interrogazione della Agenzia delle Entrate. In ultimo, anche questo ancora attivo, si è istituito un numero di emergenza, Casa Sicura 06671073551, a cui ci si può rivolgere in caso di occupazione coatta. L’ultimo punto, che avrebbe rappresentato la quadratura del cerchio, era l’istituzione di un data base comune su cui fare le verifiche.

È importante spiegare che per svolgere le verifiche sulle case popolari, cosa di competenza del Dipartimento Politiche Abitative del Comune, si interrogano diversi database. Qualora l’immobile sia del Comune, che detiene circa 28.000 alloggi, bisogna rivolgersi al Dipartimento del Patrimonio che a sua volta ha delegato la gestione a una società esterna, se invece l’immobile appartiene all’Ater, che ne ha circa 45.000, bisogna rivolgersi a quest’ente. Poi bisogna consultare l’Anagrafico del Comune, per capire chi vi risiede, l’Agenzia delle Entrate per determinare i redditi, e l’Agenzia del Territorio per capire se si hanno altre proprietà immobiliari. Insomma un meccanismo alquanto farraginoso.

Ora considerando che tutti questi enti sono Pubblici basterebbe un semplice protocollo di intesa e un programma che, consultando in automatico i dati, segnali qualsiasi anomalia, eccesso di reddito, un nuovo inquilino, l’acquisto di un immobile, in modo da far partire le verifiche mirate con notevole risparmio di tempo e di risorse. La potenza di calcolo di un simile computer? Oggi lo può fare un qualsiasi smartphone che abbiamo in tasca.

Purtroppo mentre si stava lavorando a questo progetto l’esperienza della Giunta Marino è tragicamente finita. Un progetto che spero qualcuno voglia riprendere e implementare poiché da solo consentirebbe di triplicare le assegnazioni di alloggi popolari, che passerebbero da 500 a 1500 all’anno e forse anche la ragazza che ha occupato l’alloggio del Trullo si convincerebbe che partecipare al Bando per l’assegnazione di case popolari ha un senso.

L'origine dei mali odierni spacciati per emergenza è nell'assenza di politiche abitative. Seconda parte di una riflessione su Roma, il manifesto, 17 settembre 2017, con riferimenti (m.b)

Parlare di emergenza abitativa a Roma è fuorviante perché la vera emergenza è la lunghissima assenza di una politica per la casa. Da una prima fotografia scopriamo che, in condizione di disagio abitativo, ci sono sia i nuclei in sofferenza economica cioè in difficoltà a pagare il mutuo o l'affitto, sia quelli senza alloggio e senza soldi per ottenerlo. Quindi gli strumenti per affrontare la sofferenza abitativa devono essere eterogenei: se gli alloggi popolari sono la risposta per i nuclei senza casa, un'integrazione all'affitto è la risposta per chi ha problemi economici. Una seconda fotografia rivela che nel 2014 le richieste di sfratto sono state circa 10.000 (ne sono state eseguite 230 al mese). Questa è la punta dell'iceberg di un fenomeno molto più ampio perché negli ultimi dieci anni gli sfratti per morosità sono saliti al 95% del totale. Quindi è un problema di impoverimento, dunque di welfare.

Vediamo allora qual è il costo dell'emergenza cronica e come una politica miope sta alimentando la formazione di quartieri ghetto. Il 66% della domanda abitativa (42.000 famiglie) proviene da chi ha un alloggio ma non riesce a fronteggiare l'affitto o il mutuo. Un'amministrazione seria dovrebbe intervenire in via preventiva per evitare che i nuclei sulla soglia di povertà finiscano nei CAAT (centri di assistenza alloggiativa temporanea, detti residence) che prosciugano le casse pubbliche. Il costo medio di un appartamento in un residence oggi è di 1.700 euro mensili per una spesa di 32 milioni di euro all'anno: per questo l'amministrazione Marino cercò di chiudere i residence attraverso il «buono casa» (dgc. 368/2013), un sussidio dato ai nuclei in attesa di un alloggio popolare. La diffusione dei CAAT segue la distribuzione degli alloggi popolari: i residence non solo concentrano il disagio all'interno delle loro strutture pensate appunto per accogliere persone in condizione di marginalità urbana, ma lo fanno in zone della città già molto critiche. Eppure una regola basilare di ogni politica urbana è di evitare la concentrazione del disagio, cioè la formazione di ghetti. Invece, negli ultimi venticinque anni, i reietti della città, per dirla con Loïc Wacquant, sono stati relegati in case popolari oggi degradate - perché, come abbiamo visto nella precedente puntata, l'Ater non ha i soldi per la manutenzione -, nei residence e nelle occupazioni, ma anche nei centri di accoglienza per stranieri, nei campi rom e nelle nuove baraccopoli. Molte delle cento occupazioni romane si sviluppano nelle ex aree industriali in disuso oppure in spazi di risulta di insediamenti residenziali pubblici, locali commerciali e scuole, tutti servizi mai utilizzati che nel tempo sono stati occupati. In altre parole in questi venticinque anni sono state create le premesse per la nascita delle prime banlieues capitoline. Una terza fotografia rivela che attualmente sono 8.406 i nuclei (circa 20.000 persone) privi di alloggio o in sistemazioni precarie, tra ospiti dei residence, occupazioni e sfrattati.

E allora, quali sono le proposte per uscire dalla logica dell'emergenza? Per invertire questa rotta servirebbe un imponente sforzo pubblico sia per riformare alla radice il welfare italiano, sia per intervenire sulle periferie romane perché, come abbiamo visto, le misure fin qui adottate sono insufficienti per qualità dell'offerta e inadeguatezza dei finanziamenti. Tuttavia, a livello cittadino la giunta attuale potrebbe intervenire. Dalla vendita già avviata del patrimonio pubblico si stima infatti un ricavo di 360 milioni di euro, soldi che non dovrebbero confluire nel bilancio ordinario ma essere destinati interamente alla casa. Poi ci sono i 197 milioni di euro stanziati dalla Regione Lazio nel 2016 per il contrasto dell'emergenza abitativa con l'acquisto di alloggi popolari e per operazioni di rigenerazione urbana. Parte di questi soldi dovrebbero essere investiti anche per la prevenzione. Ci sono infatti 7.000 nuclei in affanno con il pagamento delle rate dei mutui e spesso basta un piccolo contributo per evitare di accumulare morosità con il rischio di perdere l'immobile (dopo 18 rate non pagate la banca può pignorare l'immobile). Inoltre, è necessario finanziare la Delibera 154/97 di contributo al reddito per garantire quei nuclei che per impoverimento non riescono più a pagare la pigione. Infine si dovrebbe modificare la delibera comunale che assegna fondi per la morosità incolpevole oggi troppo restrittiva perché i soldi ci sono ma il blocco politico-amministrativo di cui parlavamo nella parte precedente dell'inchiesta non consente di spenderli. Per capirci, a fronte di 10.000 richieste di esecuzione sfratti, nel 2015 sono stati erogati appena 33 contributi. Ma, per uscire dalla logica dell'emergenza, occorre chiudere i residence, per esempio implementando il «buono casa» e combinandolo con il sussidio al reddito per i casi di maggiore fragilità. Poiché la maggior parte dei nuclei nei residence sono in attesa di un alloggio popolare, è fondamentale aumentare il numero delle assegnazioni, che si possono raddoppiare arrivando a quota mille attraverso l'acquisto di nuovi alloggi, la razionalizzazione del patrimonio esistente (qui servirebbe un articolo dedicato) e la lotta all'abusivismo.

Come abbiamo visto nella prima parte, ogni anno ci sono mille occupazioni abusive di alloggi pubblici per un danno stimato di 250 milioni di euro. Si potrebbe aumentare da subito l'organico della task force della Polizia Locale che controlla le case popolari (appena 25 agenti per 74.000 alloggi); mettere in rete le banche dati di Agenzia delle Entrate, Anagrafe, Ater e Patrimonio con un datamatching che segnali le verifiche da compiere; rinnovare il protocollo tra il comune di Roma e la Guardia di Finanza per incrociare i dati su residenze, redditi e patrimonio degli assegnatari e su quelle degli ospiti.

Premesso che una parte dei fondi per queste azioni ci sono, servirebbe volontà politica, capacità e coraggio. Purtroppo il bando appena pubblicato dalla Giunta Raggi impegna 12 milioni di euro per cambiare nome ai residence, non si chiameranno più CAAT ma SASSAT (come quando Veltroni passò dai campi rom ai Villaggi della Solidarietà), sancendo così la continuità segregazionista del modello Roma. Con questo bando infatti, il Comune di Roma chiede ai proprietari di mettere a disposizione 800 alloggi, anche cielo terra, da un minimo di 10 fino a un massimo di 50 appartamenti arredati e in un solo municipio. L'affitto sarà deciso al massimo costo del listino dell'osservatorio immobiliare (ossia a prezzo di mercato), quindi il colpo di grazia al canone concordato e la fine del «buono casa» che, essendo rivolto ai piccoli proprietari, da un lato faceva sì che il disagio sociale non si concentrasse in un unico luogo, dall'altro stabiliva un prezzo massimo di 800 euro ad alloggio, adesso invece innalzato a 1.250.

Di fatto l'amministrazione comunale apre ai costruttori con invenduto, drogando ulteriormente il mercato immobiliare.

In conclusione, a prescindere dal modello, universalistico o selettivo, la differenza sostanziale è tra una politica per la casa e una per cronicizzare l'emergenza abitativa, ossia nascondere la polvere sotto il tappeto e rimandare la soluzione all'infinito. Con il rischio di focolai di rivolta nelle periferie in ebollizione.

Riferimenti

In eddyburg potete leggere la prima parte di questa riflessione, pubblicata su il manifesto il 10 settembre scorso, e un'ampia rassegna sul tema in questa cartella

La questione della casa è uscita dall'agenda politica. I frutti avvelenati di questa scelta sciagurata, a Roma, sono molto evidenti. Numeri e raffronti con altre capitali ci aiutano a capire come stanno le cose. Il manifesto, 10 settembre 2017. (m.b.)

A Roma l'amministrazione capitolina assegna 490 case popolari all'anno: al ritmo attuale ci vorrebbero circa 35 anni per smaltire i 16.000 nuclei in lista che nel frattempo continuerebbero a crescere in modo esponenziale. Cerchiamo di capire la natura di questo blocco, senza risolvere il quale è impossibile ogni politica per la casa. Vanno analizzate le ragioni dello stallo della macchina politico-amministrativa rispetto alla gestione delle case popolari. A questo scopo risulta utile fare un confronto con il modello tedesco operante a Berlino e con quello francese funzionante a Parigi. Emerge così che, senza un sistema integrato di servizi sociali e senza l'azzeramento dell'evasione fiscale, il welfare non funziona, quindi non può garantire diritti.

Nella Capitale ci sono circa un milione e duecentomila abitazioni. Oltre il 70% dei romani è proprietario dell'alloggio in cui vive, in linea con il livello nazionale. Il mercato immobiliare dell'affitto è composto da circa 200.000 case e il pubblico detiene un terzo dell'intero mercato, ovvero 74.000 alloggi tra Ater (Azienda territoriale per l'edilizia residenziale pubblica) e Comune di Roma. Dunque un peso notevole, un po' come se la Coca-Cola non fosse leader nel settore delle bevande gassate.

I nodi critici

Nelle case popolari ci sono 10.000 occupanti abusivi più altri 5.000 nuclei già decaduti per superamento dei limiti di reddito (in media 55.200 euro annui secondo la determinazione commissariale Ater n. 3 del 17/9/2013). Per riportare la legalità ci vorrebbero 42 anni alla media di uno sgombero al giorno. Ma chi sono i decaduti? È gente che, se fosse sfrattata avrebbe bisogno di aiuto? Contemporaneamente, ogni anno ci sono mille nuove occupazioni di case popolari. Quindi, se lo Stato facesse uno sgombero al giorno, si ritroverebbe con due nuovi appartamenti occupati perché mancano i controlli, come vedremo nella seconda parte dedicata alle proposte. Ma i paradossi non finiscono qui. Abusivi e decaduti, cioè il 12% del totale di quelli che vivono in una casa popolare (15.000 persone) contribuiscono per il 48% al totale degli affitti, anche perché gli abusivi pagano un canone sanzionatorio (che non gli da però il diritto a restare). Dunque, se lo Stato li cacciasse gli enti gestori fallirebbero, perché l'Ater ha l'obbligo di pareggio di bilancio. A queste situazioni incredibili si aggiunga che l'Italia ha i canoni per le case popolari più bassi d'Europa. Vale la pena dunque dare uno sguardo alle politiche europee sulla casa. Un'analisi comparativa degli strumenti usati nei vari Paesi UE sul tema casa è difficile perché in Europa le politiche di welfare (abitative, lavorative, sostegno al reddito, inclusione sociale), sono interconnesse. E poi perché ogni Stato, anzi ogni territorio, ha il suo approccio al tema. In Europa esistono due macro-modelli per garantire il diritto alla casa. Il primo è quello universalistico diffuso in Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, il secondo quello selettivo riservato ad alcune categorie disagiate, diffuso nel resto della UE.
In Germania l'accesso all'edilizia pubblica dipende da soglie di reddito che variano in ogni città: a Berlino la soglia è di 16.500 euro per una famiglia con un componente, 25,200 euro per due, con un incremento di 5.740 euro per ogni componente aggiuntivo. Invece a Roma bisogna avere un reddito inferiore a circa 20.000 euro e, questa la prima differenza con il sistema tedesco, esiste un limite per perdere il diritto che è fissato intorno ai 30.000 euro. Mentre da noi i canoni degli alloggi popolari sono determinati in base a scaglioni di reddito, in Germania, grazie ad una poderosa rete di sussidi integrativi (di disoccupazione, al reddito, all'affitto e, in alcuni casi, al pagamento del canone di locazione), hanno un costo fisso al metro quadro di 5 euro, cioè il minimo stimato per poter garantire la copertura delle spese gestionali, il personale amministrativo e la manutenzione. Ma, a differenza dell'Italia, in Germania esiste un robusto sistema di verifica fiscale. A Roma i fondi destinati al sussidio all'affitto (L 431/95) non hanno mai coperto tutto il fabbisogno. Il tempo medio per ottenere un sussidio in Germania è di una settimana, a Roma di tre mesi, intervallo in cui i nuclei in difficoltà possono accumulare morosità importanti. Il sistema dei sussidi, sebbene appaia contorto in quanto lo Stato prima eroga i fondi alle famiglie e poi li richiede per l'affitto dell'alloggio, ha il vantaggio di non scaricare i costi sociali ed economia sugli enti gestori di edilizia residenziale pubblica (ERP). A Roma il deficit manutentivo del solo patrimonio comunale è stimato in 260 milioni di euro e questo dipende soprattutto dai bassi canoni di locazione che non permettono investimenti. Agli enti tedeschi invece è garantito il minimo gestionale per ottemperare al fabbisogno manutentivo degli immobili. Questo ha consentito l'ingresso nel mercato degli alloggi pubblici anche a operatori privati che costruiscono e gestiscono alloggi con convenzioni ventennali, ovvero il tempo stimato affinché un nucleo disagiato possa risollevarsi dopo di che il vincolo si esaurisce e i proprietari privati rientrano nella disponibilità degli alloggi.

In Italia il sistema dell’edilizia residenziale pubblica è sostenuto con fondi pubblici (edilizia sovvenzionata) per la costruzione di alloggi popolari poi assegnati con un bando, ma con lo scioglimento della Gescal non c'è più certezza ne continuità dei fondi, quindi le realizzazioni sono quasi inesistenti. Gli enti tedeschi, forti di bilanci in attivo, sono molto competitivi e, tra le nuove realizzazioni, una parte degli alloggi sono destinati sia al mercato privato della vendita per rifinanziare l'investimento iniziale, sia all'edilizia pubblica. Questa modalità consente di realizzare senza gravare sulla collettività garantendo il giusto mix sociale per evitare fenomeni di ghettizzazione. Il sistema italiano invece prevede lo stanziamento di fondi pubblici per la costruzione di soli alloggi popolari locati esclusivamente agli assegnatari di bando, quindi a redditi omogenei tendenti al basso. Oltre al rischio ghetto, in Italia i fondi non sono in grado di rigenerarsi e il patrimonio si depaupera per scarsità di manutenzione. Nel modello francese la distinzione fra alloggi sociali e popolari è ancora più labile poiché il sistema opera attraverso soglie per l'affitto scaglionate per fasce di reddito. Gli utenti sono suddivisi in tre fasce secondo le capacità contributive. La definizione delle fasce di reddito varia a seconda di indicatori locali.

Nell'area di Parigi, il reddito imponibile di una famiglia di due componenti non deve superare i 21.120 euro per un alloggio in regime Piai (Prêt Locatif Aidé d'Intégration) rivolto ai più disagiati, i 35.200 euro per un alloggio in Plus (Prêt Locatif à Usage Social) e i 45.760 euro per una casa in Pis (Prêts Locatif Social) rivolto a per chi, pur con un reddito medio, non trova un appartamento in locazione (cioè, parte di quelli che oggi a Roma hanno sforato il tetto per la permanenza in una casa popolare, ma avrebbero comunque bisogno di aiuti). Anche in Francia il canone è determinato in base ai metri quadri dell'alloggio per poter garantire una corretta gestione e manutenzione degli immobili.
Dalla breve carrellata sul modello tedesco e su quello francese, emerge con chiarezza l'esigenza di ripensare in blocco l'intero sistema di welfare italiano. Tuttavia ci sono delle situazioni come quella romana che hanno bisogno di un intervento immediato per scongiurare ulteriori peggioramenti. Nella prossima puntata vedremo come.

Crescono gli atti di ferocia delle amministrazioni locali contro chi non ha nulla. Togliere le panchine, tranne quelle destinate ai turisti, aumenta il degrado degli spazi pubblici e non risolve nessun problema. Ma porta voti. La Nuova Venezia, 16 luglio 2017 (p.s.)«San Donà. Continua l’emergenza casa anche per i residenti Appello di un 50enne che vive da oltre cinque mesi in auto. Via le panchine, ma i senzatetto restano davanti all’ospedale di via Nazario Sauro. E non solo in questa zona della città».

Un’emergenza che si è aggravata dall’inizio dell’estate. Tanti indigenti, spesso stranieri, ma anche italiani, stanno girando senza meta in città, chi a chiedere l’elemosina chi a importunare la gente a causa della propria disperazione e solitudine. Un cittadino stranieri è stato più volte controllato dalla polizia locale, dopo che è anche entrato in chiesa durante una messa a gridare. La situazione è complessivamente sotto controllo, ma potrebbe peggiorare anche perché tante famiglie non hanno i soldi per mutui e affitti, gli sfratti sono sestuplicati in pochi anni.

Intanto, infuria la polemica dopo che il vicesindaco, Luigi Trevisiol, ha deciso di eliminare le quattro panchine di via Nazario Sauro in cui trovavano giaciglio un paio di senzatetto ogni notte. «Per me era una questione di sicurezza e ordine pubblico», ha detto, «adesso diventa un problema sociale che va risolto al di là delle polemiche e strumentalizzazioni». Ad attaccarlo, la Lega Nord, con il vice governatore del Veneto, Gianluca Forcolin, che ha parlato di brutta imitazione del sindaco Gentilini a Treviso, poi Fratelli d’Italia, molto critica, e Sinistra Italiana che ha attaccato l’amministrazione per non aver risolto il problema. Anna Maria Babbo di Scegli Civica ha evidenziato il tentativo di sorpasso a destra della Lega da parte di Trevisiol e della giunta di centrosinistra.
Poi ci sono situazioni al limite, come quella di Daniele Rossi, 50enne veneziano, che dorme da oltre cinque mesi in auto, vicino al pronto soccorso: «Chiedo aiuto, non ce la faccio più. Adesso per il caldo, d’inverno per il gelo, non so dove andare». Spesso le soluzioni sono difficili da trovare e anche quelle suggerite dal Comune e i servizi sociali non combaciano con le esigenze di chi vorrebbe un’abitazione tutta per sé e non può realizzare questo sogno.
Le abitazioni comunali o dell’Ater non sono in quantità sufficiente per il momento e la burocrazia complica le cose per le assegnazioni. Il sindaco, Andrea Cereser, sta riflettendo sul problema ormai da tempo. «L’emergenza dei senzatetto», spiega, «riguarda purtroppo ogni città sopra un certo numero di abitanti. Noi non possiamo passare davanti a famiglie che hanno diritto di avere una casa perché partecipano a determinate graduatorie e selezioni previste per legge. Una soluzione dovrà essere trovata, anche se di certo non possiamo scavalcare chi ha maturato dei diritti per legge»

«Le riqualificazioni per attrarre turisti fanno schizzare i prezzi delle case. Equo canone abolito, defiscalizzazioni, visti gold per immigrati di lusso... Il precedente governo di centro-destra ha stravolto tutto». il manifesto, 20 aprile 2017 (c.m.c.)

Il mercato immobiliare lisboneta sta subendo negli ultimi anni una vera e propria rivoluzione. Ormai la capitale portoghese è una delle mete principali del turismo internazionale e quindi è necessario creare posti per i visitatori in arrivo.

La globalizzazione non conosce regole, anzi, le vuole abbattere. Occorre attrarre capitali, si dice, e poco importa se poi si alterano gli equilibri a tal punto che la vita delle persone si fa drammatica. Il fenomeno è in realtà più complesso di quanto non appaia. Da una parte è innegabile che i quartieri “tipici” dell’Alfama, Mouraria, Santa Caterina e della Baixa Pombalina stessero cadendo a pezzi. Una situazione di degrado che ben presto sarebbe diventata irreversibile. Chi aveva un po’ di soldi preferiva aree di nuova costruzione e anche i negozi erano stati sostituiti dai centri commerciali. Questo ha fatto sì che le parti più antiche fossero e siano vissute generalmente dagli strati più poveri.

In un batter di ciglio lo status quo viene stravolto. Durante gli anni in cui al governo c’è stato il centro-destra sono state poste le basi per quello che è uno dei più grandi stravolgimenti degli ultimi decenni.

Primo: riforma della legge sugli affitti, per cui i contratti a equo canone sono stati definitivamente aboliti. Secondo: chi, tra gli extracomunitari, investe almeno 500 mila euro, ha diritto a un visto gold con cui muoversi liberamente nell’area Schengen. Terzo: defiscalizzazione per gli stranieri che spostano la propria residenza in Portogallo.

Insomma non solo Airbnb. Lisbona è stata invasa da un’orda di stranieri molto facoltosi che, ovviamente, preferiscono comprare nelle zone più belle e romantiche, meglio se su una collina vista fiume. I prezzi sono saliti fino a 10 mila euro al mq, in un paese in cui il salario medio mensile è di 800 euro. Una quantità di soldi impressionante e quindi non si va troppo per il sottile. Spesso i palazzi sono disabitati da tempo, quindi, a livello teorico, perché no se si ristruttura? Il punto è che a Lisbona, oggi, non si trova una casa in affitto a pagarla oro.

Il bloco de esquerda vorrebbe limitare la possibilità di affittare a turisti ma per ora non è stato fatto molto. Gli investimenti per il sostegno all’edilizia popolare sono pochi e per gli sfollati dal centro le alternative quasi inesistenti. Il Programa Especial de Realojamento (Per) istituito nel 1993, non è più finanziato dal 2009. Così, anche nelle periferie dove il turismo non arriva, si fanno i conti con l’aumento degli sfratti. Fernando Medina, il sindaco socialista della capitale, ha promosso un piano per immettere appartamenti sul mercato a con affitto calmierato, ma i numeri non rispondono alle effettive esigenze e poi ci vuole tempo. Da poco il governo Costa ha approvato un programma di reabilitação de bairros sociais, con un finanziamento di circa 100 milioni di euro, che dovrebbe riguardare 25 mila persone.

«L’urbanista Oriol Ne-lo, tra i suoi autori, spiega a Venezia come fare. “Posti-letto bloccati a quota 160 mila per sempre e spostati via dal centro”». La Nuova Venezia, 21 marzo 2017 (m.p.r.)

Venezia. Mentre Venezia ancora si interroga sul problema del governo dei suoi flussi turistici, Barcellona - con un nuovo piano-pilota - ha già deciso di bloccarli. L’amministrazione catalana guidata dal sindaco Ada Colau - che aveva già dichiarato al suo insediamento che Barcellona «non avrebbe fatto la fine di Venezia» sul piano turistico, scatenando un piccolo caso internazionale - è però passata dalle parole ai fatti. Come spiega il professor Oriol Ne-lo, urbanista catalano che è tra gli esperti che hanno predisposto il piano appena provato che «cristallizzerà» le presenze turistiche di Barcellona al livello attuale, ma con un meccanismo dinamico, che sposterà progressivamente la ricettività dal centro storico alle altre zone della città.

Il professor Ne-lo è in questo periodo visiting professor a Venezia all’Iuav per il Corso di Laurea in Urbanistica e pianificazione territoriale e anticipa i contenuti del piano adottato per una città in forte espansione turistica come Barcellona, che potrebbe fornire spunti interessanti anche al Comune di Venezia.
Professor Ne-lo, come si è arrivati al nuovo piano turistico di Barcellona?
«Il cambiamento arriva sull’onda, nel 2011, dell’affermazione del movimento politico dei cosiddetti Indignados che è arrivato al governo delle principali città spagnole, superata la fase dell’antipolitica. Sindaco di Barcellona è divenuta appunto Ada Colau, che era prima la responsabile del movimento antisfratti della città. Barcellona è passata da 3 milioni e 700 mila presenze turistiche annue dei primi anni Novanta ai circa 30 milioni di presenze attuali, con una crescita esponenziale soprattutto negli ultimi cinque anni anche per lo sviluppo delle attività congressuali, commerciali e culturali della città. Una crescita che ha portato in particolare alla crescita degli alloggi turistici e degli hotel, all’esplosione dei prezzi del mercato immobiliare, all’aumento dei plateatici a fini turistici. Per questo il primo atto della nuova amministrazione Colau nel 2015 è stato il blocco delle nuove licenze alberghiere e delle affittanze turistiche, preparando nel frattempo due nuovi strumenti urbanistici, ora completati».
Di quali strumenti urbanistici si tratta?
«Del nuovo piano strategico per il turismo per l’orientamento dei flussi e soprattutto del Piano speciale urbanistico per le attività turistiche - il Peuat – per regolare la creazione delle strutture ricettive. Il piano strategico prevede che il turismo sia connaturato alla città ma in un equilibrato rapporto con i suoi cittadini. Turisti siamo tutti quando ci spostiamo, il problema è appunto governare la città insieme al turismo. Ma lo strumento più innovativo per il governo del turismo sarà appunto il Peuat, approvato a fine gennaio».
Come funzionerà?
«Avrà quattro obiettivi. Alleviare la pressione turistica, dare risposta alle esigenze dei cittadini, garantire il diritto alla casa ed evitare l’uso della città solo a fini turistici. Nel 2015, quando si è deciso di bloccare i posti-letto per i turisti, con il congelamento di tutte le nuove licenze, erano circa 158 mila, circa un 10% degli abitanti complessivi di Barcellona, tra alberghi, bed & breakfast, ostelli e alloggi turistici. Il piano speciale del turismo stabilisce che questa quota complessiva di posti-letto non sarà superata, Barcellona si ferma qui, ma in modo dinamico». Con che meccanismo? «Il Piano divide la città in tre zone: il centro storico è la zona 1, la griglia urbana ottocentesca la zona 2 e il resto della città la zona 3. Nella zona 1 è prevista una lenta diminuzione, perché hotel chiusi o alloggi turistici dismessi non saranno rimpiazzati. Nella zona 2 sarà mantenuto il numero di posti-letto turistici attuali, sostituendo quelli che verranno meno. Nella zona 3, infine, i posti-letto turistici potranno crescere, rimpiazzando quelli in diminuzione nella zona 1, con la concessione di nuove licenze. In questo modo, progressivamente, i servizi turistici si “spalmeranno” dal centro storico a tutto il resto della città».
Il problema sarà anche quello di controllare che tutti rispettino il Piano. Come si farà?
«Per questo l’Amministrazione di Barcellona ha appena assunto 150 nuovi ispettori che si occuperanno esclusivamente dei controlli sull’abusivismo, sia via Internet, sia sul campo. È stato inoltre creato un sito web comunale mediante il quale ogni turista che arrivi a Barcellona possa sapere in anticipo se la struttura in cui ha prenotato è regolare o abusiva. Uno studio del Comune ha già stabilito ad esempio che solo il 23 per cento degli alloggi turistici di Barcellona promozionati con il sito Airbnb sono regolari. Per questo alcune delle principali città turistiche europee come appunto Barcellona, Parigi, Amsterdam, Berlino tra le altre si sono già mosse insieme nei confronti dell’Unione Europea per un’azione coordinata nei confronti di Airbnb per regolarizzare i suoi iscritti, che sta già dando i primi effetti. Si cercherà inoltre di concentrare gli alloggi turistici in condomini, per evitare di spargerli per tutta la città, Partirà contemporaneamente un piano per la residenza, con la costruzione o il recupero di nuovi alloggi a prezzi calmierati per garantire i giovani e la cittadinanza».
Professor Ne-lo, lei che è qui già da diversi mesi, che idea si è fatto del problema del turismo a Venezia?
«Posso parlare di impressioni, perché non conosco il problema a fondo e perché qui c’è un problema di concentrazione dei flussi turistici che Barcellona non ha, per le dimensioni urbane. Ma direi che è essenziali che anche a Venezia non prevalga la sola monocultura turistica. È quella che appiattisce tutto e questa città ha certamente potenzialità straordinarie per molte altre attività: da centro per la ricerca e la cultura, a polo universitario internazionale, a sede di istituzioni internazionali, solo per fare alcuni esempi. Ci vuole però anche la volontà forte della città di muoversi in queste direzioni, per avere più carte da giocare. Il turismo, infine, deve essere un fattore economico che avvantaggia tutta la città, non solo alcune zone o alcune categorie. Questo è un modo “sano” di viverlo».

postilla

Barcellona è certamente diversa da Venezia per mille ragioni: il rapporto tra città antica e il resto dell'area urbana, la prevalenza degli escursionisti (24h) nell'una e dei visitatori nell'altra. Ma c'è una diversità dominante: Barcellona non è in vendita, Venezia antica è svenduta pezzo per pezzo.

Ieri la notizia agghiaccioante del senzatetto bruciato vivo nel suo giaciglio a Palermo, oggi la buona notizia di un'iniziativa promettente a Torino. Noi speriamo che diventi nazionale. la Repubblica online, ed. Torino, 12 marzo 2017

«Chi l’ha detto che i senzatetto non debbano avere diritti?». A porsi la domanda è proprio un senzatetto, una persona che, causa il corso non lineare della vita, ha come casa da un anno e mezzo un dormitorio. «Non siamo in pochi — racconta Marco Mascia, 50 anni — e le condizioni sono diverse: c’è chi sta sotto i portici sopra un cartone giorno e notte, chi entra ed esce dai dormitori, chi cerca riparo nei vagoni parcheggiati delle Ferrovie o nell’atrio delle stazioni. Perché non unire le forze e fare una nostra associazione? », sottolinea Mascia. L’idea prende corpo a Torino dove sta nascendo un’associazione per la tutela e l’autodeterminazione dei senza dimora gestita dai senza dimora.

Un gruppo di senzatetto, che si sta ampliando, grazie al supporto tecnico della Fio.Psd, la Federazione Italiana degli Organismi per le persone senza dimora. La prima iniziativa dell’associazione spontanea che si sta costituendo è la distribuzione di un questionario fra i clochard torinesi per sapere, secondo loro, quali sono i diritti che vanno rivendicati. Base di partenza per arrivare a una carta dei diritti dei senza tetto. «Il questionario è un punto di partenza — racconta il gruppo che sta lavorando al progetto — per scrivere la carta vorremmo aprire un confronto con gli educatori, le cooperative, le associazioni, le istituzioni pubbliche, private e religiose. Ci siamo dati sei mesi di tempo per fare l’associazione e scrivere la carta».
Il questionario, anonimo, servirà per avere una fotografia del fenomeno e capire quali sono i diritti più sentiti dai senzatetto. Ad esempio il diritto alle cure, a scaldarsi, al riparo, alla parola, al reddito minimo, al voto senza una residenza, alla casa subito, al diritto alla scelta del percorso di reinserimento sociale. «E poi c’è uno spazio bianco per lasciare a ciascuno la possibilità di scrivere il diritto che più lo rappresenta», sottolinea Mascia.
L’Istat indica per l’area metropolitana circa 1.800 homeless, ma il numero potrebbe essere anche più alto. A livello nazionale si stima che i senza dimora siano lo 0,2 per cento della popolazione. L’ambizione è che il progetto dell’associazione e della carta dei diritti da Torino si possa esportare a livello nazionale, ma i senzatetto vogliono evitare che qualcuno metta su di loro un cappello. A iniziare dalla politica. «Nel direttivo dell’associazione ci saranno solo senza dimora. E quando si perde lo status si lascerà anche l’associazione», dice Mascia.

Solo chi vive la condizione di barbone, come qualcuno continua a chiamare con disprezzo chi non ha un tetto, può sapere quali sono le necessità. Capire quali diritti rivendicano le persone — secondo i promotori del «sindacato« dei senzatetto — è utile per chi decide poi le politiche di sostegno e aiuto cosa fare. Ci sono senza dimora che rifiutano i percorsi di reinserimento, oppure preferiscono il freddo della notte al letto in un dormitorio. «Forse perché in un dormitorio dovrebbe rispettare alcuni paletti — raccontano — Meglio piccole strutture sparse, che grandi poli». Nei piani dell’Associazione italiana persone senza dimora, questo per ora il nome provvisorio, c’è l’idea di proporre progetti. Il primo riguarda incontri nelle scuole per riuscire a sensibilizzare i ragazzi sui problemi dei senza dimora. Altro progetto è la costituzione di attività commerciali che possano creare posti di lavoro per permettere ai clochard di riprendersi una parte della propria dignità.

Ecco dove spinge la logica del Mercato secondo la confessione di quelli che realmente governno i processi di trasformazione della città. il Sole24ore, 23 febbraio 2017, con postilla

La domanda residenziale che negli ultimi semestri si è riaffacciata al mercato deve fare i conti con una serie di variabili determinanti per il real estate e con alcune anomalie caratteristiche del mattone italiano. È in estrema sintesi il riassunto del report pubblicato da Rur, Rete Urbana delle Rappresentanze, e Yard, società che si occupa di consulenza nel real estate, per fotografare trend e tendenze del nostro mercato immobiliare.

Fatto 100 il numero base nel 2006 oggi la domanda abitativa è a quota 81,4, ma le compravendite si fermano al 59. Oggi sono 950mila i potenziali acquirenti, rispetto ai 907mila del 2012.

Secondo Yard non pochi sono i rischi interni e internazionali con il quale lo stesso mercato immobiliare deve fare i conti. Tra quelli interni Yard nomina la produttività, ma anche le calamità naturali oltre all’alto debito, tra quelli internazionali le elezioni in Europa, le migrazioni ma anche la riduzione degli investimenti cross-border.

Ma l’analisi del settore è più complessa. «Il ciclo immobiliare, e soprattutto quello delle costruzioni, ha subìto, a partire dalla metà dello scorso decennio, un ridimensionamento di proporzioni che non hanno avuto eguali in passato - recita il report -. Un settore fortemente esposto alla componente residenziale: circa l’80% del fatturato immobiliare deriva dalla componente del “mercato di consumo residenziale” in gran parte per uso proprio, mentre negli altri grandi mercati europei si attesta attorno al 60%, pur avendo dimensioni assolute comparabili».

In Italia, e gli operatori locali e internazionali da tempo lo segnalano, manca la componente essenziale dell’immobiliare per le attività produttive e di servizio urbano che costituiscono il vero motore dello sviluppo territoriale.

«Il fatturato di quello che Eurostat classifica come real estate activities nel 2015 vale, infatti, 130 miliardi di euro in Germania, 83,5 miliardi nel Regno Unito, 80,8 in Francia e 36,2 in l'Italia. Inoltre, nel nostro Paese dal 2006 il turnover si è ridotto del 27%, mentre in Germania è cresciuto del 21%» recita ancora lo studio.

Bisogna reinventare il real estate. Come nel segmento “commercial” (non residenziale) si sta passando sempre più a investimenti value added - edifici da riqualificare per ricavarne valore - così bisogna rigenerare pezzi di città attraverso la demolizione di quartieri degradati, obsoleti o invivibili (pensiamo ad alcuni quartieri di case popolari). Questo il pensiero del team di Yard e di Giuseppe Roma, segretario generale di Rur.

La riqualificazione permette da un lato di non consumare nuovo suolo e dall’altro di innescare un processo di sviluppo che può incidere sulla ripresa dell’economia.

Da segnalare anche lo stop dello sviluppo nel residenziale, che in un momento di crisi ha evitato però di mettere sul mercato abitazioni che non avrebbero incontrato domanda. Nel 2006 a fronte di cento abitazioni vendute si registravano permessi per 30 nuove costruzioni, nel 2016 ogni cento transazioni vengono autorizzate sette nuove abitazioni.

Il Rei (Real Estate Italia) Index (somma le opinioni di miglioramento e la metà di quelle che indicano stabilità) riferito al 2017 per quanto riguarda i volumi scambiati, nel solo comparto residenziale supera la soglia del 50% che rappresenta una prevalenza di opinioni positive per il futuro. Per quanto riguarda i prezzi, gli opinionisti interpellati dalla Rur, segnalano per il 2017 ancora una fase di contenimento nel settore abitativo, con una sostanziale stabilità, tranne che per l’usato di bassa qualità che dovrà subire ancora qualche rastrematura.

Il mercato abitativo sembra soggetto a una forma di “astinenza” da parte dei proprietari di immobili medio–alti, non offerti in vista di una possibile inversione di tendenza. Quindi, i prezzi medi sono in discesa per una diversa composizione qualitativa dei beni scambiati, rispetto al passato.

postilla

Abbiamo capito la logica del Mercato. Case vuote ne abbiamo costruite troppe. Ma gli investimenti, e il lavoro, non possono essere impiegati per restaurare i territori degradati, perché il danaro pubblico serve per gli armamenti, alla faccia della Costituzione. Allora "rigeneriamo" fisicamente e socialmente la città: aumentiamo le cubature nei vecchi quartieri, sovraccarichiamo i servizi già insufficienti, mandiamo fuori i poveri, e dentro i benestanti.

«Una storia minore, che però dice molto di come le cose spesso funzionano in Italia». Il Fatto Quotidiano online, 31 gennaio 2017

La sentenza sancisce “l’esistenza di criticità acustiche” che impediscono la costruzione di Bellaria. La vicenda è stata anche oggetto di un’inchiesta giudiziaria archiviata nel novembre del 2014. Nel decreto di archiviazione si racconta dei 29 milioni di euro nascosti al Fisco da parte di Immobiliare Santilo, la società che aveva venduto i terreni diventati edificabili: tutto però è stato prescritto o sanato dallo scudo fiscale

È una storia che da anni tiene banco a Peschiera Borromeo, un piccolo comune alle porte di Milano. Una storia minore, che però dice molto di come le cose spesso funzionano in Italia. Ora è arrivata una sentenza del Consiglio di Stato, che da un lato impedisce la realizzazione delle nuove residenze, dell’asilo e del parco che erano stati previsti in zona Bellaria in barba a ogni criterio di sicurezza, visto che lì di fianco sorge uno stabilimento della Mapei a rischio di incidente rilevante. Dall’altro lato, la sentenza dice chi in questi anni ha fatto l’interesse pubblico, e chi invece non ha rispettato le leggi per farsi gli affari suoi.

Tutto inizia nel 2007, quando il sindaco del Pd Francesco Tabacchi e il suo assessore all’Urbanistica Silvio Chiapella, entrambi vicini all’allora presidente della provincia Filippo Penati, danno il via a un’incredibile speculazione immobiliare, approvando in zona Bellaria un piano integrato d’intervento per edificare su quello che era un terreno agricolo nuove case, un asilo e un parco, questi ultimi due come opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione. Peccato che l’area abbia più di un problema: la strada di fianco è piuttosto trafficata e i limiti di inquinamento acustico non vengono rispettati, mentre nello stabilimento della Mapei, quello dell’ex presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, c’è un deposito di sostanze a rischio di esplosione, con possibili conseguenze in un raggio di 200 metri.

L’amministrazione di centrodestra che segue quella di centrosinistra se ne accorge e nel 2012 annulla parte del piano, bloccando la costruzione dell’asilo, del parco e delle residenze che non sono ancora state tirate su. Il sindaco Antonio Falletta e il presidente del consiglio comunale Luciano Buonocore presentano anche un esposto in procura. L’inchiesta giudiziaria viene archiviata nel novembre del 2014, ma solo per sopraggiunta prescrizione. Nel decreto di archiviazione sono elencati i nomi dei consiglieri comunali che hanno fatto approvare il piano Bellaria, considerato illegittimo, e racconta dei 29 milioni di euro nascosti al Fisco da parte di Immobiliare Santilo, la società che aveva venduto i terreni diventati edificabili a First Atlantic Real Estate (oggi Idea Fimit) e a tre cooperative locali, realizzando plusvalenze per oltre 42 milioni di euro. In ogni caso tutto finito in prescrizione o sanato grazie allo scudo fiscale.

In comune, dove nel frattempo è tornato al governo il Pd con Luca Zambon, il decreto di archiviazione viene protocollato solo mesi dopo, in modo che nessuno possa leggere cosa c’è scritto sopra. La vicenda Bellaria continua però a tenere banco e a fine 2015 la giunta Zambon finisce per cadere. Qualche mese fa il Fatto quotidiano.it dà conto in un articolo del decreto di archiviazione infrattato e quando lo scorso giugno, in campagna elettorale, alcuni cittadini distribuiscono l’articolo a mo’ di volantino, il Pd locale minaccia pure querele.

Alle elezioni Zambon viene sconfitto da Caterina Molinari, alla guida di due liste civiche. La nuova amministrazione, per quanto riguarda Bellaria, conferma la linea dell’amministrazione di centrodestra. E cambia, rispetto alla giunta Zambon, la linea difensiva del comune nel ricorso che Immobiliare Santilo e Idea Fimit hanno presentato al Consiglio di stato per fare ripristinare su Bellaria il piano originario che già il Tar aveva giudicato illegittimo.

Nei giorni scorsi la sentenza è arrivata, a sancire “l’esistenza di criticità acustiche” che impediscono l’attuazione dei progetti delle opere pubbliche da destinare a parco e asilo. E soprattutto i rischi di incendi ed esplosioni “presenti anche al momento dell’approvazione e dell’adozione del piano integrato di intervento”. Ora ci sarà da realizzare delle opere di mitigazione dei rischi e dell’inquinamento acustico a favore di chi ha comprato un alloggio anni fa, negli edifici costruiti prima che le magagne saltassero fuori. E, secondo la sindaca Molinari, non ci si dovrà fermare a questa sentenza: «Riteniamo che i responsabili della vicenda debbano rispondere direttamente delle scelte e delle conseguenze che ne sono derivate, a tutela della legalità e del benessere dei cittadini».

«Paesaggi berlinesi. Intervista con il sociologo tedesco Andrej Holm sul diritto all’abitare». il manifesto, 21 gennaio 2017 (c.m.c.)

Si potrebbe parlare di «nuovo maccartismo», questa volta al servizio della speculazione immobiliare. Dopo le dimissioni dall’incarico di Segretario di stato per la casa nel Senato della capitale tedesca, il sociologo Andrej Holm ha appena presentato ricorso contro la decisione della Humboldt Universität di cancellare il suo contratto di ricercatore (ne ha dato notizia Jacopo Rosatelli su queste pagine). Abbiamo conversato con Holm che ha accettato di raccontarci la sua storia.

«Sono nato nel 1970 nella Germania Est e cresciuto in una famiglia di solida tradizione comunista – ha spiegato -. Da ragazzo nella Ddr il mio atteggiamento verso il socialismo era molto idealista. E perciò mi sono arruolato per la leva in un reparto della StaSi. Con la svolta del 1989 ho cambiato molte convinzioni rispetto al sistema socialista e sono diventato parte del movimento libertario e autonomo qui a Berlino. Poi ho iniziato a impegnarmi con il movimento degli inquilini nei quartieri orientali. Il dibattito sulla gentrification inizia ufficialmente tra il 2008 e il 2009, ma a Berlino Est abbiamo avuto lotte contro la gentrificazione molto prima che il concetto diventasse «di moda» in ambito accademico. Ho iniziato a studiare sociologia urbana alla Humboldt Universität, trovando una diretta corrispondenza tra questi concetti scientifici e la mia esperienza di lotta. Così ho sempre lavorato sull’interrelazione tra ricerca accademica, movimenti e politica cittadina».

Poi ci sono state le elezioni di settembre a Berlino ed è cominciata la discussione sul programma della coalizione di governo rosso-rosso-verde. Che ruolo hanno avuto i movimenti?
Per la prima volta si discuteva nel merito dei contenuti, in dettaglio, e con grande trasparenza oggi chiunque può leggere quali sono gli impegni assunti dal nuovo governo della città. In materia di politiche abitative ma non solo, siamo di fronte a un programma marcatamente anti-liberista. Si dice che il «decennio dell’austerity» è finito e si apre invece una fase di rinnovati investimenti pubblici, per la creazione di infrastrutture sociali. Sulla base di questo ho accettato la proposta della Linke di entrare nella squadra di governo in prima persona. Sono state direttamente assunte nel programma molte delle rivendicazioni elaborate dal movimento. E le lotte per il diritto alla casa avevano fatto di questo tema uno degli aspetti decisivi della sconfitta Cdu.

Poche ore dopo la sua nomina è scoppiato il caso-Holm. Come possiamo interpretarlo?
Ci sono certo intrecci tra la campagna contro di me, la cultura profondamente anti-comunista di settori dell’establishment tedesco e gli interessi materiali del capitale speculativo. È certo un dibattito dalle molte sfaccettature, come del resto è la mia biografia politica e personale insieme. Ho deciso di dimettermi per evitare che si arrivasse alla rottura nella coalizione rosso-rosso-verde e che le nuove politiche sociali, antiliberiste e anti-austerity contenute nei suoi impegni programmatici, venissero messe in discussione.

Ha scritto nella sua lettera di dimissioni «il mio ritiro non significa affatto la rinuncia a una politica alternativa per la casa». Che cosa intendeva?
La possibilità di un’interazione positiva tra il nuovo governo di Berlino e i movimenti è tutta aperta. Abbiamo imparato una volta di più che invertire le tendenze dominanti nel campo della politica residenziale è questione di rapporti di forza sociali. E noi dobbiamo interrogarci su come sia possibile costruire un contro-potere più forte di prima. Se vogliamo una nuova politica della casa, dobbiamo lottare: un buon social housing non sarà mai un «regalo» del governo, bisogna conquistarlo. Ed è chiaro che molte iniziative degli inquilini escono rafforzate da questa esperienza.

Può riassumere quali sono i principali problemi per quanto riguarda il diritto alla casa a Berlino e, viceversa, quali siano i punti di forza del programma che ha contribuito a scrivere?
È una materia complessa. Mettiamola così: soddisfare il diritto all’abitare è troppo costoso per chi ha un basso reddito, ma questo è il risultato dell’intreccio tra condizioni economiche generali, meccanismi finanziari e politiche pubbliche. Bisogna perciò avere un approccio sistemico. E il punto è ancora quello posto 150 anni fa da Friedrich Engels, cioè la logica capitalista che ritiene la casa una merce, da valorizzare il più possibile. Perciò vogliamo ricombinare un ampio ventaglio di strumenti: dal superamento della logica privatistica di gestione dello stesso patrimonio pubblico, a nuove regole per il «social housing», dalla protezione effettiva dei diritti degli inquilini alla fine di dismissioni e privatizzazioni; serve anzi un massiccio piano di nuove acquisizioni comunali. Infine, abbiamo affermato un diverso modo di prendere le decisioni politiche: non più consultazioni con le lobby immobiliari, ma un ampio e partecipato dibattito, che analizzi l’impatto sociale di ogni scelta istituzionale.

Quali sono le similitudini e le differenze tra la situazione della casa a Berlino e nelle altre città europee?
Ci sono molte cose in comune, perché tutti, anche se in misura e con modalità diverse, abbiamo subito gli effetti delle politiche neoliberiste negli ultimi vent’anni. E dall’altra parte, ogni città ha la sua specifica storia, sia nello sviluppo urbano che nella crescita dei movimenti. Berlino, per effetto della sua storia di città divisa, continua ad avere una certa «mixité» sociale anche nei quartieri più centrali. Nel cuore della metropoli continuano a vivere persone a basso reddito, famiglie che beneficiano del sistema di welfare. Questa è la grande differenza con Parigi, Londra o Barcellona, dove la trasformazione neoliberista del centro è un processo compiuto. E la nostra sfida è mostrare che è possibile una diversa qualità sociale della vita urbana nel suo insieme. Che è una componente essenziale del discorso sull’eguaglianza sociale nelle nostre città, che può nascere ed essere portato avanti dai movimenti.

Pensa possa esserci lo spazio per costruire alleanze tra città per affermare una diversa politica della casa in Europa?
Dobbiamo portare avanti questo lavoro su entrambi i versanti. Da alcuni anni c’è un buon livello di relazioni tra movimenti per la casa: le nostre iniziative anti-sfratto qui a Berlino hanno adottato molte delle forme sperimentate dalla Pah, ad esempio, traducendole nelle nostre condizioni. Imparare dalle altre città e organizzarsi su scala transnazionale è fondamentale. Poi c’è un secondo livello, quello dell’elaborazione dei dispositivi necessari ad attuare una nuova politica dell’abitare: abbiamo differenti legislazioni nazionali, in Olanda o in Italia, ma ci sono delle idee che possiamo adattare e applicare.

Perciò dobbiamo fare rete, sia tra ricercatori critici, sia tra attivisti, sia tra governi di sinistra e alternativi. E combinare questi differenti livelli, non solo tra istituzioni. Ada Colau sa bene, come del resto la coalizione rosso-rosso-verde di Berlino, di aver bisogno di una forte spinta dal basso, di una permanente pressione sociale. E questo è parte della nostra capacità di mutuo apprendimento a livello internazionale.

«Un numero crescente di cittadini di diversa estrazione sociale subisce un'espulsione fisica e simbolica dalle città. I quartieri sono investiti dalla speculazione immobiliare e finanziaria. In tutta Europa nascono movimenti che si ibridano con quelli per il diritto all'abitare». Articoli di Sandra Annunziata e di Roberto Ciccarelli. il manifesto, 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

MOVIMENTI EUROPEI
CONTRO LA GENTRIFICAZIONE
di Sandra Annunziata

Un’agenda contro le politiche di "gentrification" nelle città dell’Europa del Sud. È l’obiettivo collettivo che si sono posti attiviste, rappresentanti di piattaforme anti-sfratto, studiose e comitati di quartiere di Lisbona, Madrid e Barcellona, Roma e Atene che si sono incontrati all’università di Roma tre per un workshop su uno dei temi che interrogano di più i movimenti sociali e le comunità accademiche critiche. La «gentrificazione» è un processo sociale e urbano complesso contro il quale si adottano pratiche anti-sfratto, anti-speculative e contro la mercificazione dello spazio urbano a fini turistici.

L’obiettivo dell’incontro è stato quello di condividere cosa significhi oggi ipotizzare delle alternative praticabili ai regimi di espulsione in atto in città caratterizzate da un clima di austerità permanente e assumere una agenda di priorità adatte alle emergenze sociali delle città che abitiamo . La parola "anti-gentrification oggi viene usata almeno per tre motivi. Per pensare al suo contrario, ad esempio. Viviamo in città e quartieri gentrificati, si sta gentrificando anche la periferia storica, i vuoti urbani sono oggetto di mere azioni speculative che non tengono conto nemmeno dei vincoli archeologici, ultima roccaforte per preservare il valore collettivo di una città.

Il concetto dianti-gentrificazione viene anche usato per gestire la complessità dei temi sollevati dai movimenti sociali urbani. Serve a tenere insieme diverse forme di espulsione delle persone appartenenti a diverse categorie sociali. Esiste un’espulsione diretta, quella che avviene con gli sfratti. E l’espulsione indiretta, quella legata ai progetti di trasformazione urbana che inevitabilmente aumentano i valori immobiliari delle aree, di conseguenza gli affitti e il valore degli immobili. Esiste l’espulsione simbolica che reifica il significato dei luoghi e delle memorie urbane e le trasforma in prodotto turistico o da consumare. Infine l’abbiamo usata strategicamente per il suo valore politico e per chiederci se sia gestibile e quale ruolo possano svolgere le politiche in un ottica di prevenzione e mitigazione della gentrificazione.

Per le forme e le specificità assunte da questi processi nelle città dell’Europa del Sud, credo che non possa più ignorare la «gentrificazione». Un numero crescente di cittadini di diversa estrazione sociale è interessato dal problema. Come fare per invertire la rotta? La risposta arriva dai comitati di quartiere, dai movimenti anti-sfratto, anti-austerity e anti-speculazione: pensare alla decrescita e mitigare il turismo, bloccare i piani di vendita del patrimonio e mettere a regime le competenze sull’autorecupero a scopi abitativi; riabitare il patrimonio inutilizzato; istituire moratorie anti sfratto in assenza di alternative alloggiative, proteggere le prime case e un tessuto diffuso di piccoli proprietari; dare avvio a una nuova generazione di cooperative indivise a diritto d’uso; dare spazio alla partecipazione e assumere il conflitto come base per l’azione sociale.

Queste azioni possono rendere più coesa, più solidale, più giusta una città che non rinuncia allo sviluppo e alla rigenerazione e non ignori le comunità che la abitano e le loro esigenze. La risposte al problema dell’espulsione sono collettive e soprattutto tra diversi gruppi sociali. Contrastare l’espulsione urbana. realizzare l’inclusione, sono due modi per ristabilire un’ordine nelle priorità dell’agenda urbana di una città.

LA STORIA DI CARMEN
«LA BANCA VOLEVA LA CASA
HO RESISTITO E POI HO CAPITO
CHE NON ERO SOLA
»
di Roberto Ciccarelli

«Diritto alla città. La bolla immobiliare in Spagna ha colpito anche il ceto medio che ora sta scopre il mondo dell’autorganizzazione. "A Madrid con la Pah, la piattaforma sociale contro gli sfratti, ho scoperto una comunità, una forza collettiva, un modo di lavorare con gli altri"

Nella sua vita precedente Carmen Gutiez faceva l’imprenditrice a Madrid. Era quella che si poteva definire una «storia di successo»: un’impresa di consulenza sulla formazione che dava lavoro fino a 300 persone, una casa in centro a Madrid il cui valore è stato calcolato intorno al milione di euro.

Oggi ha più di cinquant’anni, è una madre single, e la sua vita è cambiata radicalmente, come mai avrebbe potuto immaginare. Carmen colloca l’ora X nella crisi del 2008. Da quel momento le cose sono andate peggiorando, al punto che ha dovuto chiudere l’impresa, Alla lunga i risparmi sono finiti e Carmen non è riuscita a pagare il mutuo e le bollette. «In Spagna, come anche voi in Italia, agli imprenditori e ai freelance non viene riconosciuto un sussidio di disoccupazione», ci racconta a Roma dopo un intervento in un workshop sui movimenti antigentrificazione e per il diritto all’abitare.

Questa è la storia comune di molti professionisti del ceto medio alto, e basso, travolti nel paese iberico dall’esplosione della bolla immobiliare e dalla crisi economica. Come loro, milioni di spagnoli in condizioni sociali molto distanti. La crisi è interclassista e non guarda in faccia nessuno. «Ero a casa nel 2015 – ricorda – Cercavo lavoro sul mio pc e qualcuno bussa alla porta. Era la polizia e l’ufficiale giudiziario, dicono che vogliono sfrattarmi. La banca voleva la mia casa dopo avermi preso i risparmi».

Nella concitazione, Carmen riesce a ottenere una settimana di tregua. Il tempo necessario per contattare lo snodo locale della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah) di Madrid Centro, snodo del movimento perla casa e contro gli sfratti che in Spagna ha raggiunto una straordinaria ramificazione e partecipazione politica al punto da avere espresso anche la sindaca di Barcellona, Ada Colau. Quello di Carmen è diventato un caso nazionale quando il movimento si è mobilitato. Su twitter viene lanciato l’hashtag: #CarmenSeQueda, Carmen non se ne va, resta qui. Uno slogan usato molte altre volte.

La Pah usa anche un altro slogan, mutuato da quello italiano da una definizione dello storico dell’arte e sindaco della Capitale Giulio Carlo Argan: «Roma è una città di gente senza casa e di case senza gente». Sugli striscioni usati durante i picchetti nella negoziazione tra la Pah di Madrid e la banca «La Caixa» ne è stato mostrato uno con la traduzione in spagnolo: «ni gente sin casa, ni casas sin gente» con il simbolo della Pah e quello internazionale: «Stop evictions», cioè «Stop sfratti», «stop desahucios».

«Adesso vivo con un salario minimo di 426 euro mensili, in Spagna esiste e mi arrangio». La sua nuova vita è quella dell’attivista per il diritto all’abitare. Fa la social media manager del movimento, partecipa ai picchetti anti-sfratto, gira la Spagna e l’Europa e fa politica. «Ogni volte rivivo quel momento dello sfratto, non voglio che altre persone lo vivano. Non è giusto – racconta – I miei genitori sono morti, con la Pah ho scoperto un nuovo modo di creare una famiglia. è come riscoprire l’amicizia con il mondo. Ho scoperto la sensazione che ti dà una forza collettiva, insieme a persone molto diverse».

La Pah, nata nel 2009, è una delle più potenti espressioni di quel movimento di massa che è stato il 15M spagnolo nel 2011. Oggi è impegnata nella campagna per una legge sulla casa nella Madrid governata da Manuela Carmena. Una proposta di legge di iniziativa popolare è stata respinta dal parlamento. «Questa è una nuova opportunità per me – sostiene Carmen – non siamo soli e posso lavorare per gli altri».

Riferimenti

Se non sapete che vuol dire "gentrification" scrivete la parole nel "cerca". Leggete soprattutto qui l'articolo di Saskia Sassen

Riflessioni sulla fine delle politiche abitative pubbliche, mascherata dalle retoriche e dal sostegno al cosiddetto housing sociale, a partire da un libro sull'edilizia sociale e da una legge della Regione Lombardia. casadellacultura.it, 22 ottobre 2016. (m.b.)

Il libro curato da Saverio Santangelo, Edilizia sociale e urbanistica. La difficile transizione dalla casa all'abitare (Carocci, 2015), prende in esame il tema della nuova questione abitativa, valutando lo stato di salute delle politiche pubbliche degli ultimi anni. Il volume si sviluppa attraverso il contributo di ricercatori e attori diretti, in una prospettiva di inquadramento storico, cercando di mettere in luce, a partire da un'analisi critica delle politiche messe in campo oggi, i nodi teorici e i conseguenti risvolti pratici, anche individuando approcci e strumenti che potrebbero contenere elementi di novità e interesse per la definizione di nuove strategie di intervento. Transizione, come suggerisce il titolo, è la parola chiave: come travaglio del processo di cambiamento in corso della società e della crisi del modello fondato sull'intervento pubblico, caratterizzato da debolezze strutturali e persistenti ma che ha comunque dato risposte importanti con l'edilizia pubblica al bisogno di casa dei ceti popolari, nella più generale crisi del welfare; come opportunità e necessità di definire nuove strategie di intervento integrate in merito alle politiche della casa e all'urbanistica, verso una politica che consideri qualità dell'abitare e del vivere nella città. Attorno a questa tensione si snoda il libro. Tra ciò che si sta realmente compiendo e ciò che si potrebbe ancora modificare e realizzare. Transizione quindi verso dove? E chi sono gli attori che le politiche pensano, promuovono e attuano? Ma anche chi sono i beneficiari e secondo quali priorità vengono ascoltati e inclusi nei processi decisionali. E ancora, questa fase di demolizione e ricostruzione del welfare abitativo è un'opportunità per chi?

Sebbene il libro contenga una pluralità di voci e vengano presentate esperienze locali e sperimentazioni di progetti di rigenerazione urbana e di edilizia sociale analizzate nelle loro criticità, ma anche nei diversi aspetti positivi e di successo, emerge con nettezza un giudizio globale negativo: questa transizione è difficile: "in assenza di un cambiamento complessivo, culturale, politico-istituzionale e sociale - e che in quanto tale richiede tempi lunghi -, sulle questioni qui affrontate non è possibile attendersi risultati significativi" (dall'introduzione del testo).

Il dato di partenza è il dramma della realtà italiana: aumento costante dei tassi di disoccupazione nella prolungata fase di stagnazione economica che stiamo attraversando, contrazione del potere di acquisto delle famiglie, accelerazione dell'aumento della diffusione della povertà nel processo iniziato ormai trent'anni fa di crescita della diseguaglianza economica; crisi del ciclo edilizio travolto dalla crisi economico-finanziaria globale dopo aver comunque lasciato il territorio italiano ricoperto di cemento, un consistente patrimonio immobiliare sfitto, il drastico calo delle compravendite, guadagni e risparmi delle famiglie immobilizzati nella spesa della casa; centinaia di migliaia di famiglie in attesa dell'assegnazione di un alloggio popolare, 150mila famiglie con in corso una procedura di sfratto o esproprio, città in cui diminuisce la qualità dell'abitare, un patrimonio pubblico in progressivo decadimento a causa della mancanza dei piani di manutenzione ordinaria e straordinaria, quartieri popolari sempre più abbandonati dalle istituzioni e ormai ghetti, sganciati dal destino del resto della città.

Il secondo elemento è che, in una situazione così strutturalmente complessa e disastrosa, costante e progressiva è la riduzione dei finanziamenti pubblici. La crisi economica e i conseguenti programmi di austerity richiesti dall'Europa sono andati a sovrapporsi negli ultimi anni a una politica pubblica già caratterizzata fin dai suoi inizi da investimenti per il welfare abitativo che hanno sempre collocato l'Italia tra gli ultimi paesi europei. E come mostrato nella conclusione del libro, l'ultimo intervento nazionale, il Piano Casa Renzi-Lupi, promosso come lo strumento attraverso cui il tema dell'emergenza abitativa ritornava al centro della politica, in realtà mette a disposizione ancora meno risorse, solo lo 0,08% del PIL.

A partire da questi due assunti nel volume viene dato spazio al tema dell'housing sociale, ripercorrendone l'evoluzione normativa, dalla nascita agli inizi degli anni duemila, alla costituzione nel 2009 del Sistema Integrato dei Fondi di Investimento (Sifi), al ruolo che assume con la Legge 80/2014: da misura collaterale introdotta a supporto ed integrazione delle politiche pubbliche già in atto come risposta al fabbisogno abitativo di un ceto medio solvibile ma troppo povero per il mercato privato ad ambito che ha permesso l'entrata sulla scena del welfare abitativo di attori finanziari attraverso i fondi immobiliari, determinando una ridefinizione dell'intervento pubblico volto all'investimento. A causa di un quadro normativo frammentato e approssimativo, della mancanza di una governance forte da parte dell'istituzione pubblica e della mancata integrazione con le politiche urbanistiche, tale strumento ha però fino ad ora disatteso le aspettative a fronte invece di una consistente mobilitazione di risorse pubbliche: la redditività degli interventi per gli investitori privati insieme con gli ingenti costi dell'"apparato" delle società di gestione del risparmio ha infatti privilegiato la nuova costruzione a discapito di progetti di recupero e riqualificazione dell'esistente, con un risultato comunque misero (2500 alloggi, dicono i dati disponibili) in minima parte in locazione e con affitti accessibili. Nel contempo però la partecipazione alla privatizzazione di Cassa Depositi Prestiti ha fruttato alle fondazioni di origine bancaria una rivalutazione superiore al 50% dell'investimento, che nell'ambito del welfare abitativo si sta declinando anche nella gestione dei processi di privatizzazione dei patrimoni immobiliari pubblici e degli enti previdenziali.

Ad allarmare non è solamente l'esiguità dei risultati degli interventi, ma la filosofia sottesa che sta forse a indicare la meta della transizione in corso, se altre strade non verranno scoperte e percorse. Housing sociale è espressione ricorrente in tanta letteratura e retorica istituzionale, il più delle volte accompagnata ad altre espressioni, quali opportunità, coesione sociale, accompagnamento, ibridazione pubblico-privato, innovazione. Una narrazione che ci spinge a credere che i diversi attori, pubblici e privati, possano concorrere al benessere collettivo ciascuno "guadagnandoci" qualcosa. In questo quadro però a essere ridefinito e ridimensionato è il ruolo del Pubblico, ridotto a mero facilitatore: cioè con il compito di rendere l'investimento sostenibile economicamente per il soggetto finanziario, che in cambio si adopererà per il benessere della società. A essere sacrificato sembra essere il diritto a un abitare dignitoso e sostenibile economicamente delle famiglie senza casa, sotto sfratto, costrette in alloggi spesso antigienici e non idonei e delle migliaia di inquilini che abitano nei caseggiati dei quartieri popolari abbandonati al degrado. Si dice infatti che il sistema dei fondi di investimento e dell'housing sociale non siano una risposta alla questione abitativa e non potranno sostituire l'edilizia popolare. Si sente dire meno però che le politiche promosse contravvengono a questa constatazione, valorizzando l'intervento privato e creando le condizioni normative ed economiche per una sua maggiore diffusione e per un suo più stabile radicamento.

La logica di finanziarizzazione del welfare e di riduzione dell'intervento pubblico a facilitatore dell'investimento privato si può ritrovare anche in alcuni interventi strategici dei diversi livelli istituzioni. Ne è esempio la costituzione da parte del Comune di Milano dell'Agenzia sociale per la locazione, oggetto di un'energica campagna di marketing, ma che ad oggi non ha dato alcun risultato concreto sia nella gestione delle situazioni di morosità incolpevole, secondo quanto previsto dalla Legge 80, che nella stipula di contratti a canone concordato (i dati infatti non vengono pubblicizzati né dal Comune né dall'Agenzia stessa). La retorica è simile a quella promossa dalle politiche rivolte a sostenere i fondi mobiliari: cercare di alleviare il disagio di quella fascia di popolazione che non può accedere all'edilizia popolare (ma per cui i canoni liberi da mercato incidono troppo sul bilancio famigliare) in modo da arginare i processi di impoverimento; agevolare l'incontro della domanda e dell'offerta facendo comprendere a entrambe le parti quanto sia conveniente stipulare un contratto a canone concordato. Secondo questa stessa motivazione il Comune di Milano ha ottenuto che venisse rivisto al rialzo il nuovo accordo locale sugli affitti, sebbene non sia stato sottoscritto dalle organizzazione sindacali più rappresentative in città. Un'opportunità, quindi, più che per gli inquilini, per le grosse proprietà immobiliari che ritoccando di poco gli affitti già percepiti potranno beneficiare di consistenti agevolazioni fiscali.

Eppure siamo di fronte a una realtà drammatica che solo a Milano riguarda 30mila famiglie su cui pende una procedura di sfratto o esproprio, 14mila famiglie con l'ufficiale giudiziario alla porta e 25mila famiglie in attesa di un alloggio popolare. Abbiamo anche a disposizione studi approfonditi e seri che mostrano come esista un profondo divario tra reale domanda per capacità economica dei nuclei famigliari e l'offerta di alloggi. Citiamo a titolo di esempio la ricerca condotta nel 2012 dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, "Offerta e fabbisogno di abitazioni al 2018 in Lombardia" (responsabile prof. Antonello Boatti), che dimostra come in Lombardia "il 73,97% del fabbisogno complessivo stimato al 2018, sulla base dell'analisi dei redditi, [sia] ascrivibile necessariamente a nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica, il 26,03% del medesimo fabbisogno [sia] invece ascrivibile alla domanda di edilizia residenziale sociale. Infine il surplus di edilizia residenziale libera stimato [ammonti] a 808.656 vani, pari a 367.656 abitazioni". Colpisce dunque come, in generale, ad avere il sopravvento sia una narrazione pacificata della realtà, secondo cui sarebbe sufficiente far convergere i diversi interessi in campo, mentre pare impossibile aprire anche solo una discussione sulla possibilità che il Pubblico possa riconquistare un ruolo più determinante sul mercato, attraverso gli strumenti fiscali, urbanistici e normativi che ha a disposizione.

Un secondo esempio di come le politiche di valorizzazione immobiliari si stiano qualificando come operazioni di privatizzazione e sottrazione di patrimonio pubblico alle sue finalità sociali è dato dal caso di alcuni stabili del quartiere Mazzini a Milano. Dopo essere stati svuotati parzialmente dagli abitanti nell'ambito del progetto di riqualificazione Contratto di Quartiere II iniziato nel 2004 ed essere stati lasciati privi degli interventi di manutenzione ordinaria, con un'accelerazione dei processi di degrado, a seguito del dissesto finanziario di ALER e la mancanza dei fondi, la cabina di regia del progetto ha deciso di cancellare gli interventi non iniziati. E nonostante le famiglie rimaste negli stabili, costrette a subire un abitare non dignitoso in un contesto di abbandono, si siano comunque impegnate insieme con i loro rappresentanti sindacali a trovare soluzioni, Regione Lombardia ha accolto la proposta di Investire sgr e ha trasferito la piena proprietà di alcuni immobili a un comparto del Fondo Immobiliare di Lombardia già esistente. Case finanziate e costruite come edilizia pubblica verranno così trasformate in edilizia privata/convenzionata, senza nessuna informazione e coinvolgimento degli abitanti presenti e dei loro rappresentanti e senza alcuna garanzia.

Ritroviamo in una forma più sistematica questi stessi principi nel nuovo Testo di Riforma dell'edilizia popolare e sociale, approvato dal Consiglio Regionale della Lombardia a giugno e che ha come titolo "Disciplina regionale dei servizi abitativi", tema che meriterebbe uno studio e un approfondimento specifico, soprattutto in relazione al processo di fallimento economico di Aler Milano, nel quadro del ventennio di governo Formigoni. Il Testo è stato approvato nel quasi totale disinteresse dei mezzi di informazione e della collettività e con la sola opposizione delle organizzazione sindacali degli inquilini, di alcuni comitati e movimenti per la casa che, purtroppo, non sono riusciti a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza del tema.

Il progetto, con lo scopo dichiarato di voler risolvere la strutturale mancanza di finanziamenti per le politiche della casa e dei quartieri pubblici, a partire dai principi della "sostenibilità economica" del sistema e del "mix sociale", va a ridefinire la funzione dell'edilizia pubblica, stravolgendone il senso e costruendo un modello che esclude i ceti più poveri, colpevolizzandoli e costringendoli in un sistema che ha sempre meno a che fare con i diritti e sempre più con uno stato sociale residuale e caritatevole, delegato al privato sociale. In breve, le misure principali previste dalla normativa sono: l'ingresso dei privati nella gestione degli immobili attraverso il sistema dell'accreditamento; un limite all'accesso delle famiglie indigenti che potranno avere una casa solo ed esclusivamente tramite la presa in carico dai servizi sociali; il consolidamento dei piani di alienazione del patrimonio; la promozione di programmi di valorizzazione; l'assegnazione degli alloggi svincolata da graduatorie di bisogno e subordinata all'offerta degli alloggi effettivamente disponibili; l'affidamento al Terzo Settore della gestione di alloggi da trasformare in "servizi abitativi transitori" rivolti a famiglie in emergenza abitativa e sotto sfratto; l'erogazione di contributi economici a carattere temporaneo con contestuale attivazione di programmi di recupero dell'autonomia economica e sociale rivolti agli inquilini riconosciuti "morosi incolpevoli"; misure di allontanamento per gli inquilini riconosciuti "morosi colpevoli" e occupanti senza titolo. In prospettiva ciò significa che 1/3 del patrimonio di case popolari attuali potrebbe cambiare la sua destinazione ed essere venduto e "spostato" in un sistema più sostenibile e redditizio per gli enti gestori, a canone moderato o convenzionato o in patto a futura vendita o dirottato ai servizi transitori, tradendo la funzione sociale per cui l'edilizia pubblica è stata realizzata e cioè dare una casa dignitosa ai ceti popolari.

L'equilibrio finanziario del sistema sembra quindi essere trovato attraverso il "cambiamento dell'inquilinato": escludere le famiglie più povere per sostituirle con famiglie con capacità economiche più certe. In questo modo l'istituzione pubblica si sgrava di una parte del compito di dover garantire il diritto di tutti a una casa a un costo economicamente giusto e in secondo luogo si sottrae a qualunque possibile discussione sul giusto costo della casa popolare e sociale, sia per quanto riguarda il canone che le spese, anche in relazione alla qualità dei servizi e ai costi di gestione e sulle connessioni con l'urbanistica.

Discutibile è infine la retorica sulla colpevolezza/incolpevolezza della morosità, che stigmatizza la condizione di povertà, riducendola alla sola responsabilità dei singoli, e mette in risalto la distanza tra coloro che hanno steso la legge e i cittadini a cui la legge è rivolta. Cittadini che con sofferenza, ogni giorno, si scontrano con la precarietà del mondo del lavoro e la frammentazione del sistema sociale, subendo così una progressiva riduzione del proprio orizzonte di cambiamento e di mobilità sociale, senza trovare ancora un'autonoma capacità di espressione. In conclusione, una riforma ideologica, che non sembra essere all'altezza della realtà e che andrà ad aggravare l'emergenza abitativa di questi anni.

«La legge di stabilità promuove un programma straordinario per la riqualificazione urbana. Migliorare la qualità della vita nelle nostre città è fondamentale ma serve un nuovo programma?» Sbilanciamoci.info, 3 maggio 2016

La legge di stabilità per il 2016 (l. 2008/2015) promuove un programma straordinario per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e delle città capoluogo di provincia. Il bando con le modalità e le procedure per presentare i progetti è stato iscritto all’ordine del giorno della conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali dello scorso 14 aprile.

Migliorare la qualità della vita nelle nostre città, e soprattutto nelle loro periferie, è fondamentale anche per contenere le aree di disagio e marginalità sociale ed esistenziale. Ma serve proprio un nuovo programma?

La riqualificazione una e trina

Nel prospetto riportato qui sotto, sono stati messi a confronto i principali parametri e caratteristiche dei tre più recenti programmi di riqualificazione urbana che perseguono gli stessi obiettivi: uno promosso, nel 2012, dal governo Monti e ancora in corso di attuazione, e due dal governo Renzi, con le leggi di stabilità 2015 e 2016; gli interventi da realizzare con il primo di questi ultimi due programmi sono ancora nella penna dei progettisti, malgrado sia passato ormai quasi un anno e mezzo dalla sua approvazione.

Dalla lettura del prospetto si può osservare quanto segue.

1) Fin dalla loro denominazione sono intuibili le sovrapposizione tra i tre programmi. Al riguardo i possibili dubbi sono fugati dalla descrizione sintetica delle opere che possono essere finanziate: i progetti ammessi devono riguardare l’ampio spettro degli Interventi finalizzati al miglioramento delle aree urbane degradate e marginalizzate e al recupero del degrado sociale, che è fonte anche di insicurezza. Nelle liste dettagliate degli interventi finanziabili le descrizoni di alcune di esse sono pressoché le stesse in tutti e tre ibandi indetti per la realizzazione dei programmi.

2) L’ultimo programma promosso limita la partecipazione alle sole città metropolitane e ai comuni capoluogo di provincia. Questi comuni potevano, però, partecipare anche ai bandi relativi ai due precedenti programmi.

3) Le leggi che hanno promosso i due programmi del governo Renzi hanno stabilito un calendario per l’emanazione dei bandi e per la presentazione dei progetti da parte dei comuni. In entrambi i casi le scadenze previste non son state rispettate né per l’emanazione dei bandi né per la presentazione dei progetti.

4) La gestione del piano nazionale per le città è affidata al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, competente in materia delle politiche per la casa e per la riqualificazione urbana. La selezione dei progetti da finanziarie con i due programmi promossi dal governo Renzi è affidata ad apposite strutture temporanee costituite presso la presidenza del consiglio dei ministri.

5) La dotazione finanziaria dei programmi è modesta non solo con riferimento ad ognuno di essi, ma anche per tutti i tre insieme. Lo stanziamento totale si attesta sul miliardo di euro; metà di questa cifra è distribuita tra il 2012 e il 2017.

La rinuncia all’efficacia
È una profezia facile prevedere che l’ammontare del finanziamento chiesto dai comuni, sui due programmi più recenti, sarà molto più elevato delle somme messe a disposizione dal bilancio statale. È già successo con il piano città promosso dal governo Monti. In quel caso, i comuni presentarono 457 progetti; con i poco più di 300 milioni di euro disponibili ne sono stati finanziati 28, la cui realizzazione richiede un investimento complessivo di 4,4 miliardi di euro. Non sono reperibili dati sul stato di attuazione degli interventi finanziati, ma è molto probabile che per alcuni di essi sia ancora molto arretrato, considerato che in molti casi il finanziamento ottenuto è solo una percentuale molto piccola della spesa da sostenere.

È prevedibile che un certo numero di progetti non finanziati con il piano città sia già stato ripresentato per concorrere al bando del programma 2015; le città metropolitane e i comuni capoluogo di provincia, ritenteranno, con gli stessi progetti, la sorte anche con il programma di quest’anno ad essi riservato.

La moltiplicazione di programmi con la stessa finalità dotati di risorse scarse, mentre è già disponibile una lunga lista, di recente formulazione, di progetti già valutati, non può essere classificata tra le pratiche di buon governo e di buona amministrazione. Finanziare con le somme nel frattempo trovate nel bilancio dello stato alcuni dei progetti già valutati positivamente per il piano delle città, ma non finanziati per mancanza di fondi, avrebbe fatto risparmiare costi amministrativi ai comuni e all’amministrazione centrale e ridotto i tempi di avvio delle opere. La celerità nell’esecuzione degli interventi darebbe anche una spinta all’economia. Se fosse stato ritenuto utile, con le stesse norme di promozione dei due nuovi programmi, o con atti amministrativi, le nuove risorse potevano essere riservate a particolari tipologie di opere o di comuni.

Certo questa scelta razionale avrebbe avuto, per il governo, due controindicazioni: a) se si fosse semplicemente scorsa la graduatoria del piano città non sarebbe stato possibile trasferire la gestione dei fondi dal ministero delle infrastrutture alla presidenza del consiglio dei ministri; b) sul versante della comunicazione politica fa più effetto l’annuncio di una nuova iniziativa che la comunicazione del rifinanziamento di una analoga già in essere.

A dire che l’efficacia dell’azione amministrativa e delle esigenze delle città sono state sacrificate ad esigenze politico-mediatiche, si fa, forse, peccato, ma è legittimo ritenere che l’ipotesi sia plausibile.

Un articolo di Carlo Olmo e un'intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo sul tema al centro della prossima Biennale architettura. Progettare per combattere il disagio abitativo e garantire il diritto alla città oppure per creare oggetti e celebrare se stessi? La Repubblica, 17 aprile 2017

ARCHITETTURA POVERA
di Carlo Olmo

Celebri progettisti come Renzo Piano si dedicano alle aree periferiche, in Italia e negli Stati Uniti La prossima Biennale apre all’inclusione sociale e alla riduzione delle disuguaglianze. Tornano in voga questioni già poste dal movimento moderno e accantonate da una ricerca esasperata di forme bizzarre e spettacolari. Ma è una vera svolta?

Stiamo forse assistendo a un ennesimo ribaltamento del rapporto tra architettura e città, tra architettura e società? Rientra al centro dell’attenzione un’architettura che si misura con le necessità primarie dell’individuo, con l’inclusione sociale e che accantona la ricerca estetica portata fino alla bizzarria? E il pendolo di una sia pur debole teoria sta forse tornando a orientarsi sui temi dell’abitare di una popolazione che però non conosce quasi più il ceto medio per cui l’architettura e la città del Novecento sono state pensate?

La sensazione di disagio che oggi si vive per esempio scendendo alla Station Front Populaire della linea 12 del metro parigino e avviandosi verso il nascente Campus Condorcet, destinato a ospitare alcune delle più importanti università del Paese, nasce proprio dal percepire un modo di abitare fatto di case, vie e piazze pensate per una popolazione che non c’è. Il Diritto alla città, titolo di uno dei testi più citati su questi argomenti dal 1971 quando Henri Lefebvre lo pubblicò, fondamentale ascensore sociale allora, come si pratica oggi in luoghi che sono situati tra un centro abitato da chi è in grado di pagare il valore simbolico che le centralità incorporano e quella che si è abituati a chiamare città diffusa?

Periferie che hanno perso, per fortuna, la funzione di dormitori di una città moderna e industriale che non esiste più almeno in Europa, ma che conservano luoghi urbani molto identificabili e morfologie oggi criticatissime come, per restare vicino al Campus Condorcet, La Courneuve. Un grand ensemble di 4000 alloggi che Jean-Luc Godard nel 1967 rappresenta in tutti i suoi contradditori aspetti in quel film straordinario che è Due o tre cose che so di lei. E nei confronti della quale, la scelta di raderla al suolo ha trovato nelle comunità che la abitano non solo una resistenza insuperabile, ma una vera forma di patrimonializzazione dal basso del tutto inattesa. Ma gli architetti davvero oggi tornano a essere sensibili a un diritto alla città riproposto in maniera tanto diversa nelle periferie europee o nei più grandi slum del mondo?

Forse il ripensamento che porta Renzo Piano a soggiornare a New York per seguire il completamento del Campus della Columbia University ad Harlem (che firma con uno dei più famosi studi americani, la Skidmore, Owings & Merrill), ha, tra le ragioni, anche quella che ha portato Elisabeth e Christian de Portzamparc – due archistar dalla storia davvero diversa – a partecipare (vincendolo) al concorso per la biblioteca proprio del Campus Condorcet. E questo mentre un testo culto dell’architettura contemporanea, Delirious New York, della più influente archistar di oggi, Rem Koolhaas, è usato come trama dall’Office of Human Theatre per ironizzare proprio sul mondo che Koolhaas più di tutti incarna.

Una crisi di valori profonda impone ad architetti e urbanisti una riflessione su alcune rotture che si sono prodotte nel mondo dell’architettura, rotture che la prossima Biennale di Alejandro Aravena e il Padiglione Italia sembrano segnalare. La prima, forse la più evidente rottura, è quella tra linguaggi e organizzazione spaziale. Non è forse inutile ricordare che l’esercizio più sofisticato che l’architettura del Novecento abbia conosciuto sono le autentiche variazioni Goldberg che quello straordinario migrante che fu Alexander Klein progettò dal 1927 al 1931, tra Berlino e Lipsia, lavorando sull’Existenz-minimum, vale a dire su come soddisfare i bisogni elementari di un essere umano. Esercitare intelligenza, fantasia, creatività sul modulo abitativo non solo più ridotto – il modulo Loucheur su cui anche Le Corbusier lavorò negli anni Venti in Francia è di 24 metri quadrati – ma che aveva l’ambizione di contenere l’abitare dell’uomo in tutte le sue funzioni essenziali, fu davvero una straordinaria scommessa. La rottura tra linguaggi e distribuzione a favore della ricerca estetica di talune archistar non ha solo messo in discussione lo stesso mestiere dell’architetto, a favore del designer e dell’ingegnere, ma ha favorito un’altra, fondamentale rottura: quella tra involucro e costruzione. Forse quella che stiamo vivendo è la stagione in cui la materia dell’architettura è più omologa, resa tale da società di ingegneria che hanno costruito un oligopolio della costruzione dal Bahrein a San Paolo e da imprese multinazionali che arrivano a costruire architetture in cui si entra, in qualsiasi parte del mondo, e si procede per riconoscimento: dall’ingresso sino alla camera, alla stanza di riunioni, alla sala d’attesa, il percorso, la distribuzione dello spazio è eguale ovunque. Architetture che sembrano richiamare un’estetica del vuoto, quasi lacaniana.

All’architetto e al suo rapporto con la materia resta l’involucro e il suo valore di simbolo estraniato dalla distribuzione spaziale. L’estetica del riconoscimento porta con sé, quasi automaticamente la ricerca di un rococò esasperato, di involucri che devono nascere, non diventare nel tempo e con la selezione delle architetture, landmark, senza però avere come i landmark nella cultura statunitense alcun rapporto con il territorio.

Essere ridotti a mascherare la realtà forse non sarebbe stato sufficiente, se il consumo del suolo, di una risorsa in sé limitata, non avesse quasi imposto la riformulazione del paradigma progettuale. Ritornare a pensare il progetto a partire da modificazioni di un patrimonio stratificato di segni e popolato di tracce, un patrimonio in cui però è sempre più il vuoto a segnare il paesaggio – l’alloggio, il capannone, l’ufficio abbandonati e sfitti stanno diventando la norma – rende quasi necessario calare la maschera. È la rivincita del piccolo sul seriale, della qualità sulla quantità, del metodo che Alexander Klein chiama il procedere per successivi incrementi a riportare in primo piano la necessità di architettura, assieme al mutamento radicale della stessa idea di città.

Nel 2010 esce L’aventure des mots de la ville: 240 voci e 160 autori si confrontano con il mutar di senso delle parole che accompagnano il rapporto tra architettura e città. L’architettura deve oggi misurarsi con mutamenti che interessano le parole che la raccontano e farlo dall’interno di mura non più disegnate da ingegneri militari, ma da un’economia morale della terra. Vincerà La grande trasformazione di Karl Polanyi e con lei un’architettura necessaria perché solo l’intelligenza progettuale può rispondere a questo nuovo paradigma insieme economico, sociale e culturale? Se si guarda ai tanti ribaltamenti anche solo di cosa siano centro e periferia a Neza-Chalco- Itza, lo slum situato alla periferia Nord del Distretto Federale di Città del Messico con 4 milioni di abitanti, o se si riconoscono i mutamenti intervenuti nella più grande favela di Rio de Janeiro, Rocinha, anche attraverso un’architettura che accompagna l’inclusione sociale, necessità e speranza sembrano poter almeno convivere.

È ENTRATO IN CRISI L’ASSURDO SISTEMA
DELLE OPEREECLATANTI”
intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo
«Sono vent’anni che lavoriamo in zone marginali, nelle periferie africane e asiatiche. E in effetti da un po’ di tempo i nostri progetti riscuotono attenzione, veniamo invitati a raccontarli. Poi è arrivato il segnale più forte: la curatela del Padiglione Italia alla prossima Biennale architettura, essa stessa dedicata da Alejandro Aravena al Reporting from the Front ». Raul Pantaleo, milanese, cinquantaquattro anni, è titolare insieme a Massimo Lepore e Simone Sfriso, dello studio TAMassociati. E Taking care. Progettare per il bene comune, s’intitola la loro rassegna, che dovrebbe documentare gli sforzi di un’architettura orientata in senso più etico e politico del passato.
Pantaleo e i suoi colleghi sono impegnati con Banca Etica, progettano ospedali per Emergency, operano in Sudan, in Uganda, nel Senegal, in Iraq, in Afghanistan. E anche in Italia, dove non ci sono guerre, ma dove infuria la camorra, per esempio nel quartiere napoletano di Ponticelli, o dove si accolgono i migranti, come a Polistena, vicino a Reggio Calabria.

La Biennale è dunque il riconoscimento di una trasformazione della scena architettonica: meno archistar, più società. È così?
«Indubbiamente. Se questa è una svolta reale lo vedremo in seguito. L’architettura nelle aree di acuto disagio e di conflitti non è una novità. Né, ovviamente, sono una novità quelle crisi. La novità è che quelle crisi sono giunte alle nostre porte e siamo indotti a concepire la storia non come un percorso lineare verso il progresso. L’effetto, per quanto ci riguarda, è il risalto di cui gode questa architettura. Ben venga che se ne parli. Ma occorre tenere alta la guardia ».

Teme un eccesso retorico?
«Spesso ci si nasconde dietro le parole. Prenda la “sostenibilità”. Fino a qualche anno fa, ora forse meno, tutti i progetti sfoggiavano quel termine. Ma quanti in concreto la realizzavano?».

In ogni caso, l’architettura potrebbe non essere più sinonimo di una grande personalità, di una singola espressione artistica.
«È entrato in crisi il sistema delle opere eclatanti, quelle che non si pongono in rapporto con il contesto, che scansano le compatibilità economiche o ambientali. Una novità è anche che il Padiglione Italia della Biennale sia stato affidato a una curatela collettiva».

Molto dipende da chi commissiona un lavoro. Voi lavorate con il pubblico e con il privato. C’è differenza?
«Ricordo sempre che Manfredo Tafuri, con il quale ho studiato a Venezia, diceva che l’architetto è come l’avvocato, è sempre di qualcuno. Dal punto di vista di un progettista, dovrebbe cambiare poco se il cliente è un privato, un’amministrazione comunale o una ong. Io credo in un’architettura politicamente orientata. Anche se realizzassi un ristorante, resto un architetto che agisce nella collettività».

Tanta attenzione viene dedicata alle periferie. Anche in questo caso ha paura che dietro le parole ci sia poco?
«No. Mi auguro proprio che gli sforzi siano seri. Concordo con quel che dice il ministro Dario Franceschini: finora abbiamo lavorato sui centri storici, per preservarli, ora dobbiamo concentrarci sulle periferie. L’importante è che non ci si riduca a considerarle solo nell’aspetto fisico, trascurando quello mentale o istituzioni fondamentali come la scuola. Fare una piazza aiuta, ma se non la si riconosce e non la si cura come spazio pubblico, non basta. E poi, occorre intendersi: cos’è periferia? Ci sono le grandi periferie metropolitane, diverse fra loro, e c’è, per esempio l’immensa periferia, un po’ città, un po’ campagna, che va da Trieste a Torino».

E poi c’è la periferia del mondo.
«Sotto i nostri occhi abbiamo visto Karthoum, la capitale del Sudan, crescere di otto, dieci volte».

Lei lavora con Renzo Piano e il suo G124.
«Quest’anno ho il compito di tutor per un gruppo impegnato a Marghera. Talvolta penso che ci vorranno 500 anni per riparare un secolo di danni ambientali ».

Un’ultima novità: nella vostra idea di architettura c’è anche un diverso modo di comunicare.
«Il graphic novel. Per Becco-Giallo sono usciti tre volumi, uno sulla speculazione edilizia, un altro sulle architetture resistenti, un altro ancora sui luoghi di Emergency. E anche il catalogo della Biennale sarà a fumetti ».

«Gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobiliari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Milano. Architetto Stefano Boeri, cosa si può fare per curare i vuoti urbani creati dalle case sfitte?
«Prima di tutto bisogna prendere atto di un fenomeno evidente soprattutto in Italia, Spagna, Grecia e nell’Europa del Sud: gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobiliari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento, a volte scelgono di tenerli liberi. La soluzione è la costruzione di Agenzie della casa sostenute dalla pubblica amministrazione».

Cosa dovrebbero fare?
«Svolgere un ruolo di mediazione, dando garanzie ai proprietari e facendoli incontrare con una domanda di affitto che è fortissima e proviene soprattutto dalle giovani coppie e da chi ha redditi considerati troppo alti per entrare nelle graduatorie degli alloggi popolari, ma troppo bassi per il mercato».
È un modello che già esiste?
«In Danimarca esistono esempi molto buoni e anche in Francia e Spagna si sta tentando questa strada».

Ci sono altri modi di riuso?

«Il problema non riguarda solo le case, anzi. Ci sono negozi vuoti e soprattutto edifici di uffici non utilizzati che potrebbero essere trasformati in spazi misti: residenze e insieme luoghi di studio, lavoro, laboratori per giovani artigiani. Penso a loft che possano richiamare il modello storico di New York, ma anche ad alcune parti di Shanghai che stanno cambiando in questa direzione».

«Piano Lupi. La Camera vota la fiducia sul «Piano Lupi», oggi il voto finale. L’articolo 5 del decreto taglierà luce, acqua e gas alle occupazioni abitative nel paese». Il manifesto, 3 dicembre 2015

Ieri la Camera dei Deputati ha votato un atto vendicativo contro centinaia di occupazioni abitative in tutto il paese. Trecentoventiquattro deputati del Pd, Ncd e Scelta Civica contro i 110 di M5s, Lega Nord, Sel e Forza Italia hanno concesso la decima fiducia al «Piano Lupi» del governo Renzi sull’emergenza abitativa che all’articolo 5 prevede di tagliare luce, acqua e gas a chi occupa un immobile.

Il provvedimento che incasserà il voto finale oggi a Montecitorio (alle 12,30 le dichiarazioni di voto) lancia una guerra contro almeno 10 mila poveri urbani, italiani e immigrati che solo a Roma vivono in alberghi, scuole, uffici abbandonati, residence o sedi di aziende pubbliche abbandonate. A queste persone verrà anche vietata la residenza e verrà inflitta una disposizione con la quale si stabilisce la nullità degli effetti degli atti emessi in violazione della nuova normativa. «Una decisione presa da un governo incivile in un paese incivile», così l’ha definito il portavoce del Coordinamento cittadino di lotta per la casa.

I movimenti per il diritto all’abitare si sono nuovamente radunati ieri in un presidio a Piazza Montecitorio. Verso le cinque e mezzo la piazza ha cominciato a scaldarsi. Dopo la prima chiama in aula, la piazza circondata da un ingente schieramento di agenti di polizia e carabinieri, è in fibrillazione: «Renzi vattene», «Vergogna, vergogna», «Le case ci stanno perché non ce le danno?». Alla notizia della fiducia, poco prima delle otto, sale la disillusione, poi scoppia la rabbia: «Ma come? — urla disperata una donna — Noi sempre qua a manifestare, a chiedere incontri e risposte, e poi invece di una casa ci danno l’articolo 5? Niente residenze e gas, luce e acqua? E dove andiamo a vivere, come viviamo? I nostri figli senza residenza dove li mandiamo a scuola?». Una pioggia di uova parte diretta verso la facciata del Palazzo. La polizia, nervosa, impugna scudi e manganelli.

Ma il presidio si trasforma, fulmineo, in un corteo. In centinaia si dirigono verso piazza Venezia. Bloccano il traffico. A passo veloce arrivano al Colosseo dove c’è un blitz. Mentre sui Fori Imperiali inizia un’assemblea sul piano Lupi, qualcuno si arrampica sulle impalcature del Colosseo, esponendo lo striscione giallo che ha aperto tutti i cortei degli ultimi giorni: «Liberiamo Roma dai divieti, dalla rendità e dalla precarietà». Paolo Di Vetta dei Blocchi precari metropolitani) annuncia la resistenza al decreto: «Faremo rimangiare ad Alfano il piano sicurezza. Occuperemo l’Anagrafe, l’Acea, i Municipi, non faremo un passo indietro. Dovranno passare sui nostri corpi quando toglieranno acqua, luce, gas a tante famiglie di Roma. Hanno appena votato un testo che uccide il diritto alla casa nel nostro paese, così come il governo Renzi ha già fatto con il Decreto Poletti sul lavoro».

Il piano Casa contiene il via libera alla cedolare secca al 10% per gli affitti nei comuni colpiti da calamità naturali, interventi di edilizia sociale ad hoc per gli over 65, una clausola di riscatto nel contratto di affitto per gli alloggi sociali. Vengono prorogati i benefici per gli inquilini con un contratto di affitto in nero e vengono stanziati 325 milioni di euro in più per il Fondo per gli inquilini morosi incolpevoli.

Come d’abitudine, anche in questo provvedimento sono confluite norme tra le più diverse. C’è un bonus per mobili ed elettrodomestici che estenderà lo sgravio entro un tetto di 10 mila euro. Ci sono inoltre 25 milioni per il comune di Milano per l’Expo 2015 presi con un taglio ai fondi per la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione. Una decisione che provocherà polemiche. La guerra ai poveri del governo Renzi è tuttavia uno degli aspetti dei problemi che la casa sta producendo.

Sul fronte della Tasi

L’altro fronte è quello della Tasi. Dopo il caos, ora è il turno della beffa. In uno studio della Uil, infatti,si apprende che in 12 su 32 capoluoghi la Tasi presenterà un conto salato. A Roma, e poi a Genova, Milano, Torino verrà superata quota 400 e sarà più cara dell’Imu. Un aggravio che con l’aumento della Tari e delle addizionali comunali rischia di neutralizzare il bonus Irpef da 80 euro. Per i pensionati, i disoccupati e i precari la situazione peggiorerà ancora, aumentando il carico fiscale.

Nei Comuni che non avranno deliberato entro il 23 maggio le aliquote, la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi è stata prorogata da giugno a settembre dal governo. Per tutti gli altri Comuni — si è letto in una nota diffusa nella serata dal Ministero dell’Economia — la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi resta il 16 giugno.

Una soluzione che il sindaco di Torino, e presidente dell’Anci, Piero Fassino ha trovato soddisfacente: «Garantisce certezza sia per i Comuni sia per i contribuenti».

Non crediamo che in altri stati europei si rifinanzi un programma senza una preliminare analisi dei risultati ottenuti. Certo che si tratterebbe di una fatica inutile se, come ritiene giustamente l'autore, l'obiettivo è solo propagandistico. Comunque, occhi aperti. La rivista Il Mulino, 10 novembre 2015

Nella riunione dello scorso 1º ottobre della Conferenza unificata, lo Stato, le regioni e gli enti locali hanno dato il via libera al bando per la realizzazione di un “Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate”. Il piano è previsto dalla legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) con l’assegnazione di una dote finanziaria di 194 milioni di euro, 44 per il 2015 e 75 per ognuno dei due anni successivi. Con queste risorse, relativamente esigue per gli obiettivi che ci si propone di raggiungere, saranno cofinanziati i progetti promossi dai comuni sui cui territori vi sono aree urbane degradate. Per concorrere ai finanziamenti le amministrazioni comunali devono presentare progetti per la riduzione del degrado sociale, il miglioramento della qualità urbana, la riqualificazione ambientale, la realizzazione di servizi e interventi di riqualificazione cittadina, il miglioramento della qualità del decoro civico e del tessuto sociale e ambientale.

Lo scopo è meritevole. Per perseguirlo non è però necessario un nuovo bando, con nuove cabine di regia, altre graduatorie e anni di attesa prima che si possa vedere un qualche risultato (ammesso che se ne veda qualcuno di rilevante). Sarebbe sufficiente utilizzare i nuovi stanziamenti per rimpolpare la dote finanziaria di analoghe politiche già attive.

Tre anni fa, con il decreto legge 83/2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), fu promosso un “Piano nazionale per le città, per la riqualificazione di aree urbane con particolare riferimento a quelle degradate” avente le stesse finalità di questo nuovo piano per la riqualificazione. Per concorrere ai finanziamenti di quel piano, i comuni elaborarono progetti finalizzati “alla riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e degrado sociale, al miglioramento della dotazione infrastrutturale anche con riferimento all'efficientamento dei sistemi del trasporto urbano e al miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale e ambientale”. Come si vede la sostanza dei progetti è la stessa nei due piani.

I comuni presentarono ben 457 proposte. Ne furono finanziate solo 28, per carenza di fondi. I restanti progetti sono ancora in attesa di essere finanziati, ed è molto probabile che per molti di essi i comuni tenteranno di ottenere i fondi del piano per le riqualificazioni. Furono scelti i progetti velocemente cantierabili, capaci di generare il maggior volume di investimenti. Alla fine di gennaio del 2015 (ultima data di disponibilità dei dati), cioè due anni dopo l’ammissione al finanziamento degli interventi, i contributi statali erogati ammontavano a 7,5 milioni di euro, cioè a meno del 2,5% dei 320 circa disponibili. Non si può dire che la realizzazione dei progetti proceda alacremente.

D’altra parte, ci si stupirebbe, probabilmente, del contrario. Per 8 progetti il contributo statale copre meno del 5% dei 3 miliardi di euro del loro investimento complessivo: se i comuni fossero stati in grado di coprire, con fondi propri o di altri, il restante 95% non avrebbe certo atteso il piano per le città per realizzarli. Per l’insieme dei 28 progetti finanziati il contributo statale copre circa il 7% dell’investimento complessivo previsto in ben 4,4 miliardi di euro: una sproporzione che non predispone certo all’ottimismo sui tempi di completamento degli interventi.

Considerato la lunga lista di progetti in attesa di finanziamento e lo stato di attuazione non certo avanzato di quelli finanziati con il piano per le città, un suo piano fotocopia è quantomeno ridondante. Ma questa duplicazione è figlia di una prassi di governo sempre più pervasiva in cui l'efficacia e la produttività della spesa pubblica diventano un'appendice della ricerca del consenso di opinione ed elettorale che si spera di raccogliere.

Nel caso in questione, non c’è possibilità di raffronto tra lo scarso ritorno politico che si otterrebbe rifinanziando, con qualche decina di milioni di euro per tre anni, una politica già attiva e quello molto più d’effetto assicurato dall’annuncio di un nuovo piano di investimenti, soprattutto se i progetti saranno selezionati con l’intenzione di far lievitare il modesto finanziamento statale di qualche miliardo di euro di investimenti (che dovranno essere finanziati da altri enti pubblici o da privati). Più è grande il volume complessivo degli investimenti annunciati, maggiore sarà il successo immediato del piano.

Poco importa se poi, anche in questo caso, i progetti potrebbero restare in gran parte sulla carta. Prima però che qualcuno se ne accorga passerà del tempo (ammesso che qualcuno abbia voglia di controllare lo stato di attuazione del piano). Nel frattempo, potrebbe anche cambiare il governo.

«Non solo bancarelle, ma anche rivendite di giornali. Quasi tutte si sono trasformate in botteghe di souvenir. E quotidiani e periodici, per cui il suolo pubblico era stato concesso, spesso non sono nemmeno esposti. Infine, i tavolini. Plateatici ovunque». La Nuova Venezia, 16 luglio 2015 (m.p.r.)

C’era unavolta il suolo pubblico. Pubblico, cioè di tutti. Bene comune godibile e “calpestabile”. Adesso il suolo pubblicoè ridotto ai minimi termini. Nella gran parte occupato da bancarelle, sedie tavolini, edicole diventate emporidi souvenir. Tutti uguali e a basso prezzo. Cappelli, borse, occhiali, grembiuli con gli organi maschili. Oggettiideali per il turismo giornaliero mordi e fuggi. Un po’ meno per il “decoro” della città d’arte. Situazione chenegli tempi sta sfuggendo di mano. Non ci sono soltanto gli abusivi, i venditori di palline e di borse senzalicenza. Ma centinaia di strutture “regolari” che col tempo si sono ingrandite, diventando veri e propri emporiin strada. Molti gestiti in subappalto da cingalesi e indiani. Altri, come nell’area marciana, rimasti nelle manidi veneziani. Difficile, soprattutto in estate e in certe ore del giorno, riuscire a passare.

Lista di Spagna e RioTerà San Leonardo, Anconeta e Santa Fosca, Strada Nuova. I banchi crescono, e alle tende è appeso ogni tipodi mercanzia. Sembra di stare in un mercato arabo. Con la differenza che la qualità degli oggetti non sempre èdi buon livello, la produzione quasi mai autoctona. Rari i controlli. E così gli originali “banchi ambulanti” diun metro per uno sono triplicati, con accessori esterni. Un tempo i banchi non potevano neanche essere “fissi”ma dovevano appunto “ambulare”. C’era anche la commissione per l’ornato, che stabiliva regole sugli arredi ele merci da esporre. Adesso il “suk” è generalizzato. Chi controlla? L’assessorato al Commercio non disponenemmeno di un archivio informatico aggiornato per potere visionare in tempo reale la situazione. Bisognamisurare in loco, e gli organici dei vigili non lo consentono.

Non solo bancarelle, ma anche rivendite digiornali. Quasi tutte si sono trasformate in botteghe di souvenir. E quotidiani e periodici, per cui il suolopubblico era stato concesso, spesso non sono nemmeno esposti. Infine, i tavolini. Plateatici ovunque. Ognibar o ristorante ne ha uno. Anche in aree dove il passaggio è intenso. Inutili le proteste della Municipalità cheda anni chiede di visionare le richieste prima dell’approvazione da parte degli uffici comunali. Sedie e tavolini,insieme a cartelli e menu ricoprono ormai la gran parte dei masegni in ogni luogo. Intere aree sono statetrasformate, spariti i negozi di vicinato e gli artigiani. I fondi sono stati acquistati da commercianti cinesi. Levetrine tolte, la merce uniformata. Borse, oggetti a 0,50 ­ spesso in saldi con il 50% di sconto, ­gelati, pizze.L’incontrollato afflusso dei turisti, in particolare di quelli giornalieri ha prodotto una trasformazioneprofonda, che sta diventando irreversibile. La consapevolezza che così si guadagna facilmente e non si devonorispettare regole è sempre più diffusa. Alla nuova amministrazione il compito di dimostrare con i fatti cheVenezia non è considerata come una Disneyland dorata con pochi indigeni, ­sopravvissuti al turismo, ­daeliminare.

Un solido contributo di conoscenza e di proposta al drammatico problema del turismo a Venezia: problema ben più drammatico e distruttivo dell'acqua alta. .VeneziaCambia, 8 maggio 2015

A Venezia il turismo è un problema assai più che altrove. I risultati delle ricerca CENSIS-Mercury- CISET di Ca’ Foscari, commissionata dall’Osservatorio Nazionale del turismo (presidenza del Consiglio) che risale al 2009 comparano 11 città molto differenti, ma tutte a forte presenza turistica (Barcellona, Londra, Parigi, Istanbul, Vienna, Praga, Firenze, Roma, Venezia, Bruges, Siviglia) dicono che:

Tutti i protocolli e le proposte di coordinamento tra città d’arte hanno avuto grandi difficoltà e non hanno approdato ad alcun risultato. Proposte come

sono oggi improponibili o molto timidamente applicate (vedi Dlgs 23 2011 art.4 sul federalismo fiscale che permette ai comuni capoluogo e alle città d’arte di istituire una tassa di scopo sul turismo solo sui pernottanti, ovvero quelli che già pagano un contributo alle casse pubbliche attraverso l’IVA)

Qualche coordinamento a livello nazionale è stato messo in atto per gestire il flusso dei pullman turistici con l’istituzione di ZTL, tariffe di entrata differenziate per luogo di accesso, stagionalità e prestazioni ambientali dei veicoli. Venezia ha una delle ZTL più costose d’Europa e più rigide, da momento che non prevede alcun incentivo alla permanenza per più giorni, ad esempio attraverso la riduzione della tariffa giornaliera in base ai giorni di permanenza. Misura che sarebbe senz’altro utile.

I proventi derivanti dalla tassa d’ingresso non hanno una destinazione specifica connessa alla copertura dei costi del turismo, ma vanno nel calderone del bilancio. Sarebbe necessario invece mirar bene. Ai proventi da tariffa della ZTL si aggiunge la tassa di scopo (imposta di soggiorno) pagata da quelli che pernottano in strutture alberghiere nel territorio comunale, istituita nel 2011 come previsto dal Dlgs 23 2011 sul federalismo fiscale. A Venezia il Regolamento per la sua applicazione è stato più volte modificato: l’ultima volta con la delibera del Commissario Zappalorto del 1 agosto 2014. La modifica stabilisce che non è compito degli albergatori assicurare la riscossione della tassa né pagare al posto degli eventuali turisti renitenti. L’unico obbligo è di informare il Comune che provvederà al recupero delle somme dovute. E’ evidente che tradurre in entrata per le casse comunali l’imposta di soggiorno sarà tutt’altro che facile. La tassa di soggiorno è fissata al massimo previsto dalla legge (5 euro a notte per persona).

Per quanto riguarda in particolare il problema del trasporto.

Secondo il Piano Urbano della Mobilità (PUM 2008 aggiornato al 2013) a Venezia arrivano le quantità di persone rappresentate nella seguente tabella. Occorre notare che si tratta di tutti gli arrivi, lavoratori pendolari e turisti compresi. Occorre notare anche che si tratta di dati vecchissimi. Un problema centrale incredibilmente sottovalutato è dunque sapere quanti sono e chi sono. C’è da sospettare che non si voglia sapere.

In sostanza non si sa quanti sono turisti, quanto escursionisti, quanto visitatori di Venezia per lavoro e studio, quanto abitanti di Venezia e delle sue immediate vicinanze.

I mezzi con i quali si arriva a Venezia sono per lo più fuori dalla competenza comunale ad eccezione del trasporto pubblico locale. Ferrovia, aeroporto, crocierismo, automobili private, pullman turistici. Tutti questi approdano alle diverse porte di Venezia: piazzale Roma (auto private e servizi di trasporto pubblico, in prospettiva tram), Tronchetto (bus turistici e automobili, raccordato a piaz.Roma da people mover e direttamente servito dai vaporetti di linea e da motonavi per il Lido), Tessera e Fusina (terminal serviti da Alilaguna via acqua e bus per piaz. Roma via terra), la Marittima per le grandi navi da crociera (servite da grandi capacità di parcheggio connesse al terminal crociere e da servizi di bus per piazzale Roma). Tutto senza alcun coordinamento nè di tariffe (emblematico il caso della mancata integrazione tariffaria tra servizi bus-tram ACTV e servizi ferroviari -SFMR -sulle stesse tratte) nè di orari e tantomeno di quantità di arrivi.

Sicuramente nel tempo vi è stata una riduzione degli arrivi in automobile (parcheggi assai costosi) e un trasferimento di utenza dai pullmann turistici, che presuppongono l’intermediazione di un operatore turistico, alla ferrovia che risponde con più immediatezza alla auto-organizzazione del viaggio resa possibile dalla diffusione e dall’uso massiccio di tablet e mobile phone.

La situazione attuale soffre di una crescente inconoscibilità dei numeri e impossibilità di controllo degli accessi. Un possibile sviluppo potrebbe essere l’istituzione, in occasione della città metropolitana, di una Authority dei trasporti, sul modello di quelle tedesche, entra la quale stabilire regole di accesso con tutti gli operatori per controllare e gestire il n max di arrivi.

Operazione 1: fissare il limite di presenze turistiche ammissibile, con priorità ai pernottanti e ai visitatori non occasionali. Operazione da fare (anche rapidamente) ma attraverso un percorso realmente partecipato, con gli operatori, gli albergatori, i servizi e le associazioni dei cittadini. Valutando gli effetti economici e sociali. Con una particolare attenzione alla possibile formazione di nuovi posti di lavoro connessi ad una organizzazione del turismo più complessa e più ricca di offerte differenziate.

Operazione 2 Controllo dell’accesso per strada
Tiket costoso per il passaggio sul ponte della liberta. Cartelli informativi sulla rete autostradale con tariffe differenziate (e crescenti) a seconda del grado di occupazione dei parcheggi. L’informazione tiene conto delle prenotazioni che, in quanto tali hanno entrata assicurata e tariffe definite. Se park full il non prenotato non entra.

Operazione 3 Incanalamento dei flussi per la distribuzione urbana
Da Piazzale Roma incanalamento dei flussi turistici pedonali per l’accessibilità acquea dai margini esterni (terminal di S. Giobbe con nuovo ponte delle vacche per margine nord: fondamente nuove, isole e lido; terminal sud S.Basilio per Giudecca e S.Marco e poi S. Elena e Lido). Fortissimo alleggerimento del Canal Grande anche da taxi e trasporto merci (contingentamento di orari e di mezzi) libere gondole e trasporto pubblico lento. Tariffe elevate per turisti. Turisti e cittadini insieme (la specializzazione dei mezzi, sperimentata, non ha dato buoni risultati).

Operazione 4 ZTL e pullman
Pullman turistici solo ai terminal (Tessera, Fusina e Tronchetto). Anche qui con cartelli a messaggio variabile d’avviso con tariffe crescenti in base alla saturazione dei posti. Tariffe differenziate decrescenti in base al n. di giorni di permanenza alla stagionalità e alle prestazioni ambientali dei veicoli. I prenotati entrano sicuramente, gli altri no. Dai terminal servizi acquei con distribuzione ai margini esterni dei turisti come al punto precedente.

Operazione 5 Ferrovia
Informazione a bordo dei treni sui tiket d’ingresso alla città, variabili in relazione al raggiungimento del n. max di presenze. I prenotati entrano sicuramente con tariffe fisse da accessi riservati. Gli altri fanno coda per entrare pagando (o in alternativa pagano sul treno a controllori comunali) . Comporta residenti e lavoratori muniti di pass. (servizio on line) e accessi riservati.

Operazione 6 Crocierismo
Distribuzione degli arrivi delle navi in tutti i giorni della settimana e limitazione delle punte in relazione all’insieme delle altre presenze prenotate. Se il numero di presenze ammesse è raggiunto i passeggeri non prenotati restano a bordo. Anche i crocieristi pagano l’entrata (se vengono dall’esterno) o la visita a Venezia (se sono già a bordo).

La Card di prenotazione e vendita dell’accesso (Venice Card ?), attraverso il centro prenotazioni gestito direttamente dal comune, diviene il principale strumento di controllo del n max. di presenze, di incentivazione alla visita di luoghi, monumenti attrattive meno conosciute, strumento di promozione dell’arricchimento non solo monumentale dell’offerta turistica di Venezia (la laguna, le isole minori, il cibo, le produzioni tipiche, ecc.)

Questa prospettiva appare più realistica, dal punto di vista dei comportamenti indotti, di quella di contingentare la solo piazza S. Marco: operazione certo più semplice da punto di vista dell’organizzazione fisica degli ingressi, ma enormemente più debole dal punto di vista dei controlli, dello sviluppo di economie parallele di elusione delle regole e della effettiva risposta dei turisti.

«Una Biennale sempre più grande, in una città sempre più spettatrice». Sempre più sfacciata la cessione ad altri di pezzi del plurisecolare patrimonio cittadino. La Nuova Venezia, 18 aprile 2015 (m.p.r.)

I luoghi di Venezia a chi li vuole e sa prenderseli. Nell’assenza - da tempo - di una politica comunale sui suoi spazi inutilizzati che non sia la loro semplice messa in vendita (in genere a prezzi di saldo) per tappare le «falle» del bilancio, e nel vuoto di rappresentanza rappresentato dalla gestione commissariale, stanno inserendosi nell’ultimo anno una serie di operazioni patrimoniali e immobiliari che riguardano pezzi di città. Ci sono quelle puramente speculative della stessa Cassa Depositi e Prestiti - come riferiamo a parte - che pure è una società pubblica, o dei privati, dal Fontego dei Tedeschi con la gestione Benetton al complesso dell’ex Pilsen ceduto dal Comune per consentire la realizzazione, in corso, di uno «store» della Zara. E ci sono quelle più «illuminate» e intelligenti che sta conducendo la Biennale sotto la presidenza di Paolo Baratta, che si avvia alla sua conclusione. Baratta ha già avuto il grande merito di avviare storicamente - nel corso della sua prima presidenza della Biennale - il recupero dell’Arsenale, quando esso era in stato di avanzato degrado, con il recupero di pezzi importanti della parte sud, ottenuti in concessione e recuperati a fini espositivi per le mostre della fondazione, grazie anche ai fondi della Legge Speciale, da oltre quindici anni.
Ora quegli stessi spazi - il complesso delle Corderie, quello delle Artiglierie, il Teatro Piccolo Arsenale, le Tese cinquecentesche, le Tese delle Vergini, delle Gaggiandre e le Tese dell'Isolotto Sud - sono di fatto diventati della Biennale, grazie alla concessione trentennale (ma prolungabile) siglata con il Comune e il Demanio, dopo che è stata la stessa legge del 2012 che ha riconsegnato al Comune l’Arsenale, a prevederlo. Ma Baratta che, a differenza del Comune, ha le idee molto chiare su come utilizzare queste aree, non si accontenta. E così nella convenzione, appena approvata dal commissario Vittorio Zappalorto in Consiglio comunale, che assegna alla Biennale gli spazi che occupa dell’Arsenale Sud, c’è anche il complesso delle Sale d’Armi, che non era tra quelli previsti con la legge del 2012, ma che la precedente amministrazione comunale aveva ceduto in concessione alla fondazione.
Ora allargati anche alla parte sud del complesso, sempre per destinarli a nuove sedi di padiglioni stranieri che ne sono privi e che li restaureranno a proprie spese, come hanno già fatto, ad esempio, il Sudafrica e l’Argentina. Spazi ceduti in concessione permanente - si spiega a Ca’ Farsetti - perché la legge del 2012 sull’Arsenale consente comunque di cedere spazi di proprietà comunali per attività culturali, come quelle - di indiscutibile livello - che la Biennale svolge. E ci sarà presto - con un’apposita convenzione - anche il Giardino delle Vergini, mantenendone la fruizione pubblica. Potrebbe accadere lo stesso, presto, anche per il Giardino della Marinaressa, in Riva dei Sette Martiri, recentemente passato - con il federalismo demaniale - in proprietà al Comune, dopo essere stato dell’Autorità Portuale. Qui sono in corso lavori di ristrutturazione - contro cui si scaglia l’ex consigliere comunale di Fratelli d’Italia Sebastiano Costalonga - in vista dell’ospitalità per sei mesi di una mostra collaterale della Biennale di una scultrice americana. Ma anche questo potrebbe diventare in un prossimo futuro, uno degli spazi permanenti di una Biennale sempre più grande, in una città sempre più spettatrice.
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