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Spieghiamo che ci ha spinta a dare risalto al manifesto di giubilo con cui il comune di Napoli ha sottolineato i risultati della vendita del patrimonio abitativo pubblico. Non tanto il fatto che un comune “di sinistra” abbia deciso di alienare il patrimonio abitativo pubblico: l’ideologia della mercificazione d’ogni bene suscettibile di trasformarsi in moneta è diventata dominante in tutte istituzioni. Neppure perché, essendosi messo su quella strada, il comune si vanti dei risultarti raggiunti. Ciò che ci sconcerta è la palese contraddizione tra ciò che tra quel vistoso manifesto rappresenta ed esprime e il principio, più volte proclamato da esponenti di punta di quell’amministrazione, di voler assumere il concetto di “beni comuni” come asse della politica urbana: è del 18 aprile scorso l’approvazione del “Regolamento per il laboratorio Napoli per una costituente dei beni comuni”.

Conosciamo i motivi che hanno spinto la giunta De Magistris nella trappola fatale. Troverete la storia dei rapporti con l’immobiliarista Romeo in un articolo e due interviste che abbiamo ripreso dal manifesto e raccolto sotto il titolo Quel patto col diavolo che fa discutere Napoli. E’ noto a tutti che l’incarico alla società Romeo non è ascrivibile all’amministrazione De Magistris. Ma le sue conseguenze sono così devastanti che ci sembra incredibile che l’unica giustificazione del clamoroso cedimento sia quella di dichiararsi costretti al rispetto della continuità dell’azione amministrativa. Allora hanno ragione Monti e i suoi numerosi adepti, se anche quanti, “in linea di principio” lo contestano, ne condividono in pratica e ne applicano la logica? “Pacta sunt servanda a ogni costo? Con chiunque e da chiunque siano stati stipulati? Il “mercato”, ogni sua frazione quale che sia la sua limpidezza, deve sempre vincere?

Quando si agitano le bandiere di principi nuovi (come quello dei beni comuni) non si può contraddire così platealmente il messaggio di cui si vuole essere portatori. Non è certamente semplice trovare un rapporto giusto tra la radicalità della trasformazione che si invoca e la pesantezza della situazione reale (ne registriamo infiniti esempi in tutti gli episodi di conflitto che nascono dalla crisi del capitalismo. Forse per comprenderlo sarebbe utile studiare meglio, e riflettere con più attenzione, sul modo in cui come altri gruppi dirigenti, si comportarono per proporre la trasformazione dellla città e la società in una logica lontana sia dall’estremismo delle parole sia al cedimento all’ideologia corrente e alle conbseguenti pratiche.

E poiché parliamo di condizione urbana, ricordiamo della fatica e dell’impegno culturale, politico, sociale che fu necessario per tradurre la rivendicazione del “diritto alla “città” e della “casa coime servizio sociale” in un processo di riforma (di riforma strutturali) che fu arrestato solo da ll’azione congiunta delle bombe della destra neofascista, la complicità dei poteri annidati nello stato – e il tradimento di componenti di rilievo della cultura, in un clima mondiale non più condizionato dal compromesso tra capitalismo fordista e classe operaia ma dal nascente neoliberalismo. Sul perché quel processo si sia interrotto, e sulle ragioni che lo resero possibile, sui suoi lasciti, sarebbe utile ragionare oggi, se ad analoghe aspirazioni ci si propone di dare risposte positive, finslizzate al superamento radicale delle condizioni date e non al loro condimento con espressioni alla moda

Il riformismo urbano ha esaurito la spinta propulsiva. Certo, non mancano le iniziative brillanti di tanti amministratori ma non si vede ancora una capacità inventiva di policies almeno paragonabile a quella che si espresse nella rottura di Tangentopoli: rapporto diretto elettori-sindaco, l'apertura internazionale, le politiche della mobilità, le iniziative culturali, l'avvento dell'architettura contemporanea, l'introduzione del mercato nei servizi, le riforme del New Public Managment, ecc. Questi sono ancora oggi i capitoli fondamentali delle agende di governo delle amministrazioni locali - con l'unica aggiunta delle politiche della sicurezza - ma vengono attuate con fatica crescente a causa dei patti di stabilità e della bulimica produzione normativa statale.

Oggi ci troviamo ad un punto di rottura del sistema politico non meno significativo di quello del '93 e dovrebbero esserci le condizioni per un ripensamento delle politiche urbane. Soprattutto il PD dovrebbe essere protagonista di questa innovazione non solo in quanto forza centrale dell'alternativa, ma perché altrimenti la sua funzione di governo ne risulterebbe appannata. I segnali si sono visti nello smacco dei suoi candidati sindaci in città importanti come Milano, Napoli, Genova e Cagliari. Se ne è data una lettura superficiale, mettendo in rilievo le vicende del ceto politico e le regole delle primarie. Ma si è fatta sentire anche la crisi della cultura riformista.

Innovare significa anche dimenticare. Per scoprire nuove piste di ricerca bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta. Essa è stata una grande politica riformatrice e proprio per questo tende a conservare un primato teorico e pratico anche quando viene smentita dai fatti. Di tale difficoltà indico tre esempi.

Con la scusa del debito – Ai tagli dei bilanci si è risposto gonfiando i diritti edificatori per ottenere in cambio qualche opera pubblica. Si è inventata una zecca immobiliare che stampa una sorta di carta moneta attraverso la creazione di rendita urbana. I suoi plusvalori vengono scambiati tra imprese e banche anche a prescindere dalla effettiva realizzazione, come appunto una moneta circolante. Non solo, la ristrutturazione di grandi gruppi finanziari e la stessa solvibilità di molte banche dipendono dalla possibilità di esigere in futuro l’attuazione di quelle potenzialità edificatorie. Questa economia di carta e di mattone trova spesso giustificazione e impulso proprio nella scarsità di risorse delle amministrazioni comunali.

Ma perché le città si sono impoverite? Eppure negli ultimi venti anni c’è stato un boom edilizio paragonabile a quello del dopoguerra con una fortissima crescita dei valori immobiliari, non solo nelle nuove edificazioni ma soprattutto nel già costruito. Questo incremento di ricchezza è andato quasi tutto a vantaggio dei proprietari che lo hanno inserito nel circuito finanziario senza restituire granché in termini di investimenti collettivi.

Anzi, si è trattato spesso di un arricchimento immeritato, poiché frutto di una rendita di posizione che aumenta non in base alle iniziative del proprietario, ma solo in ragione del miglioramento generale della vita urbana. La ricchezza prodotta dalla cittadinanza operosa viene acquisita dal ceto parassitario. E tutto ciò introduce un fattore pesantemente distorsivo nell’economia urbana. Rispetto al profitto industriale la rendita immobiliare offre plusvalori di gran lunga superiori, senza neppure l'onere di organizzare un ciclo produttivo.L’acqua va dove trova la strada e in queste condizioni le risorse disponibili vengono attratte dagli usi speculativi a discapito delle attività produttive. La città diventa un’idrovora di rendite e per le innovazioni tecnologiche rimangono solo le retoriche dei convegni.

Nel contempo la diseguale appropriazione di valore che ha prodotto il debito si perpetua proprio con la scusa del debito. Infatti, le amministrazioni che non hanno saputo o potuto acquisire una parte significativa della ricchezza immobiliare - spesso determinata proprio dal loro buongoverno - sono costrette a mettere in circolazione ulteriore rendita per ottenere in cambio le opere pubbliche.

Ciò sembra un guadagno per l'interesse collettivo, ma i valori di quelle opere, spesso presentate come regali alle città, sono inferiori ai costi di gestione e di investimento che le nuove costruzioni autorizzate scaricano sulle casse comunali e costituiscono solo una briciola della valorizzazione acquisita dal proprietario. In questo modo la trasformazione urbana produce arricchimento privato e povertà pubblica in un circuito che crea il debito mentre sembra volerlo risolvere.

Una nuovo riformismo urbano deve invertire questo ciclo. La rendita prodotta dal buongoverno deve tornare in una quota significativa nella disponibilità collettiva in termini di investimenti pubblici. Questi renderanno più bella ed efficiente la città e di conseguenza aumenterà anche il suo valore, in un ciclo virtuoso che migliorerà sia la vita pubblica sia le opportunità private. Se la rendita viene ripartita equamente non solo non determina debito ma contribuisce al benessere della città.

La retorica competitiva – Ogni sindaco ha raccontato una storia di sviluppo alla propria città. Si è favoleggiato sulla new-economy, sulle classi creative, sulle innovazioni tecnologiche come se fossero processi reali e direttamente dipendenti dall'azione dei Comuni. Ma era solo un omaggio alla retorica economicistica del tempo. In realtà quasi tutte le città italiane hanno partecipato passivamente al declino della produttività determinato dalla difficoltà del Paese a misurarsi con le nuove dinamiche mondiali. Semmai, alle imprese che si ritiravano dalla competizione internazionale il tessuto urbano ha offerto il rifugio non solo della rendita ma anche dei monopoli pubblici privatizzati male (aeroporti, telefoni, energia ecc.).

Nella sfera del consumo, invece, il contributo delle città è stato significativo, in particolare con la diffusione dei grandi centri commerciali che hanno avuto effetti marcati sulla struttura urbanistica a favore dell'abbandono di vecchi quartieri e della diffusione dello sprawl a grande scala. Anche i modelli di consumo si sono fortemente divaricati - dal livello massificato a quello del loisir - fino a diventare quasi gli unici caratteri distintivi dei luoghi: dal mall dell'hinterland, al nail-shop della periferia, al loft dell'ex zona industriale. Inoltre, c'è stata un'azione molto positiva delle amministrazioni nella qualificazione dei consumi culturali e nell’attrazione dei flussi turistici.

Tutto ciò ha modificato gli stili di vita urbani ed ha conferito alle città immagini suadenti che sono state raccontate dai sindaci sul lato della produzione pur essendo maturate su quello del consumo. Oggi, però la crisi economica ha svelato l'insostenibilità di quel modello dei consumi. L'impoverimento dei ceti medi e dei lavoratori indebolisce la domanda e nel contempo l'ossessione dell'offerta consumistica approda ad una sovrapproduzione di merci.

È saltato quindi il rapporto tra produzione e consumo. Un contributo a ritrovare l'equilibrio potrebbe venire da nuove politiche urbane, non solo nel campo già positivamente fertilizzato delle iniziative culturali, ma in diversi altri settori: la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, il prendersi cura delle persone, la comunicazione digitale, la filiera corta dell'agricoltura, il ciclo dei rifiuti, la green economy, ecc. In tal senso le aziende dei servizi pubblici andrebbero ripensate come strumenti di politica economica proprio per stimolare nuovi modelli di consumo e di produzione, per creare lavoro curando i servizi della città.

Anche qui però bisogna liberarsi dalle dottrine del ventennio che per realizzare la mitica concorrenza hanno imposto una perenne e inconcludente riforma delle aziende locali. Almeno una volta l'anno il legislatore ha modificato le norme di riferimento ma i monopoli non sono stati scalfiti.

Tutto ciò ha distolto l'attenzione dei Comuni che si è rivolta più agli asset proprietari che alla qualità del servizio, più alle procedure che agli investimenti, più alle nomine che ai diritti degli utenti. E il paradigma competitivo è stato esteso addirittura all'intera città sempre più interpretata come un'impresa esposta alla concorrenza internazionale, anche se nessuna analisi ha mai dimostrato un’evidenza empirica di tale fenomeno. La competizione tra le città è una delle tante ideologie degli anni Novanta che rientrano nella categoria definita da Paul Krugman del Pop Internationalism (trad. it. Un'ossessione pericolosa, Etas).

Ma le retoriche politiche non sono mai senza conseguenze pratiche. Quel paradigma ha rappresentato la città come un attore unico che si muove nel teatro economico ed è servito alle classi dirigenti per raccontare il proprio primato, ma ha oscurato le differenze sociali e culturali che attraversano e talvolta lacerano la vita urbana. Spesso il risveglio è stato amaro, ad esempio, quando è finito il Modello Roma abbiamo scoperto improvvisamente una città frammentata dal disagio sociale e dalle tensioni dell'immigrazione.

Occorre tornare a vedere la città eterogenea, le sue striature civili, le sue mura invisibili, le sue ineffabili esclusioni. E la coesione sociale non può essere una retorica nuova che sostituisce la vecchia senza ripensare le politiche. Bisogna riscrivere le agende di governo portando al primo posto - per l'impegno di risorse economiche, amministrative e culturali - il compito di costruire un moderno welfare che è prima di tutto una questione urbana.

La solitudine dei sindaci – Non a caso il ciclo ventennale è iniziato con la stagione dei sindaci. Questa figura è uscita dalla riforma elettorale del '93 come il perno di qualsiasi intervento riformatore e nella transizione incompiuta di Tangentopoli ha svolto una funzione molto positiva, in gran parte di surroga dei partiti. Tutto ciò ha alimentato un sovraccarico di aspettative e di responsabilità che alla lunga rischiano di sfiancare la stessa funzione istituzionale. Qualche segnale di stanchezza si è palesato nell'ultima tornata amministrativa con un improvviso calo del tasso di conferma dei sindaci uscenti che invece in passato si era attestato sempre su alti livelli.

Bisogna aiutare i sindaci a uscire dalla perniciosa solitudine in cui sono stati rinchiusi a causa dei nodi irrisolti nel sistema politico italiano. E si deve uscirne sia in alto sia in basso. In alto, mettendo in discussione tutta l'impostazione dell'intervento statale che ha abbandonato i contenuti per dedicarsi soltanto alle procedure. I tagli lineari, le vacue promesse federaliste e l'ossessione normativa hanno dominato il campo portando quasi al collasso le amministrazioni locali. Nel contempo sono state abrogate le politiche pubbliche che si occupano della vita concreta della gente, dai trasporti, all'istruzione, ai servizi sociali. E le poche eccezioni hanno seguito indirizzi dannosi o inutili: la legge sulla casa è un paravento per nuove speculazioni edilizie mentre altri paesi europei si danno leggi per diminuire il consumo di suolo; i poteri ai sindaci sull'immigrazione sono indirizzati solo alla sicurezza, con risultati peraltro modesti, nella totale assenza di una strategia nazionale di integrazione dei migranti.

Si è affermata una malintesa autonomia locale che ha significato da un lato caduta di responsabilità dello Stato verso la condizione urbana e dall'altro un suo ipertrofico intervento legislativo sui bilanci e sulle amministrazioni degli Enti Locali. Fino al delirio dell'attuale governo che è arrivato a eliminare livelli istituzionali per risparmiare sui gettoni di presenza, senza avere alcuna idea sul modello di governo del territorio. Occorre rimettere in agenda grandi politiche nazionali per migliorare la condizione di vita urbana, come fanno tanti paesi europei e la stessa Unione con priorità nei programmi strutturali. Sarebbe curioso che non lo facesse proprio la nazione che più di altre ha sempre fatto scorrere la propria linfa vitale nelle reti delle città.

Ma la solitudine dei sindaci va superata soprattutto in basso verso nuove forme di democrazia cittadina. L'uomo solo al comando non ha funzionato nel Paese e ne abbiamo preso atto in modo traumatico. Ma non funziona neppure nelle forme più dolci del governo comunale. I vantaggi iniziali della forte personalizzazione si sono tramutati spesso in evidenti difetti. Doveva assicurare stabilità di lungo periodo, ma il sindaco quasi sempre spreca il secondo mandato pensando a cosa farà da grande. Doveva conferire potenza decisionale, ma quasi sempre questa viene spesa per interventi di corto termine e di sicuro impatto mediatico. Doveva assicurare una relazione diretta con i cittadini, ma più facilmente l'amministratore unico del Comune viene catturato dalle reti dell'establishment urbano.

Si riapre il problema di una democrazia governante, di una mediazione nel corpo sociale, di una influenza reale dei cittadini sulla cosa pubblica. I nuovi sindaci di Milano, Napoli e Cagliari sono stati eletti proprio con questa domanda di superamento dell'uomo solo al comando e i primi passi di quelle giunte hanno cercato di dare risposte concrete alle aspettative. Dalla prossima tornata elettorale potranno affermarsi altre amministrazioni decise intraprendere strade nuove.

Postilla

«Bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta», afferma l’autore, individuando alcuni nodi delle politiche urbane recenti che sono indubbiamenti quelli su cui è più urgente incidere. Non c’è dubbio che quella discussione debba essere aperta, e su eddyburg l’abbiamo fatto fin dall’inizio della vita di questo sito. Ma proprio l’averl seguita con attenzione la stagione degli anni Novanta fin dal suo inizio ci induce ad affermare che essa tutto fu ma certo non - come scrive Tocci - la stagione di «una grande politica riformatrice». Tutt’altro.

Essa è stata la fase della nostra storia nella quale, nel quadro della più generale politica neoliberista e in aperta reazione alla stagione, quella si, delle riforme degli anni Sessanta e Settanta, è proseguita la loro distruzione, iniziata già con la “strategia della tensione” e proseguita negli anni Ottanta. La spallata di Mani pulite ha scoperchiato la pentola del “sacco d’Italia” denominato Tangentopoli, ma non è stata colta dai partiti e dalle istituzioni come l’occasione per riformare la politica e il suo rapporto con il territorio (con l’habitat dell’uomo) e il suo governo. Il vento del neoliberismo ha continuato a imperversare in Italia – tra l’altro nella sua versione più indecente – e il comportamento pratico della sinistra (anzi, delle sinistre) non si è significativamente distinto da quello delle truppe di Berlusconi e Bossi. Troppe vicende delle politiche nazionali, regionali e locali, ampiamente ricordate e commentate su questo sito, lo testimoniano.

Se ripartire da un punto della nostra storia si può e si deve, non è nella stagione occorre ritrovare il punto di partenza. Continuiamo a discutere e a cercare come uscire dall’attuale crisi sociale, politica e culturale, ma non partiamo per favore dalla stagione che ha visto trionfare la svendita dei diritti comuni sul territorio, la dismissione della funzione pubblica, la personalizzazione della politica, la mercificazione di tutto ciò che a merce non può essere ridotto.

Se le elezioni amministrative e i successi delle rivendicazioni referendarie dicono qualcosa, è che nella società italiana – almeno, nella sua parte attiva – i due decenni che sono alle nostre spalle sono già condannati nell’ideologia che li ha nutriti e nella politica che ne ha tracciato il percorso (e.s.)

Chi l’aveva detto, che Bossi riesce solo a sparare cazzate, o al massimo furbate? Prendiamo la storia delle megaregioni: cos’altro manifesta, in nuce, l’idea dei sindaci di fermare il traffico in tutta l’area padana, se non una specie di movimento federalista dal basso, in grado di costruire unità e identità ben oltre l’ingegneria istituzionale? Ha perfettamente ragione Paolo Hutter (“Liberi dalle marmitte”, Terra, 25 febbraio 2010) a ribadire e ancora ribadire come si nota qualcosa di davvero nuovo nell’approccio bi-partisan alla tutela della salute e dell’ambiente, indipendentemente dal successo - reale e/o di immagine - di cui discuteremo dal lunedì successivo in poi. Ed è appunto perché c’è qualcosa di nuovo, che sarebbe il caso di non buttare il bambino giù per lo sciacquone, insieme alle odiate marmitte e ai nemici più o meno inventati per l’occasione.

Verissimo che quelle marmitte sputafuoco ci avvelenano la vita, ma come ogni tanto spiega (molto interessatamente, si scopre sempre poi) qualche tecnico o scienziato, con l’odio si combina poco, perché in fondo servono anche a qualcosa di buono. Ed esattamente a quello che prometteva Henry Ford circa un secolo fa: a portare la gente dove le pare anche su distanze considerevoli. L’ho detta grossa? Ebbene si, l’ho sparata proprio malamente e un po’ da pirla, ma non del tutto. Vero che le promesse di Henry Ford si sono trasformate nell’incubo degli ingorghi, delle schifezze che respiriamo, delle guerre per il petrolio eccetera eccetera, ma senza macchine cosa succede? Succede, nel migliore dei casi (ma proprio nel migliore), la fotocopia dei primi anni ’70: ci si ferma a contemplare cosa potrebbe essere un mondo diverso, si riscoprono spazi, priorità, occasioni … Ma poi?

foto f. bottini

Poi scopriamo, non tutti ma la gran maggioranza di tutti, che in qualche modo le marmitte delle macchine sono solo l’estremità sporca di un metabolismo lungo e complesso, e che non ci si può smarmittare così tanto alla leggera. C’è un grande sistema che mangia, digerisce, usa la sua energia, e poi naturalmente deve scaricare. Il tappo nel sedere per non scaricare, o il digiuno per non produrre quegli scarichi, ce li possiamo imporre per un po’, ma poi se le cose restano come stanno dobbiamo per forza riattaccare come prima. E la questione si ripropone: è possibile cambiare le cose, scaricare meglio scaricare tutti, o non scaricare affatto?

Inutile, oltre che schiettamente reazionario, fare prediche di vaga nostalgia sul ritorno alle sane abitudini dei nonni. Le apprezzavano così tanto, quelle abitudini, che le hanno cambiate. Quindi, per favore, non si potrebbe per una volta fare a meno del sermone d’ordinanza sulla riscoperta di certi ritmi, di certi angoli della città, del gusto di passeggiare eccetera eccetera?

Non perché non sia vero, e a modo suo anche abbastanza buono e giusto. No.

Il fatto è che così ci si fa automaticamente odiare dalla maggioranza di chi non ha alcuna città da riscoprire, ritmi da recuperare, amici reperibili con qualche falcata. Oggi, ed è ottima cosa che sia così, il territorio urbanizzato è luogo di flussi, mobilità, scambi. La vera questione è: si può mantenerlo tale anche da smarmittato? O è davvero come tapparsi il sedere, con tutto ciò che metaforicamente ne segue?

Qualche giorno fa stavo componendo diapositive per una lezione, e senza rendermene conto ho impiegato parecchi minuti solo per cercare (invano, ahimè) in rete una versione più leggibile della copertina di un rapporto, e altri parecchi minuti per cercare di migliorare la versione piccola e sfocata che avevo a portata di mano. Alla fine ho dovuto accontentarmi, ma con le matricole di Architettura a cui è destinata quella diapositiva fra tante dovrò trovare un modo altrettanto efficace dell’immagine chiara, per evidenziare quel titolo: Transit and Land Use Plan. Mezzi pubblici e sistema insediativo progettati o concepiti come una sola cosa, vale a dire binari, edifici, spazi aperti, marciapiedi, piste ciclabili, corsie degli autobus, fermate, scale, negozi, uffici, servizi, verde … Proprio il genere di cose che si vuole vedere quando ci si smarmitta, e che chi sta in città qualche volta riesce pure a sperimentare, nelle domeniche smarmittate. Ma gli altri, visto che di Transit and Land Use Plan non se ne è mai parlato e ancora non se ne parla se non in qualche convegno, gli altri sentono solo quella certa costipazione comportamentale.

E si incazzano. E poi al momento buono votano chi gli garantisce quel territorio urbanizzato luogo di flussi, mobilità, scambi. Non chi gli ripropone una specie di Arcadia caricaturale. Dentro la quale l’intellettuale sedicente “progressista” suona la cetra, o abita l’edificio col pronao palladiano che non manca mai. Mentre gli altri, smarmittati, possono solo far scorazzare le pecore, o se sono signore star chiuse in casa a far girare qualche marchingegno tessile a pedali … Esagerazione? Sicuro che lo è, ma serve a far capire che reazione generano certi entusiasti in chi non ha proprio motivo di essere entusiasta, visto che abita in un posto dove la marmittatissima macchina fa da surrogato a quasi tutto. Ma non ci pensano mai, questi signori, tanto per fare un esempio, alle generazioni, intere generazioni umane, che ormai hanno raggiunto una maturità erotica quasi esclusivamente automobilistica, che magari non riescono a raggiungere l’orgasmo se non c’è a portata di mano la leva del cambio? O ai comunissimi modelli di consumo dove a piedi risulta difficile o impossibile raggiungere la maggior parte dei prodotti e servizi, e non c’è a portata di mano alcuna alternativa all’auto (o all’autobus tradizionale che da un certo punto di vista è la medesima cosa ma peggio)?

Transit and Land Use Plan. Negli ultimissimi giorni si è parlato molto, moltissimo, di due nuove lottizzazioni marmittatissime che tra parentesi stanno a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Ammazzala se qualcuno, solo qualcuno, ha dedicato una virgola a questo aspetto, che pure poteva dirla molto lunga anche su tutti gli altri. La prima è la cosiddetta Milano 4, sui terreni di Arcore giusto davanti alla mitica Villa San Martino, chiusa a sandwich fra un tratto del Lambro forse scampato all’ecatombe e un bell’impianto dello sponsor Rovagnati. La seconda è quella che il Lambro, e poi il Po, e poi chissà cos’altro, li ha direttamente inondati di petrolio, ed è la Eco-City giusto di fronte a un altro impianto del prosciuttiere Rovagnati. Oltre alla vicinanza alla multinazionale del porco salato, le due lottizzazioni hanno però un tratto che le rende molto simili, e molto simili a tutti gli altri prodotti territoriali contemporanei: sono pensate solo ed esclusivamente in funzione della mobilità automobilistica, pur trovandosi entrambe (Eco-City addirittura gli sta sopra) molto vicine ai binari delle ferrovie suburbane.

Così anche se poi ci sono le piste ciclabili, l’energia o le finiture da catalogo di sostenibilità commerciale, anche il sogno immerso nel verde sputa veleni da tutte le marmitte che ci vanno e ci vengono. Perché l’unico modo di andarci e venirci è quello. Non a caso (lo spiego meglio per chi volesse sul mio sito http://mall.lampnet.org) la Milano 4 di Arcore è attaccata all’autostrada Pedemontana come un vitellino alla tetta della mamma, e la Eco-City di Villasanta sta affacciata sulla rotatoria che immette alla bretella per la Tangenziale Est. Entrambe ignorano quei rugginosi binari, là dove nella logica di un Transit and Land Use Plan ci sarebbe stata innanzitutto la grande piazza della stazione, e poi tutto attorno la città, e poi tutto attorno gli altri quartieri da trasformare in modi simili per traboccamento logico ed economico. E invece le nostre cittadelle hanno il solito aspetto da lottizzazioni suburbane chiuse su se stesse, pronte a chiudersi ancora di più se necessario, salvo uscirne rintanati nel simbolico SUV.

Ecco, se la domenica smarmittata padana può servire a riflettere su questi obiettivi di nuova libertà, mobilità, opportunità, fantastico. Altrimenti, se ci aspetta la predica vagamente autoritaria di chi lo fa per la nostra “salute” (non suona sinistramente troppo simile a chi fa altro per la nostra “sicurezza”?) finirà come le altre volte.

E pensare che negli anni ’60, proprio quelli a cui la crisi petrolifera mise culturalmente fine, la vulgata progressista e di sinistra più pervasiva coincideva, esattamente, con l’antiautoritarismo. Non sarebbe il caso di ricordarsene, e di mandare a quel paese certi profeti di sventura a gettone?

Nota: per i tre temi attorno ai quali si sviluppa questo pezzo, si vedano l'articolo di Paolo Hutter sulla domenica padana a piedi, quello di Gabriele Cereda sulla Eco-City e l'apocalisse del petrolio nel Lambro, infine quello del sottoscritto Fabrizio Bottini sull'urbanistica berlusconiana declinata a Milano 4 (f.b.)

Ci sono territori abbandonati che spesso non sanno neppure di esserlo. Sono spazi, àmbiti, porzioni e segmenti che qualcuno dimentica di considerare, almeno in uno o più aspetti essenziali. Questa latitanza dell’attenzione innesca l’abbandono, ovvero per inesorabile legge fisica il subentrare di qualcos’altro. Abbandonata è per definizione la periferia urbana: prima dalla campagna che si è ritirata altrove, poi dalle speranze di nuova centralità aggiunta di chi l’aveva progettata, di chi ci aveva investito andandoci ad abitare, aprendo un negozio, ecc. Abbandonate sono anche grandi porzioni di centro storico, o di nucleo metropolitano interno: zone produttive, infrastrutture obsolete. Qui il processo ha anche un nome che riassume un po’ tutto, ed è “disinvestimento”.

Vale a dire che non si investe più a sufficienza, o meglio, che non si investe più realizzando un equilibrio “giusto” (è il termine “giustamente” utilizzato dagli amministratori delle città tedesche per realizzare interventi di riuso misto di aree sottoutilizzate delle periferie -misto soprattutto per quanto riguarda l’offerta abitativa - attraverso il modello “SoBoN”) , perché quello spazio sia vitale, socialmente utile e desiderabile per tutti: per chi ci abita, per chi ci lavora, per chi lo frequenta per i più svariati motivi.

E per la nota legge fisica, lo spazio lasciato libero dal disinvestimento si riempie di altro, mica solo delle classiche erbacce.

Un esempio recentissimo del genere è descritto nel rapporto (disponibile dal 17 novembre sul sito del ministero dei Trasporti britannico www.dft.gov.uk ), curato da Peter Hall e Chris Green, sul degrado delle stazioni della rete ex pubblica, un tempo luoghi centrali per città, cittadine, zone rurali, che prima la diffusione dell’auto privata … e poi certo eccesso di fiducia nella panacea dell’iniziativa privata hanno ridotto a terra di nessuno, a danno di tutti.

Questo della dismissione, disinvestimento, abbandono di territori, è un problema che storicamente nasce dalle ricadute sociali e ambientali dell’innovazione. Una innovazione che ormai pare quotidiana, e con la quale dunque occorre imparare a misurarsi attivamente e positivamente. Farlo tutti i giorni, farlo bene, farlo d’abitudine. In altri paesi si è fatto: possono piacere o meno, ma, a puro titolo di esempio, i grandi progetti per il riuso dell’Est parigino, hanno rilanciato quell’ampia porzione degradata della “periferia storica” ridandole qualità e attrattività e, soprattutto, dando nuove occasioni anche all’artigianato di alta specializzazione (liutai, accordatori,…) e al commercio di prossimità ( Cité de la Science, Cité de la Musique, Palais Omnisport Bercy, etc.).

Significativamente, il rapporto sulle stazioni di Hall e Green si apre con la gloriosa immagine dell’epoca vittoriana, quando le fermate del treno erano il vero nodo e orgoglio della comunità. Spazi moderni, ricchi di servizi e di traffico, centro fisico e nevralgico dell’insediamento, concentrato di interessi, attenzione, aspettative.

Tutto vero? Sicuramente no, le magagne c’erano anche allora di sicuro, e anche da quelle probabilmente sono scaturiti poi i motivi dell’abbandono progressivo. Pensiamo ai nostri centri storici, al loro metabolismo spaziale e sociale. Salta anche agli occhi di osservatori non particolarmente attenti la grande differenza fra quartieri che sono stati oggetto di gentrification, e quartieri che si sono mantenuti sostanzialmente inalterati almeno da un paio di generazioni. Non si tratta semplicemente della migliore manutenzione degli edifici o degli spazi pubblici, ma di una vistosa trasformazione nei tempi e modi d’uso del quartiere. Spariscono le vecchie attività, sostituite da nuove o da nessuna, così come spariscono gli utenti di certi spazi, e spesso il senso, dei medesimi spazi. Qualcosa rimane, magari prospera, ma è lecito chiedersi: perché? come? secondo quali aspettative? In altre parole: chi sta “investendo” nei vari spazi e funzioni dei tanti Soho sparsi per le città contemporanee?

Pensiamo a qualcuna delle piazze italiane più vivaci e tradizionali. I portici, l’angolo dell’edificio pubblico/monumentale, le abitazioni, i locali pubblici, gli imbocchi delle vie, le bancarelle, ecc. Tutto identico? Macché: tutto diverso, e in qualche modo “finto”, esattamente come in un qualunque centro commerciale. Perché quei locali, quelle bancarelle, quelle case, anche negli esempi migliori di relativa continuità e/o graduale evoluzione sociale, non sono vissuti e gestiti da un’utenza più o meno locale, come avveniva una volta. Né offrono le medesime aspettative riguardo al lavoro, al reddito, alla qualità dei servizi. Diciamocelo: chi mai fra noi sognerebbe per sé o per i figli un futuro fatto di sveglia alle tre, qualche ora in coda sul furgone, e poi una giornata a battere i piedi al freddo vendendo fiori o magliette all’ombra di una Loggia? O quando si parla di spopolamento di alcune zone, di degrado di territori per carenze di manutenzione corrente, ci si chiede mai il tipo di qualità della vita media che offre l’abitare e lavorare in quei territori? E chi mai potrebbe, se non costretto dagli eventi, sognare quella vita?

Gli spazi tradizionali, anche quando appaiono “vitali”, spesso lo sono solo perché qualche rivolo di investimento continua a fluire. Esempio tipico, il flusso di immigrazione da paesi molto lontani, che popola esattamente le stesse bancarelle di cui sopra, e alimenta pure il passaggio di tanta clientela per quelle bancarelle. Ma se si riflette solo un attimo in più sui flussi migratori, il pensiero non può sfuggire all’immagine di ben altri quartieri, che pure si popolano e vivono sulla medesima spinta: i capannoni e depositi dismessi, le ali abbandonate di qualche ex servizio o edificio pubblico, militare, demaniale. È il medesimo ciclo, solo con parecchia brutalità in più: quegli spazi, tutti, vivacchiano in attesa che arrivino investimenti non di pura sopravvivenza.

È questo, molto schematicamente, il motivo per cui quando un certo flusso di investimenti appare consolidato nel tempo, deciso a ribadire nei fatti le proprie intenzioni, forse sarebbe almeno il caso di osservarne anche le potenzialità positive, oltre a sottolinearne giustamente i caratteri di squilibrio. Ad esempio, gli spazi commerciali e di servizio: sono sempre di più anche gli esercenti minori, oltre alle grandi catene organizzate, ad auspicare ambiti di qualità, sicurezza, stabilità. Perché? Perché le aspettative della maggioranza degli operatori, nonché della loro clientela, sono esattamente quelle. Perché evidentemente l’ambiente di lavoro ed erogazione-fruizione dei vari servizi nel centro tradizionale si addice solo ad una minoranza degli aspiranti imprenditori, vuoi per carenze qualitative insormontabili, vuoi per aumento esponenziale delle pure quantità di offerta-domanda. Uno degli orientamenti mainstream della nuova offerta strutturata di spazi, è quello pubblicitariamente sbandierato dei Superluoghi: parola evidentemente derivata dai vecchi non-luoghi di Marc Augé, e che ne sfrutta e ribalta in positivo la notorietà assai diffusa. Una parola e basta, visto che poi sta a connotare investimenti di qualunque genere, purché vagamente mixed-use, a forte concentrazione, a forte capacità decisionale.

E la domanda è: sono spazi in genere auspicabili? Si può rispondere di sì o di no, e articolare queste risposte secondo varie sfumature e opzioni. Certo se si schematizza l’equazione “Superluogo = Corsia preferenziale per l’interesse particolare contro quello generale” la risposta viene da sé. Però esiste anche un’altra domanda: non si possono orientare diversamente, questi flussi di investimento che comunque è semplicistico definire come regressivi? Invece è di sicuro regressivo pensare a un futuro di lavoro nero (di questo vivono le attività tradizionali), di incessante sprawl (lì vanno a finire gli sfollati dai centri e dai contenitori dei riuso strisciante), e di sostanziale fai-da-te urbanistico.

Quelle riassunte sono, tutte, tendenze perfettamente leggibili, e rispetto alle quali il cosiddetto “governo” si è dimostrato, nel nostro paese, storicamente impotente, perché non ha capito, o voluto “governare” l’orientamento delle aspettative.

Nota: invito anche a leggere su Mall l'estratto dal recente L'urbanistica dei Superluoghi di Mario Paris, dove quantomeno si propone una rassegna di casi e potenzialità; alcuni limiti sono già colti da Corinna Morandi nella prefazione allo stesso libro, disponibile in un altro articolo nella medesima cartella Spazi del Consumo (f.b.)

Postilla

In attesa di avere il tempo di rispondere più distesamente vorrei esprimere il mio dissenso per una frase del testo dell'articolo. La frase è questa: "Però esiste anche un’altra domanda: non si possono orientare diversamente, questi flussi di investimento che comunque è semplicistico definire come regressivi?"

Io non so se, come urbanisti, abbiamo il compito di farci carico dei flussi di investimento nel senso di favorire le tendenze degli investitori accettando la logica che le determina. Sono certo però che, come intellettuali, abbiamo in primo luogo il compito di analizzarli e valutarli. Quindi ritengo certamente necessario conoscerli e riflettere su di essi, ma poi dobbiamo esprimere un giudizio.

Il mio giudizio, che ho costantemente sostenuto su queste pagine e altrove, è che quei flussi sono determinati dalla volontà (consapevole o inconsapevole poco importa) di utilizzare tutte le rendite di posizione disponibili, adoperando tutti i mezzi (a partire dalla corruzione) per indurre i poteri poubblici per favorirle e accrescerle. Privatizzazioni di beni comuni (a partire dalle scelte sul territorio), eliminazione delle regole (a partire da quelle della pianificazione), formazione di una opinione comune che accetta come inevitabile quanto sta succedendo: questi sono alcuni degli strumenti adoperati.

Come intellettuali abbiamno il compito di testimoniare, dimostrare e argomentare quanto sta accadendo. Come intellettuali urbanisti abbiamo il compito di rivelare gli aspetti territoriali di ciò che sta accadendo.

E' poi una scelta soggettiva quella di scegliere se accodarsi al mainstream o di contrastarlo e aiutare a costruire, con la pazienza e il senso della durata necessari, una contro-egemonia. Ma in questa occasione voglio ricordare che obiettiivo essenziale di eddyburg è stimolare la formazione di uno spirito critico, e che tra i suoi principi c'è il seguente: "la critica all’appiattimento di ogni dimensione dell’uomo e della società alle pratiche, agli interessi e ai meccanismi di dominio dell’economia data, che caratterizza il mainstream dell’attuale processo di globalizzazione e di insostenibile sfruttamento di tutte le risorse, e la rivendicazione della necessità e possibilità di ricerca di alternative credibili e praticabili".

In prima approssimazione si può concordare con De Lucia (Pianificazione paesaggistica vs Pianificazione urbanistica?eddyburg, 29 giugno 2008), perché nella pregevole relazione di Settis al convegno della rete dei comitati del 28 giugno scorso a Firenze, l’affermazione che nella legislazione pregressa sul paesaggio «la tutela si è fermata alla porta delle città» può essere interpretata come un’inesattezza. Ma poi occorre discostarsi dagli argomenti che De Lucia adduce. È indubbio che l’urbanistica abbia da sempre teso a comprendere la tutela del paesaggio. L’urbanistica è essenzialmente volontà di governo dell’interezza del territorio. Ma è difficile pensare che Settis non abbia, come i più, questa consapevolezza. Ciò che, invece, sembra poco presente alla maggioranza dei commentatori è che la legge 1497 del 1939 non intendeva affatto limitare la tutela alle porte delle città. Non solo ciò è documentato dagli innumerevoli scritti che la precedono e ne propugnano l’emanazione; ma anche dalla semplice constatazione che le migliaia di luoghi vincolati in base a quella legge (e non per deliberazione di piani territoriali o urbanistici) comprendono interi centri urbani e cospicue parti di grandi città.

A cosa è dovuto dunque questo costante riaffiorare di una vena polemica, «pianificazione paesaggistica vs pianificazione urbanistica»? Solo a un perdurante quiproquo? No, le radici del contrasto sono profonde e di ben altra natura; ma per lo più non si spinge lo sguardo verso questo fondo, evitando così di porsi faccia a faccia col dilemma in cui resta avvolta la volontà di tutelare il paesaggio in forza di legge, in quanto bene culturale di interesse pubblico. Questa volontà sorge insieme all’affermarsi degli ordini giuridici volti a garantire il cosiddetto “libero mercato”, ossia quell’agire individuale e sociale che, in quanto determinato dallo scopo primario del profitto, si chiama “capitalismo”. La tutela si costituisce essenzialmente sulla base della distinzione tra valore “culturale” e valore “venale” dei beni. Non si tiene mai abbastanza presente che negli ordini giuridici del nostro tempo, quelli in vario modo liberaldemocratici, entrambi i valori sono di interesse pubblico, ossia sono riconosciuti come diritti. Quando un determinato bene è posto come mezzo di un’azione di mercato, pubblico o privato che sia l’attore, tale bene si identifica al suo valore venale. Cosa accade quando il medesimo bene è posto sotto tutela in quanto ne è riconosciuto il suo valore culturale?

Il legislatore e la giurisprudenza hanno mantenuto saldo il principio che il valore culturale è preminente su quello venale. Il fondamento giuridico della tutela pubblica (dalla quale non discende immediatamente alcuna efficienza operativa), è tutta racchiusa in questo principio, che è però insieme il più esplicito riconoscimento della contrapposizione irriducibile dei due valori. In che senso irriducibile? La preminenza di un valore non annienta gli altri possibili. Ma va tenuto ben presente che ogni agire è determinato dallo scopo primario. È lo scopo primario che dà il senso all’agire, che ne determina la direzione verso cui muovere, ogni altro fine coinvolto nell’azione è ridotto a puro e semplice mezzo per raggiungere l’intento prioritario. Sicché ogni agire che ponga come primaria la determinazione del valore venale di un bene, non esclude necessariamente la determinazione del valore culturale del medesimo bene, ma quest’ultima sarà posta necessariamente quale proprio mezzo e così viceversa quando l’azione ponga come primaria la determinazione del valore culturale.

Ora, c’è una pervicace resistenza nella cultura urbanistica a non riconoscere esplicitamente e nella sua essenza che quell’agire per mezzo di atti normativi delle amministrazioni locali che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale è istituzionalmente e di diritto preposta alla determinazione del valore venale dei beni e come tale è operata, con un’efficacia e un’efficienza che non hanno alcun riscontro in nessuna azione di tutela. Allo stato del diritto è questa la ragion d’essere della pianificazione pubblica, che la rende assolutamente incompatibile con lo scopo costituito dalla determinazione del valore culturale dei beni a fini di tutela.

Un padrone può avere due servi, anzi spesso ha bisogno di molti servi, ossia gli occorrono molte mediazioni per raggiungere gli scopi. Ma un servo (lo strumento urbanistico) non può avere due padroni (il valore culturale e il valore venale). Quando si tende, come si sta tendendo, verso una tale situazione, allora è il servo a farla da padrone, ossia il mezzo (la strumentazione urbanistica) si rovescia in scopo primario di tutte le azioni che se la contendono. L’agire determinato dalla tutela e l’agire determinato dagli interessi economici (pubblici o privati che siano) sono costretti ad assumere come scopo primario il possesso e il potenziamento del mezzo, ciascuno nel tentativo di prevalere sull’avversario. Sicché gli atti normativi, di legge e amministrativi, vanno crescendo di numero e s’infittisce il ritmo e la variazione della loro produzione. Ma allo stato dei rapporti di forza, è l’agire economico che ha la capacità di sviluppare una potenza di gran lunga superiore all’agire culturale nel potenziamento e nell’uso degli strumenti di piano a proprio favore. È altamente probabile (ma qui non c’è spazio per argomentare la tesi) che l’insufficiente consapevolezza di gran parte della cultura urbanistica contribuisca a rafforzare tale supremazia, anche quando o soprattutto quando crede o vuol far credere di esser tutta intenta a salvare e a donar paesaggio (e non solo) all’umanità intera.

Postilla

Il punto su cui non concordo con Ventura è racchiuso in questa frase: “quell’agire [...] che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale è istituzionalmente e di diritto preposta alla determinazione del valore venale dei beni”. A differenza di Ventura, io ritengo che la pianificazione urbanistica sia uno strumento, la cui finalizzazione è determinata dalla politica. Tra i suoi effetti possono esserci sia l’attribuzione di “valori venali” che la tutela di “valori culturali”, È solo se scendiamo dal livello dell’astrazione a quello della concretezza che possiamo cogliere la validità (parziale) della posizione di Ventura: che sta nel fatto che oggi, nella condizione della nostra attuale società, la pianificazione è adoperata per la finalità “venale”. Ma le eccezioni ci sono, e dimostrano che – come nel caso dei piani ricordati da De Lucia – la pianificazione può essere adoperata anche per la finalità della tutela dei “valori culturali”.

Alcuni di noi, da diverse sponde, si sforzarono di proporre un metodo di pianificazione che anteponesse, nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, le scelte della tutela su quelle della trasformazione, cioè dell’attribuzione di “valore venale” (rinvio in proposito al mio scritto per i Quaderni dell’Archivio Osvaldo Piacentini). Tracce sbiadite di questo tentativo sono nelle parole di alcune leggi regionali, come la toscana; ma sono, più che parole, chiacchiere.

Caro Salzano, mi pare davvero utile ed opportuno che la discussione continui. Penso che un confronto critico aperto sia quello di cui più che mai c’è bisogno anche (in realtà sto pensando ‘soprattutto’) in campo urbanistico. A questo proposito, mi farebbe piacere accostassi queste poche righe alla nota di commento al mio libro che hai pubblicato su eddyburg. Non voglio certo entrare qui in una discussione di dettaglio (chi fosse interessato troverà sviluppi più ampi in un testo di prossima pubblicazione, a cura di De Luca, che anche tu richiami). Solo vorrei fare una precisazione e segnalare alcune cose.

Inizio dalla precisazione: resto convinto che ci siano differenze significative tra una posizione liberale classica (che cerco di riprendere e sviluppare) e le pratiche di governo che oggi alcuni definiscono neoliberali o neoliberiste, ad esempio le pratiche di governo di cui parla David Harvey nel libro Breve storia del neoliberismo, 2007. Lo stesso Harvey è costretto a fare acrobazie d’ogni tipo (come tanti altri del resto) per riuscire a criticare, in un colpo solo e sulla base di una presunta obiezione unitaria, la teoria liberale classica e la teoria neoliberista contemporanea, la teoria conservatrice e la teoria neoconservatrice, le pratiche illiberali più disparate dei governi più vari, etc. Sia chiaro: Harvey ha ovviamente diritto (e, magari, anche ragione) a criticare un insieme di posizioni e pratiche che trova indesiderabili, ma crea solo un’inutile confusione fingendo che stiano tutte sotto lo stesso ombrello. Il punto è che molte pratiche di governo presunte liberali (ad esempio, in Europa o negli Stati Uniti) sono in realtà totalmente illiberali per il loro spregio della rule of law (ossia, della ‘supremazia e certezza del diritto’), l’autoritarismo centralizzatore, l’esorbitante potere attribuito all’esecutivo, l’inclinazione protezionistica, l’idolatria della tradizione, l’opposizione alla sperimentazione di nuovi stili di vita. Continuo a pensare che una posizione quale quella difesa ne La città del liberalismo attivo, 2007 (e nel mio libro precedente: L’ordine sociale spontaneo, 2005) non solo non sia affine a queste pratiche di governo, ma possa utilmente contribuire a criticarle. Cercherò, in futuro, di rendere questo punto ancor più evidente. La confusione che continua a regnare in proposito (e che anche un autore del calibro di Harvey contribuisce purtroppo ad accrescere) mi pare renda la cosa indispensabile.

I punti su cui volevo richiamare l’attenzione, sempre assumendo una posizione liberale classica in senso stretto e radicale (e non quell’instabile miscuglio di neoliberismo e conservatorismo di cui confusamente discute Harvey), sono i seguenti.

In primo luogo, la tradizione liberale a cui mi rifaccio non si disinteressa dei deboli: anzi, ritiene che i deboli sarebbero protetti meglio proprio entro un quadro liberale. Le idee liberali di costituzione, checks and balances, diritti individuali, tolleranza, etc. hanno come obiettivo principale proprio difendere i più deboli della società. L’idea è che la più solida difesa dei deboli si ottiene garantendo le libertà negative individuali di tutti (ossia le libertà alla non-interferenza, da parte di chiunque, nella sfera personale di ognuno). Lungi dall’essere solo libertà ‘formali’, le libertà negative individuali sono infatti quanto di più sostanziale si possa immaginare in difesa proprio dei più deboli (“È solo la libertà al negativo, la rivendicazione di una sfera di non-impedimento, che sta dalla parte dei sottoposti e che non può ritorcersi contro di loro”: Sartori, Democrazia e definizioni, 1959, p. 209. “Il liberalismo è il principio di diritto secondo il quale il potere pubblico [...] deve limitarsi e fare in modo [...] che nello stato [...] possano vivere anche coloro che non pensano né sentono come i più forti o come la maggioranza. Il liberalismo – è necessario oggi ricordarlo – è la generosità suprema: è il diritto che la maggioranza concede alle minoranze ed è dunque il più nobile appello che sia mai risuonato nel mondo [...]” (Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 2001, p. 105). Dunque, non solo il tema del potere dei forti (governanti compresi) nei confronti dei deboli non è assente dalla tradizione del pensiero liberale, ma è la sua vera ossessione: tutto l’armamentario istituzionale di derivazione liberale può essere riletto come un tentativo di garantire una sfera protetta per chiunque. (Oltre alla imprescindibile difesa delle libertà negative, in un’ottica liberale si possono prevedere anche trasferimenti di risorse in favore di chi di fatto si trova in una situazione di disagio materiale, preferendo però strumenti tipo ‘reddito minimo’ o ‘buoni per servizi’ perché si tratta di forme più efficienti e più facilmente garantibili tramite procedure impersonali. Tutto ciò evitando però di illuderci che si possano creare mondi in cui tutti abbiano accesso a tutto, ed evitando di rendere difficile proprio ai più deboli migliorare la loro posizione nel deleterio tentativo di creare tali mondi impossibili. A margine, ricordo che è ormai riconosciuto da tutti che i sistemi di welfare tradizionali hanno trasferito risorse enormi verso le classi medie e non certo verso gli strati più bassi della società. È anche per questa ragione che credo sia meglio tornare a concentrarci su un’idea di ‘povertà assoluta’ e abbandonare l’idea di ‘povertà relativa’: si vedano Moroni e Chiappero-Martinetti, "Spazi plurali di povertà assoluta. Elementi per una teoria normativa", in corso di pubblicazione su ‘Etica ed economia’, IX/2, 2007).

In secondo luogo, il mercato non è una ‘divinità’ in un’ottica liberale quale la mia (se c’è una divinità, quella è il diritto). Il mercato è, semplicemente, la più efficace forma di organizzazione della vita economica che risulta compatibile con la garanzia di certi diritti individuali fondamentali e con la connessa idea della supremazia del diritto (come cornice impersonale e imparziale di convivenza). Di nuovo, non certo a esclusivo favore dei più ricchi. Per dirla con Mises, I fallimenti dello stato interventista, 1997, p. 365: “Un’economia di libero mercato non è un sistema raccomandabile dal punto di vista degli interessi egoistici degli imprenditori e dei capitalisti. L’interesse particolare di un gruppo o di singoli individui non ha bisogno dell’economia di mercato; è il benessere generale che ne ha necessità. Non è vero che i difensori dell’economia di mercato siano i difensori degli interessi egoistici dei ricchi. Gli interessi particolari degli imprenditori e dei capitalisti invocano l’interventismo, per proteggersi dalla competizione di individui più efficienti e maggiormente attivi. Il libero sviluppo dell’economia di mercato deve’essere tutelato non nell’interesse del ricco, ma nell’interesse di tutti i cittadini”. E ancora: “È largamente diffusa l’opinione che il liberalismo si distingua dagli altri indirizzi politici perché privilegia e difende gli interessi di una parte della società – dei possidenti, dei capitalisti, degli imprenditori – rispetto a quelli di altri ceti sociali. Ma si tratta di una supposizione del tutto infondata. Il liberalismo ha sempre guardato agli interessi generali, mai a quelli di un gruppo particolare qualsiasi [...]. Storicamente il liberalismo è stato il primo indirizzo politico attento al benessere di tutti e non a quello di particolari ceti sociali” (p. 33).

In terzo luogo, quando si parla di proprietà, credo sia utile distinguere tra ‘il diritto di detenere proprietà privata’ e ‘il diritto dell’individuo X di detenere la proprietà Y (ad esempio, il suolo Y)’. Il primo è un diritto basilare formale. Il secondo è un titolo giuridico sostantivo ad una cosa particolare (che sarà legittimo se sarà stato ottenuto nei modi previsti dalla legge: ad esempio acquistandolo liberamente da K, ottenendolo in eredità da Q, ricevendolo in regalo da H, etc.). È ovviamente il primo che i liberali (sottoscritto compreso) difendono come uno dei diritti individuali fondamentali: il fatto che tale diritto esista è infatti decisivo per chiunque, proprietario e non. La difesa di questo diritto non è perciò a favore dei proprietari effettivi di titoli a Y (o W), ma a favore di tutti. Con le parole di Hayek, Legge, legislazione e libertà, 1986, p. 151: “Gli attacchi… al sistema della proprietà privata sono riusciti a diffondere la credenza secondo cui l’ordine che in base a tale sistema… viene sostenuto è al servizio di interessi particolari. Ma la giustificazione del sistema della proprietà privata non si ritrova nella tutela degli interessi dei proprietari. Tale sistema serve sia gli interessi di coloro che momentaneamente posseggono una proprietà, sia quelli di coloro che momentaneamente non la posseggono, poiché lo sviluppo dell’intero ordine di azioni da cui dipendono le moderne forme di civiltà è stato reso possibile solo grazie all’istituzione della proprietà medesima”. Questo punto, effettivamente controintuitivo, è quello che da qualche secolo si continua a non cogliere; in buona parte dipende dal fatto che l’idea diffusa di proprietà è ancor’oggi retaggio di antiche forme di organizzazione sociale in cui i diritti individuali (a partire proprio da quello di proprietà!) non erano per nulla universali e il mercato non esisteva affatto in forma compiuta. Come osserva Heath, Citadel, Market and Altar, 1957, pp. 123-124, gli uomini godono normalmente dei vantaggi dell’esistenza dell’istituto della proprietà privata “anche se il loro concetto tradizionale ed emotivo della proprietà in generale – e della proprietà della terra in particolare – li spinge a vederla come un privilegio […] da cui l’umanità come tale è esclusa e nessuno che non sia il fortunato proprietario può goderne. È come se tutta la proprietà e la ricchezza fossero beni personali posseduti solo per essere consumati o distrutti a scopo di auto-gratificazione o per qualche sinistro progetto antisociale. Questo è il lascito persistente alla mentalità moderna del nostro passato remoto e totalitarista, quando non c’era una libera economia di mercato e ben pochi uomini liberi”. Ammetto di non aver approfondito la cosa nel libro come sarebbe probabilmente stato utile e mi ripropongo di tornarci (a proposito posso segnalarti un fatto curioso, ma, credo, interessante: tu mi accusi di aver dato peso eccessivo ed esclusivo alla proprietà nel mio libro, mentre Carlo Lottieri, in un intervento che finirà sempre nel volume curato da De Luca, mi rimprovera per essermi pressoché dimenticato di trattarne…).

In quarto luogo, mi sembra utile ribadire che il diritto di detenere proprietà privata (di beni), pur fondamentale in una prospettiva liberale, non è certo l’unico diritto basilare cui si riconosce importanza in tale prospettiva; i diritti alla libertà di espressione, coscienza, culto, associazione, etc. hanno anch’essi una chiara origine e matrice liberale (ed io li ritengo, ovviamente, della massima importanza: tanto che sto completando un altro libro ove al centro di tutto sta il diritto di associazione). Ragion per cui – e concludo questo punto – il liberalismo è anche il fondamento etico-giuridico necessario e imprescindibile della democrazia. (Per citare ancora Sartori, 1957, p. 28: “A forza di dire soltanto, per brevità, democrazia… quel che resta innominato viene dimenticato, o, comunque, viene posposto e subordinato: finisce che la democrazia – vocabolo espresso – sta sopra. E che il liberalismo – vocabolo sottinteso – sta sotto. Il che è esattamente il contrario della verità”. In modo analogo – e per citare un altro insospettabile – si esprime Bobbio, Il futuro della democrazia, 1984, p. 6: perché si dia democrazia è necessario che siano prima garantiti “i cosiddetti diritti di libertà, di opinione, di espressione della propria opinione, di riunione, di associazione, etc, i diritti sulla base dei quali è nato lo stato liberale ed è stata costruita la dottrina dello stato di diritto in senso forte, cioè dello stato che non solo esercita il potere sub lege, ma lo esercita entro i limiti derivati dal riconoscimento costituzionale dei diritti cosiddetti inviolabili dell’individuo… Dal che segue che lo stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello stato democratico”).

In quinto luogo, non credo sia difficile ammettere che la pianificazione urbanistica tradizionale è stata spesso utilizzata per difendere proprio gli interessi immobiliari (non il ‘diritto generale a detenere proprietà privata’, ma ‘le proprietà specifiche di alcuni’). Certo, si può sostenere che questo è dipeso da politici e amministratori che sono colpevolmente venuti meno ai loro obblighi e da imprenditori dediti a pratiche fraudolente, ma penso sia lecito sollevare il dubbio che possano esserci stati dei problemi strutturali: la possibilità di differenziare le singole posizioni tramite zonizzazione di dettaglio, prevista e avvalorata dalla pianificazione urbanistica tradizionale, può ad esempio essere riconosciuta come responsabile principale del crearsi di pressioni e collusioni di vario genere. (Come scrive Nozick, Anarchia, stato e utopia, 1981, p. 288, “l’uso illegittimo di uno stato da parte d’interessi economici per scopi economici si basa su un preesistente potere illegittimo dello stato di arricchire alcune persone a spese di altre. Se si elimina quel potere illegittimo di dare vantaggi economici differenziali, si elimina o si riduce drasticamente il motivo per desiderare influenza politica”).

In sesto luogo, può darsi che i diritti previsti dalla tradizione liberale (anche nella forma aggiornata e integrata in cui la ripropongo) non siano sufficienti; questo è un punto d’attacco rilevante della tua critica (direi il più importante), solo vorrei sottolineare che estenderli non vuol dire riconoscere ‘diritti comuni’, vuol dire, semplicemente, riconoscere altri ‘diritti individuali’. Di fronte alla possibilità di allungare la lista dei diritti, è comunque sempre il caso di chiedersi se ne vale la pena (ossia, se nel farlo non stiamo per caso mettendo a rischio altri diritti cui maggiormente teniamo o dovremmo tenere) e se saremo in grado di ottemperare all’impegno (ogni volta che aggiungiamo ‘diritti positivi’ serviranno infatti risorse da impiegare in modo efficiente per garantirli effettivamente e non sarà sufficiente proclamarli). Hai comunque totalmente ragione ad invitare ad approfondimenti e discussioni su questo aspetto cruciale.

Un’ultima osservazione: ho visto che è apparso sul sito anche un lungo, interessante intervento critico di Camagni sul mio lavoro; pubblicherò una risposta estesa all’intervento di Camagni sulla rivista ‘Scienze Regionali’ (volta a mettere in luce, da un lato, come l’economia normativa mainstream si sia sviluppata in una prospettiva etica totalmente diversa da quella liberale classica – senza, apparentemente, accorgersene – e, dall’altro, come essa venga troppo spesso inopportunamente spacciata come un esercizio di puro ragionamento tecnico). Qui vorrei limitarmi ad osservare che, diversamente da quanto Camagni sostiene, non ho mai affermato che il liberalismo (in senso classico) sia incompatibile con la pianificazione: lo è se quest’ultima pretende di essere la forma di coordinazione principale delle attività private (come buona parte della tradizione urbanistica ha sempre richiesto); non lo è se diventa lo strumento di coordinazione esclusivamente di certe attività pubbliche (come io propongo). In termini generali, il punto centrale del mio libro non è un’idea idilliaca del mercato, ma una concezione realista delle istituzioni. A questo proposito, faccio mia questa osservazione di Caldwell, Hayek’s Challenge, 2004, p. 397, relativa alle ripetitive critiche rivolte alla prospettiva hayekiana e a quelle affini: “Hayek’s critics employ a strategy that is both familiar… and suspect. In economics, the strategy begins by assuming that Hayek was trying to prove that market always work efficiently… The critic then provides examples of cases in which markets fail to function properly. Hayek is, thus, supposedly refuted (and, in the process, revealed as an ideologue). This line of attack fails, however, because the initial premise is demonstrably false: Hayek never claimed optimality for markets… Hayek insights are more evident when one reads him as investigating alternative institutions rather than as constructing proofs of optimality. What are the alternative institutional forms that might be used in structuring society?”.

Grazie come sempre dello spazio, dell’attenzione e degli spunti critici su cui continuerò a riflettere, Stefano Moroni

Postilla

Caro Moroni, non ho tempo di formulare una replica più ampia alle tue note, e mi limito a un paio di battute. Mi sembra che le teorie che esponi non abbiano nessun riferimento concreto con la realtà nella quale viviamo. Il liberalismo attivo del quale discetti è molto molto più lontano da me, e dalla cocncretezza del mondo, di quanto non non lo siano i caciocavalli appesi con i quali Benedetto Croce illustrava alla sua cuoca le idee alloggiate nel platonico iperuranio. La tua riflessione teorica sul “liberalismo attivo”, dato il terreno delle azioni al quale vuole applicarsi, non mi sembra abbia molto senso se non si connette alla concretezza del mondo attuale, così come è stato formato anche da quel complesso di ideologie delle quali il liberalismo, con tutte le sue inflessioni e modulazioni (compresa quella minore di von Hayek) è stata parte egemonica. Ed è proprio su questo piano che la tua riflessione mi sembra fuorviante.

Ad esempio, dici:”la tradizione liberale a cui mi rifaccio non si disinteressa dei deboli: anzi, ritiene che i deboli sarebbero protetti meglio proprio entro un quadro liberale”. Ma il mondo che è stato foggiato e celebrato dalla “tradizione liberale” è un mondo del quale la povertà è un portato ineliminabile: ne è il necessario prodotto. Ha senso immaginarsi un “liberalismo attivo” caritatevole nei confronti della povertà, come del resto è stato il liberismo ottocentesco, se non ci si domanda quali sono i meccanismi del sistema economico-sociale che provocano, in tutto il mondo e perfino in Europa, la crescita della povertà?

E ha senso ragionare, in modo certamente raffinato e colto, sulla distinzione tra diritto basilare formale” e ” titolo giuridico sostantivo” in relazione alla proprietà, se si dimentica che in nessuna immaginabile situazione a tutti può ugualmente essere attribuito il “titolo giuridico sostantivo” della proprietà, cioè il concreto e “libero” possesso dei mezzi che garantiscano un adeguato livello di benessere e di felicità?

Ma io credo che la distanza massima tra noi è segnata dal diverso ruolo che attribuiamo ai “diritti comuni”. Per te sono semplicemente una espansione dei diritti individuali. Per me sono la garanzia che, tra i principi che regolano la vita dell’uomo e della società, esiste anche quello dell’eguaglianza, e che tra le prospettive assegnate alla nostra civiltà ci sia quella di non essere costituita da una massa di individui ma da una società.

Le osservazioni di Luigi Bobbio sono condivisibili nel metodo, e suscitano altre considerazioni, sul “caso” Castelfalfi e soprattutto sul suo costituire la base di un ragionamento assai più ampio. Prima di rispondere direttamente nel merito, alla domanda che Bobbio mi pone riguardo alle possibilità di una correzione procedurale, provo a fare una sintesi delle questioni che emergono.

1- Castelfalfi come molti altri luoghi del Paese, splendidi e appetibili, interessa evidentemente una comunità assai estesa. Per questo ci sono nel nostro ordinamento regole translocali che secondo il Codice del paesaggio occorre anteporre a scelte introverse, mediante i Piani paesaggistici e forme di controllo che garantiscano la tutela del territorio nell'interesse della comunità nazionale.

Per questo ogni progetto di trasformazione “casereccio”, in sintonia con le aspettative della gente del posto, è fuori luogo in senso letterale. Castelfalfi è un borgo che dista qualche chilometro dal nucleo Montaione, comune di appartenenza. Potrebbe trovarsi anche amministrato dal Comune di Gambassi, dal quale dista poco più, o di Certaldo. Direi che la popolazione della Val d’Elsa lo sente suo, ma penso di non sbagliare di molto affermando che appartiene almeno alla Toscana.

Fino quando la Sardegna ( esempio significativo di annose spoliazioni ) non si è dotata di un Piano paesaggistico degno di questo nome, c'era un sindaco di un comune costiero di un migliaio di abitanti che pensava di potere decidere il futuro delle “sue” coste, una quindicina di chilometri, con l’ approvazione dei suoi elettori (poco più di trecento).

2 - Si mena vanto per il procedimento utilizzato per Castelfalfi, per le carte in tavola a disposizione dei cittadini, per l'accesso agli atti ampiamente consentito (garantito per legge, però). Tutti fatti certamente apprezzabili, e l’esperimento è sicuramente utile pure a partire dagli errori. Ma credo che, data la dimensione dell'intervento e la necessità di variare il quadro delle previsioni sovraordinate, non ci fossero in realtà alternative alla strada intrapresa. Inverosimile e imprudente, converrà Bobbio, pensare di “nascondere le carte”, con una negoziazione dietro le quinte, ed ecco il fatto compiuto. Un modo di procedere a rischio di polemiche, anzi con la certezza di suscitarne molte, di polemiche, che come si è visto a Monticchiello non agevolano, anche se a sollevarle sono conventicole di intellettuali.

3- Continuo a pensare che sia scelto di allestire un processo con un pregiudizio ben saldo: la convenienza della proposta Tui, proteggendola e con essa il pregiudizio, trascurando ad esempio di comunicare tutti i dati numerici del progetto, omessi o camuffati nel fascicolo (con gli acquerelli- nostalgia, molto accattivanti quanto poco esplicativi).

Così una presentazione “neutra” rischia di trasformarsi in un'opera di persuasione sulla giustezza e convenienza di un brutto programma, già legittimamente sottoposto a trattamenti di cosmesi dal linguaggio accorto dei proponenti.

D'altra parte, nota Alberto Magnaghi, le platee sono in generale bendisposte ad accettare interventi anche vandalici di modernizzazione, quando declinati secondo modelli cari ai consumatori globali che plaudono ai villaggi Robinson, come agli ipermercati, che accolgono con compiacimento un po’ masochista la pubblicità ingannevole. Difficile che colgano sconvenienze neppur tanto occulte, nell’orizzonte di un paesaggio sciupato per sempre: se nessuno glie lo spiega. Più facilmente colgono al volo i vantaggi in termini di flussi turistici, “ perchè ci sarà pure chi arriverà fino a Montaione a prendere un caffè, a Ferragosto” .

4- C'è l’altro modello, alternativo, colpevolmente oscurato , che mostrerebbe gli svantaggi del progetto Tui. Nessuno si è fatto carico di indicarlo l' altro orizzonte, quello dello sviluppo durevole.

In continuità con quell’eredità splendida che la Toscana si ritrova, grazie alla cura dei luoghi, continuamente e esemplarmente praticata e teorizzata con sapienza (dagli affreschi di Ambrogio Lorenzetti fino alle lezioni di Edoardo Detti). Non lo ha fatto il Garante, il quale ha agito nella condizione data – si è detto –, lasciando così in campo la sola prospettiva indicata da Tui, “migliorabile” per sottrazione di volumi a richiesta del popolo sovrano. L'ho vista decine di volte messa in pratica questa tattica: si avanza una proposta esagerata e poi si dimezzano le misure. Come in ogni contrattazione, la quantità di cui alla resa potrebbe essere stata abilmente programmata. Si chiede cento per avere cinquanta ( ma cinquanta o trenta potrebbe essere molto).

5 - Ma ecco la domanda di Bobbio: si è in tempo a correggere il tiro ? Per quello che ne so il processo ha già sortito gli effetti del gradimento del progetto, appunto da parte della platea assai ristretta, e parzialmente informata, a cui è stato proposto. Ma si potrebbe provare e quantomeno servirebbe:

a) un’ammissione sull’ insufficienza del consenso registrato, accogliendo l’idea di non stare confinati nella discussione entro limiti amministrativi ( nel teatro S. Ammirato di Montatone);

b) ampliare subito la platea includendo altri soggetti eccentrici, sguardi meno ravvicinati, spostando la discussione su tavoli meno addomesticati, così da inquadrare il caso nella più generale necessità di tutelare tanti luoghi come Castelfalfi;

c) bilanciare la presentazione dell’impresa con una “relazione d’accusa” di pari rango, redatta con un po’ di scienza, che indichi le alternative e offra soprattutto le vere dimensioni dell’intervento e degli impatti;

d) l’assicurazione da parte delle autorità regionali che si sta in un quadro di compatibilità, perché il caso non costituisca l’ eccezione, il precedente su cui fare leva (e ogni fattoria della Toscana, grande o piccola, vanti il diritto di accrescere la dotazione di volume di cui dispone per finalità agricole).

Non è molto. Pare troppo?

Anzitutto esprimo il mio apprezzamento per il prezioso servizio svolto da eddyburg, che costituisce per me una fonte quotidiana d’informazione. Mi impegnerò tra l’altro a svolgere un ruolo attivo sulla recente proposta di vertenza per la difesa e valorizzazione dello spazio pubblico, irrinunciabile conquista della disciplina urbanistica e più in generale della democrazia, che è senza alcun dubbio minacciato da una pericolosa tendenza alla privatizzazione del territorio. Habermas, Baumann ed altri studiosi della modernità illustrano come la tendenza alla privatizzazione dello spazio pubblico riguardi ahimè non solo la gestione del territorio ma ogni campo d’azione sensibile per la democrazia come l’informazione, la cultura ecc..Credo che questa battaglia sia di portata epocale e per condurla con qualche speranza di successo si dovrà uscire dagli ambiti strettamente disciplinari e trovare alleati su diversi fronti. Nello specifico disciplinare l’impegno sarà quello di ripristinare un equilibrato rapporto tra investimento privato e investimento in opere pubbliche finanziate con gli oneri di urbanizzazione.

Ma vengo all’argomento che mi ha spinto ad intervenire: Castelfalfi. Ho letto con molto interesse non solo le posizioni illustrate nella cartella appositamente aperta da eddyburg ma anche l’esauriente documentazione inserita nel sito del Garante della comunicazione incaricato di istruire la” pratica partecipativa “. Mi sono occupato per molti anni di progettazione partecipata per il Comune di Roma. Negli ultimi dieci, in qualità di dirigente di un ufficio che si chiama “sviluppo locale ecosostenibile partecipato”, ho maturato esperienza sulle pratiche partecipative ed ho fatto parte del gruppo di lavoro che sotto la guida di Luigi Bobbio ha curato il testo A più voci edito dal Ministero della Funzione pubblica. Questa premessa è necessaria per spiegare (o giustificare?) un mio punto di vista che, malgrado io non svolga più le funzioni di cui sopra , non riesce a spogliarsi ancora del ruolo istituzionale già svolto.

Comprendo una preoccupazione di fondo che turba Salzano, Magnaghi, il WWF, Italia nostra, Legambiente ed altri intervenuti : Castelfalfi è un “tassello del meraviglioso mosaico del paesaggio italiano”( Salzano); un intervento che modifichi alcuni aspetti costitutivi delle colline toscane può rappresentare un pericoloso precedente per spregiudicati investitori pronti allo scempio dell’intero patrimonio paesaggistico della Toscana (vedi la storia di Montichiello). E, in modo più o meno velato, emerge la preoccupazione che il particolare impegno posto dalla Giunta Regionale sulla vicenda Castelfalfi con la predisposizione di un articolato piano di consultazione e l’istituzione di un Garante, che ricalcano le linee della legge regionale sulla partecipazione, approvata da pochi giorni, non derivino solo dalla risonanza anche internazionale suscitata dal caso ma siano un modo surrettizio per entrare nella cittadella delle tutele paesaggistiche usando la partecipazione come cavallo di Troia. Che la partecipazione sia una bandiera talvolta sventolata dal nemico non ho dubbi, che ci siano usi strumentali ne ho alcune prove, che a volte sia confusa ed affrettata ne sono testimone e artefice anche per le scarse risorse di cui disponevo, ma il tema di fondo è: vogliamo o no che si svolgano processi partecipativi? E se si, come si dovrebbero svolgere?

Salzano mostra sfiducia in un processo che consegna le decisioni alla sola comunità di Montaione. Denuncia la mancanza di rappresentanti di comunità più vaste e auspica una partecipazione allargata ai cittadini della Regione su su fino all’Europa per sottolineare la responsabilità collettiva di patrimoni materiali e morali di questa portata. Pone sicuramente un problema serio per la conduzione di processi partecipativi: qual è la comunità di riferimento? Non vi è dubbio che la comunità che decide è quella a cui la legge assegna questo compito,ovvero il Consiglio Comunale di Montaioni previo parere positivo di tutti gli organi sovraordinati e secondo le linee del Piano strutturale adottato e del PIT. La comunità che viene consultata ( sottolineo la differenza tra decisione e consultazione) può e deve essere più vasta in modo da avere il maggior numero di pareri, non escluso quello delle Nazioni Unite . Può sembrare una battuta paradossale, ma voglio ricordare l’utile servizio alla tutela svolto dall’Unesco con il riconoscimento di alcuni luoghi come Patrimonio dell’Umanità. Il processo avviato è di consultazione e può essere ancora esteso ad altri soggetti . Spetta alla sensibilità e all’intelligenza politica del Consiglio Comunale di Montaioni prendere una decisione, la migliore possibile dati i presupposti di base e l’avvenuta consultazione . La politica è l’arte del possibile. Ad ora non può essere altrimenti salvo programmare per il futuro un Piano strutturale intercomunale che indichi le linee di sviluppo di un’area vasta .

La comunità di Montaioni ha cultura e sensibilità sufficiente per comprendere il tesoro di cui dispone, il danno che arrecherebbe all’intera comunità regionale ed europea, e alle generazioni future, in caso di scelta sbagliata? Qui il discorso si fa più complesso e la posizione di Salzano, di Magnaghi ed altri è di sfiducia. Personalmente, ricordando uno slogan maoista, ho più fiducia nelle masse. Come ho potuto verificare in altre circostanze analoghe di confronto con le comunità locali, i numerosi interventi dei cittadini di Montaioni dimostrano sensibilità e conoscenza profonda in merito ai temi della tutela del paesaggio, delle risorse idriche, energetiche, produttive. Se il processo di partecipazione è ben condotto emerge, anche nelle comunità più piccole che con supponenza crediamo non sappiano vedere al di là del loro naso, sensibilità ambientale, difesa dei valori di conservazione laddove costituiscono un patrimonio inalienabile della comunità, consapevolezza delle conseguenze immediate e future delle scelte. Per i progettisti della TUI che dovranno ricalibrare il progetto e per il Consiglio comunale che dovrà decidere, le informazioni emerse dal dibattito pubblico sono molto preziose: se progetto si farà sarà sicuramente migliore di quello presentato. Magnaghi rivendica la scelta di essere “urbanista di parte” e di voler svolgere un ruolo pedagogico per far emergere dalla comunità i valori più autentici dell’autosostenibilità che la privatizzazione e il consumismo impediscono di cogliere. Il dibattito pubblico gli ha consentito di svolgere la sua funzione pedagogica e se quanto ha seminato non ha portato, a suo parere, un buon raccolto, a differenza delle altre situazioni virtuose che cita, ciò è dovuto anche alla elevata posta in gioco. Quando una comunità teme, in una situazione economica complessa e precaria come quella imposta dai processi di globalizzazione, di perdere un’ importante occasione per lo sviluppo rappresentata da un forte investimento privato, non è facile il compito del pedagogo. In uno splendido film di Lars Von Trier, “Dogville” , è rappresentata con rara efficacia la dinamica di una piccola comunità , nella quale il pedagogo è travolto dai fatti, incapace di mediare tra un evento esterno di forte impatto e i sentimenti e istinti più profondi della comunità.

Il punto cruciale della vicenda quindi è il rapporto tra tutela dei valori storici e culturali del territorio e sviluppo economico. E’ rarissimo il caso in cui tutela e sviluppo si sposino felicemente senza prima una serie di litigi. Anzi il più delle volte i litigi sono talmente forti che il matrimonio non si fa. Ma la situazione di Castelfalfi è simile a quella nella quale si trovano centinaia di comunità locali che devono misurarsi con l’intervento privato che da parecchio tempo ha assunto la forma del project financing o del programma complesso o del progetto urbano, in deroga a tutte le forme tradizionali di pianificazione, che per Salzano sono una vera jattura . Si può tornare indietro? Lo vedo molto difficile. D’altra parte le risorse economiche non vanno dove vogliamo noi ma dove trovano convenienza. E’ una legge inesorabile del capitalismo, che ci piaccia o no è il sistema dentro cui operiamo. Che l’economia trovi molto redditizi gli investimenti sulla rendita non ci sono dubbi; che la politica mostri un’ eccessiva subalternità all’economia non ci sono dubbi; che la politica, solo grazie ad esortazioni morali, riprenda il comando sull’economia è assai improbabile. Credo che, volenti o nolenti, è finita una fase dell’urbanistica e se ne sia aperta un’altra, irta di rischi, per la quale non sono stati ancora predisposti tutti gli strumenti di regolamentazione. L’interessante saggio di Camagni dal titolo “il finanziamento della città pubblica”(pubblicato da Eddyburg) mette in risalto la differenza tra il poco che è entrato nelle casse del Comune di Milano nel calcolo degli oneri versati da un investitore privato rispetto alla situazione di Monaco di Baviera dove l’Amministrazione può ottenere fino ai 2/3 dell’incremento di valore derivato dall’investimento. So di casi di Roma e di altre città in cui si è operato con analoga sciatteria o colpevole omissione a danno del pubblico interesse. Regolare queste operazioni con un onesto e responsabile expertise sarà un aspetto determinante per tutelare il bene comune nell’ambito dell’urbanistica contrattata.

Tra i tanti strumenti necessari per regolare la nuova fase c’è anche la partecipazione. Solo una forte partecipazione informata che obblighi il capitale privato ad una negoziazione ad armi pari, per quanto possibile, può riorientare la politica verso una minore subalternità al potere finanziario. Solo la diffusione di nuove forme di democrazia che Attali ,nel suo azzardato saggio futurologico “breve storia del futuro”, chiama “ iperdemocrazia” può contrastare la tendenza dominante che lui chiama “iperimpero del denaro”.

Per tornare a Castelfalfi ritengo, sulla base della mia esperienza, con i limiti di una conoscenza indiretta , che il processo sia stato fin qui ben condotto, che la figura di un Garante esterno,come stabilito dalla legge regionale, sia determinante, per quanto formale (nella partecipazione la forma conta), che i cittadini e le associazioni intervenute abbiano dimostrato una notevole competenza e maturità, che la TUI ha dimostrato una rara disponibilità a mettere tutte le carte sul tavolo, non escluso il piano finanziario ( vedi Camagni). Magari fossero tutti così gli investitori, di solito neanche si presentano nel dibattito pubblico certi come sono degli accordi stipulati nelle segrete stanze! Tuttavia penso che il processo di partecipazione non possa considerarsi concluso: dai resoconti escono fuori molte posizioni,ovviamente non concilianti tra loro, che per essere portate a sintesi hanno bisogno di molto lavoro progettuale. Tutte le posizioni dovrebbero essere riassunte in alcuni scenari di maggiore o minore impatto ambientale ove ci siano indicatori che misurano l’impatto ( aria, acqua, energia, occupazione, eredità storico- culturale, ecc.). E’ peraltro quanto suggerisce la direttiva europea per piani e programmi di rilevante impatto ambientale che si traduce nella strumentazione della VAS ( Valutazione Ambientale Strategica). Sarà la comunità, la più vasta, ad esprimere un orientamento motivato sulla predilezione di questo o quello scenario con la consapevolezza che tale orientamento costituisce non la decisione ma un fondamentale contributo alla decisione, che spetta unicamente agli organismi preposti, i quali si giocano la credibilità politica sulla serietà, intelligenza e lungimiranza della scelta.

Infine per quanto riguarda lo spazio pubblico aderisco alla vertenza con la convinzione che sicuramente la prima cosa da fare sia una battaglia politica per abolire la norma della Finanziaria che obbliga i Comuni a cercare i soldi per le spese correnti nella svendita del territorio (anche se con l’aria che tira non si sa chi saranno gli interlocutori). Ma la principale strada da percorrere sarà il monitoraggio ed il sostegno alle migliaia di vertenze che piccole e grandi comunità locali, anche quelle che si suppongono limitate culturalmente, hanno aperto con le Autorità locali per la difesa e la valorizzazione di spazi pubblici degradati o minacciati di scomparire per l’assalto del capitale privato al territorio. Come in tutte le vertenze è auspicabile che si possano tutte concludere con un accordo, nel quale si ottenga il massimo, dati i rapporti di forza esistenti.

La Partecipazione è destinata a diventare, nei prossimi tempi, forse la questione centrale della vita stessa dei Comitati, e anche delle politiche regionali secondo il Presidente Martini, (le due cose sono strettamente legate), rischiando peraltro di diventare un termine equivoco e generico, tirato da tutte le parti, peggio della sostenibilità. Tenendo presente questa situazione, colgo l’occasione di due recenti avvenimenti, per dare un contributo alla discussione su questa questione per noi vitale.

Sul dibattito pubblico di Castelfalfi.

Non avendo potuto partecipare direttamente al dibattito che si svolgeva nei fine settimana (poiché ero impegnato in altra azione partecipativa, di “progetto partecipato” che si svolgeva anch’essa nei fine settimana), ho inviato all’ultimo momento una nota che proponeva la costruzione partecipata di un’alternativa a livello del comune, che benché giudicata fuori tema è stata ugualmente inserita nelle documentazione allegata, e mi è stato gentilmente trasmesso il testo della documento finale, per una sua valutazione. Mi riferisco pertanto a tale testo per le considerazioni che intendo svolgere.

Al di là delle modalità di svolgimento del dibattito, a cui non ho potuto partecipare, il punto critico che a mio avviso mette in discussione l’intera operazione è il passaggio dalla fase del dibattito vero e proprio, e conseguente raccolta e sintesi degli interventi (assai esauriente) a quella delle “Considerazione conclusive”. Qui si verifica l’errore epistemologico e democratico dal punto di vista partecipativo, perché le conclusioni le tira il garante, e non vengono prodotte partecipativamente.

In proposito occorre chiarire subito un possibile equivoco. Produrre le conclusioni in maniera partecipata non vuol dire “concludere con un voto, o con la manifestazione assembleare da imporre all’amministrazione” vuol dire anzi fornire all’amministrazione una valutazione condivisa, ovvero un’interpretazione non di un singolo ma di una comunità. Chi ha pratica di partecipazione attiva sa infatti che questo è il momento più ricco e stimolante, che può sortire un’unica valutazione condivisa, ma che può fornire legittimamente anche una o più “interpretazioni”, che potranno contribuire a prendere decisioni meditate da parte dell’Amministrazione.

Nel caso in questione risulta poi evidente che, se si confrontano le cronache delle 40 pagine di riunioni con le conclusioni finali, l’ottimistica conclusione che “il progetto TUI sia un’opportunità di riqualificazione territoriale che la comunità locale, nel suo insieme, apprezza e intende proseguire…” appare come una forzatura, e come una “interpretazione”, certo legittima ma, assai personale, che avrebbe tutt’altra validità se fosse emersa da una procedura partecipativa delle conclusioni stesse ma che invece appare del tutto di parte, espressa da un garante quantomeno “frettoloso”.

Infatti le numerose “obiezioni” sollevate nel dibattito avrebbero potuto avere legittimamente anche esiti del tutto diversi da quelli espressi dal garante. Infatti, stando alla cronaca stessa delle riunioni, tra i molti esiti possibili si sarebbero potute avere conclusioni che:

- avrebbero potuto porre questioni pregiudiziali, ovvero condizioni “sine qua non”, ed il loro cumulo avrebbe potuto portare anche ad una valutazione negativa, o quantomeno sospensiva, dell’intero progetto.

- avrebbero potuto esprimere una posizione di forte dubbio, tale da invocare il principio “di precauzione” mettendo in discussione proprio “la misura in cui si può”. Forse non è assolutamente certo che si possa. ed allora “non s’ ha da fare” ( nel dubbio astieniti, dicevano i Padri della Chiesa)

- Forse, e questo sarebbe stato il caso più interessante, dalle “obiezioni”, che in realtà non erano solo di negazione ma anche di proposizione e alternativa, si sarebbero potuti estrapolare numerosi temi programmatici e propositivi che avrebbero potuto portare a costruire delle alternative e delle opzioni diverse per il territorio.Questo importante spunto partecipativo è stato del tutto trascurato perché fuori dalle logiche di una partecipazione fortemente monodirezionale, rivolta esclusivamente alla ricerca del consenso o del contenimento del dissenso, e per così dire “bloccata” su rigide regole e su pregiudizi precostituiti.

In questo modo infatti si assiste ad un grave condizionamento nel quale tutte le obiezioni, assai ricche e articolate, sono state ridotte a “raccomandazioni”, filtrate dall’interpretazione del garante, delle quali il Comune potrà tenere conto o meno, se lo riterrà opportuno, e sostanzialmente senza alcuna garanzia di trasparenza. Esse sono state per così dire devitalizzate, perdendo sia tutta la loro capacità di segnalazione del pericolo, e perdendo altresì tutta la ricchezza della loro propositività a volte esplicita a volte nascosta ma comunque presente (risorse idriche, potenzialità agricola, valore architettonico, occupazione,turismo,…).

Questa impostazione edulcorata ha inoltre evitato una critica, che pure era apparsa, e cioè quella del danno che l’intervento, proprio in termini economici e di valore dei luoghi, certamente rischia di produrre sul territorio e nei confronti del paesaggio, danneggiando pesantemente tutti gli altri operatori economici, mentre la TUI può appropriarsi tranquillamente del valore paesistico, contemporaneamente impoverendo così pesantemente tutta la comunità e l’economia generale. Altro che creazione di vantaggi economici alla comunità di Montaione, interventi simili distruggono la ricchezza comune di un luogo e di una popolazione.

Per tutte queste ragioni, sarebbe stato opportuno che allora si andasse a fare il confronto su tutto il territorio comunale delle conseguenze che il progetto TUI può provocare agli altri operatori e a tutta la comunità, e predisporre viceversa un progetto alternativo , a scala comunale, di sviluppo equo e sostenibile. Ciò avrebbe consentito di andare quindi ad un confronto serrato tra i due progetti , un confronto effettuato con la partecipazione della popolazione.

Vi sarebbe potuta essere anche un’ulteriore occasione di sviluppo della partecipazione. Il secondo progetto si sarebbe anche potuto redigere esso stesso in maniera partecipata, proprio a partire dalle obiezioni stesse, ovvero dalle proposte emerse agli incontri (forse sarebbe ancora possibile?……). In tal modo si sarebbe potuto dare alla partecipazione tutto il suo valore, uscendo dal vicolo cieco della partecipazione regolamentata e limitata, per favorire lo sviluppo di una partecipazione legata alla propositività , verso forme di relazione tra “Amministrazionecomunale e Popolazione” più mature e più attive e praticate in modo non occasionale . Ma questo è anche un altro discorso, che affronteremo in altra occasione.

Qui si può concludere con la vicenda Castelfalfi dicendo che essa mostra tutti i limiti di un’idea di partecipazione molto angusta e controproducente, che penalizza gli apporti propositivi della popolazione, che viene schiacciata sulla ricerca di consenso o al massimo di raccolta di consigli e di raccomandazioni, (che spesso lasciano il tempo che trovano), un tipo di partecipazione defatigante e che alla lunga mortifica la popolazione.

Ciò si può evitare solo se si sviluppano ulteriori passaggi, che non possono essere ridotti al semplice monitoraggio delle azioni del privato e della Amministrazione. Tale monitoraggio, pur necessario, in realtà dovrebbe già essere obbligatorio. Ma ancor più dovrebbe essere obbligatoria la costruzione di alternative, urbanistiche e programmatiche, che qualunque valutazione strategica( o integrata che sia), dovrebbe comunque prevedere, senza delle quali la partecipazione è un bluff, anche quella, pur limitata, relativa alla discussione pubblica.

La Legge Regionale

La questione della Legge regionale sulla partecipazione è una questione, per molti di noi, molto contraddittoria e molto “sofferta”, e ciò per due ordini di considerazioni, una nei confronti della legge in quanto tale ed una nei confronti dell’uso che potrà esserne fatto (anche a partire dal caso Castelfalfi).

A molti di noi, fino dal suo apparire , l’idea che la Partecipazione dovesse essere fatta per legge, ci è sembrata una contraddizione in termini, e quest’ombra ci sembra che non sia stata fugata neppure dalla legge appena approvata. In ogni caso la legge toscana può essere letta come composta di due parti, quella sui principi, e quella sulle modalità di attuazione. Sono due parti molto diverse, anche se ovviamente tra loro intrecciate ( e non sempre in senso positivo).

La parte dei principi generali. E’ la parte più interessante, spesso potremmo dire “ispirata”, piena di valori e di indicazioni di alta qualità, e nella quale di massima, io ed altri, ci riconosciamo. Ma dobbiamo anche subito rilevarne un limite, quello per cui si ritiene che se la partecipazione diviene un articolato di legge, essa automaticamente , di per sé, già “esiste”. E ciò è palesemente un’illusione intellettuale. Una legge non è un manifesto culturale, ed anche i “manifesti” hanno ormai una grossa limitazione, una limitazione che si ritrova anche in questa legge, e cioè quella di fare riferimento e di fare parte di un pensiero “illuminista” che si risolve in se stesso .

Ora, invece, chi ha qualche esperienza di partecipazione sa bene che la partecipazione è un modo nuovo di pensare e un modo di essere profondamente diverso, lontano dall’illuminismo, e dal determinismo, è un modo - potremmo dire - ecologico (della natura e della mente), un modo in progress, un modo evolutivo, di ricerca/azione, di azione e riflessione, che matura e si evolve nel divenire del pensiero, della consapevolezza, della trasformazione condivisa. Ecco questo è proprio quello che non si ritrova nella legge, la quale è di fatto una struttura statica, concepita per stadi, tutta rivolta a dare norme e definizioni, e comunque tutta organizzata nei confronti di tre sole modalità partecipative,

-.quella nei confronti di progetti e di proposte già elaborate, semplicemente da valutare;

- quella della consultazione partecipativa nei confronti della presa delle decisioni da parte degli enti;

- quella della formazione di strumenti di legge che vengono resi obbligatori.

Inevitabilmente, una limitazione di campo così forte e così circoscritta non può che portare, nell’aspetto attuativo, come vedremo, a prescrizioni estremamente rigide. In effetti la legge non dice niente degli aspetti più vitali e più aperti della partecipazione, che in sintesi possono essere così indicati:

A)Le iniziative di partecipazione che nascono dal basso, “bottom up”, che vivono indipendentemente dal loro riconoscimento entro canoni precostituiti, estremamente vitali e significative,

B) La partecipazione legata alla dimensione della proposta e del progetto, la partecipazione creativa, che è la forma più entusiasmante della partecipazione stessa,

C) La partecipazione legata al “fare”, il fare partecipativo, le dinamiche dell’agire partecipato sul territorio e nella città.

E’ chiaro che queste forme della partecipazione difficilmente possono essere inserite in una legge, ma a questo punto non è chiaro se il non averle inserite sia in bene , perché così sono ancora “libere” di esprimersi e di evolvere progressivamente, o se viceversa il non trovarle elencate nella legge, vuol dire che sono misconosciute ed escluse dall’idea di partecipazione in quanto tale.

Ci potrebbe essere obbiettato che la legge non è statica e che sia nella sua formazione che nei suoi esiti sono previsti dei momenti di verifica e di sviluppo. In realtà è proprio la sua formazione che ci lascia perplessi con i suoi stadi precostituiti, ed in particolare con alcuni episodi estremamente discutibili quali l’episodio della assurda kermesse pseudo partecipativa di Carrara. Così come ci sembra “consolatorio”mettere un limite di verifica della legge a ben di quattro anni di distanza, senza monitoraggi frequenti e intermedi, una verifica che ci sembra obbiettivamente eccessivamente lontana e puramente formale.

Se la parte di legge riferita ai principi ci lascia molte perplessità, la parte riferita alle modalità di attuazione ci trova decisamente contrari. Molti sono gli aspetti che fanno di questa legge una vera e propria legge di censura, di controllo e di irreggimentazione della partecipazione. Segnaliamo gli aspetti più macroscopici.

- la figura del garante, che “giudica e manda secondo che avvinghia” e che è una sorta di plenipotenziario e di giudice della partecipazione . una figura la cui istituzione basterebbe da sola a negare ogni aspetto di trasparenza e addirittura di democrazia per tutta l’operazione legislativa adottata.

- i tempi straordinariamente stretti per ogni azione di verifica, entro i quali è quasi impossibile acquisire dati ed esprimere valutazioni circostanziate ( tanto che si ha il sospetto che si dovranno valutare proposte delle quali le decisioni sono già state prese e che non possono essere “intralciate” o rallentate). I tempi così stretti inoltre escludono in partenza la possibilità di crescita e di sviluppo di ogni forma di partecipazione di tipo evolutivo e di elaborazione di proposte di arricchimento delle tematiche in esame

- gli standard quantitativi e procedurali estremamente gravosi (p. es. numeri esosi delle soglie di raccolta firme) per le richieste di partecipazione indipendenti,

- la routine di procedure obbligatorie per legge sulla partecipazione territoriale che equipareranno la partecipazione agli standard urbanistici, banalizzando e sclerotizzando la partecipazione stessa a pratica burocratica precostituita, ovvero improvvisata, imitata, resa sterile e svuotata di significato.

L’uso che potrebbe essere fatto della legge

Le modalità di attuazione previste dalla legge, oltre ad essere già estremamente gravi di per sé, si prestano ovviamente ad una deriva repressiva e di normalizzazione nei confronti del fenomeno dei Comitati, che viceversa rappresenta una ricchezza della società civile della nostra e di altre regioni, una ricchezza straordinaria, sempre più evidente in questi ultimi tempi nei quali i nodi dell’amministrazione tradizionale della società e del territorio vengono al pettine. La possibilità è che invece una legge sulle regole della partecipazione si trasformi in una regola per estirpare la partecipazione attiva, dal basso, la partecipazione spontanea aggregata, quella capace di esiti creativi.Ebbene questa possibilità è stata annunciata ed è estremamente alta e incombente.

Che fare in questa situazione? Probabilmente - nel passaggio dalla Giunta al Consiglio- si potrebbe tentare di eliminare gli aspetti più platealmente “repressivi”. Si potrebbe ridurre ad un anno il periodo di verifica della legge .

Se la legge dovesse comunque diventare vigente, potremmo accettare di partecipare -nonostante tutto- alle fasi di attuazione della legge stessa, senza pregiudizi, ma anche non tacendo se non vi saranno le garanzie elementari, e potremmo partecipare a condizione che le fasi di prima applicazione vengano “partecipativamente e liberamente” monitorate e valutate.

Ma più che altro potremmo impegnarci proponendo ed invocando non una legge di regolazione della partecipazione bensì una legge di promozione della partecipazione, a cominciare dalla incentivazione e dalla diffusione delle condizioni per la partecipazione spontanea, quella promossa dai cittadini stessi. Si dovrebbe quindi attivare una legge che promuovesse la partecipazione e sostenesse le sperimentazioni nel corpo della società e sul territorio, dalle quali poi dovrebbero essere estrapolati progressivamente i criteri di comportamento e i nuovi valori condivisi. Questa riteniamo che dovrebbe essere la strada da intraprendere, riconvertendo – se fossimo ancora in tempo- la legge regionale, opportunamente e radicalmente modificata, verso un diverso esito, sperimentale, praticabile e condiviso.

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