Dei 100 e più nell’inchiesta Mose, che nel giugno 2014 portò a 35 arresti (tra cui quello dell’ex governatore Galan e del sindaco di Venezia Orsoni) solo 8 sono finiti a giudizio. La più grande inchiesta sulla corruzione in Italia, che ha portato alla luce un flusso di tangenti da 1 miliardo di euro, è soprattutto la storia di un “processo mancato”: la maggior parte degli indagati ha chiesto il patteggiamento poco dopo gli arresti, per evitare di sostenere il dibattimento. Giancarlo Galan ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi e una confisca da 2,6 milioni di euro, l’ex generale della Finanza Emilio Spaziante a 4 anni di carcere (più la confisca di 500 mila euro), l’ex presidente del magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta a 2 anni e una multa di 700 mila euro, l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso a 2 anni e sei mesi e una confisca di 2 milioni di euro. Hanno patteggiato gli imprenditori del Mose, gli ingegneri, i consulenti. Lo Stato in questo modo ha recuperato più di 44 milioni di euro.
il manifesto
La giustizia ordinaria sullo scandalo Mose sembra proprio incarnare il simbolico cieco equilibrio. Quattro condanne e altrettanti verdetti di assoluzione o prescrizione del reato. All’ex ministro Altero Mattioli inflitta una pena di 4 anni più la confisca di 9,5 milioni di euro e l’interdizione dai pubblici uffici per un lustro. L’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, invece, risulta innocente per il finanziamento «in bianco» e beneficia della prescrizione per i soldi «in nero».
Ieri, poco dopo le 18, il presidente del tribunale Stefano Manduzio (Fabio Moretti e Andrea Battistuzzi a latere) legge la sentenza che conclude un dibattimento lungo 16 mesi con 32 udienze (dopo le 11 preliminari) e un centinaio di testimoni. L’inchiesta sulla più grande opera della Repubblica – affidata in concessione unica al Consorzio Venezia Nuova – riempie oltre 70 mila pagine di faldoni. Ammontano già a 5,5 miliardi di euro i costi del sistema di dighe mobili nelle bocche di porto della laguna. Ma il «deus ex machina» del mega-progetto Giovanni Mazzacurati si è ritirato negli Usa; l’impresa Mantovani, presieduta dall’ex questore Carmine Damiano, ha appena minacciato 170 licenziamenti; la fine dei cantieri del Mose è già slittata al 2018 con almeno altri ulteriori tre anni di indispensabili collaudi.
Dal punto di vista giudiziario, erano usciti di scena 31 imputati che hanno patteggiato con la Procura. Su tutti spicca il nome di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e ministro dei beni culturali, costretto a liberare la prestigiosa villa Rodella sui Colli Euganei pagando anche 9 mila euro di danni provocati nel trasloco.
Ora la sentenza di primo grado, di fatto, chiude la vicenda perché i termini della prescrizione «ghigliottinano» il processo d’appello. Non si chiude però la partita dei risarcimenti con l’Avvocatura dello Stato che ha chiesto 8 milioni di euro. E soprattutto è acclarato che il mega-progetto del Mose abbia «fatturato» tangenti a beneficio di politici, funzionari, imprese, coop, professionisti e perfino fondazioni ecumeniche o premi culturali.
Nel dettaglio, la sentenza del tribunale di Venezia ha condannato alla stessa identica pena comminata a Matteoli anche Erasmo Cinque, imprenditore romano della Socostramo. Assolta l’ex presidente del Magistrato alle Acque, Maria Giovanna Piva per le imputazioni relative al collaudo, con la prescrizione per l’altra. Inflitti due anni e due mesi a Nicola Falconi, titolare della Sitmar di Venezia. Assolto l’architetto padovano Danilo Turato che aveva seguito la ristrutturazione della villa di Galan. Come Orsoni, nessuna sanzione penale anche per Amalia Sartori che ha prima presieduto il consiglio regionale e poi occupato un seggio all’Europarlamento. Un anno e dieci mesi all’avvocato romano Corrado Crialese, imputato di millantato credito.
Al termine della requisitoria, i pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini avevano sollecitato otto condanne: 6 anni richiesti per Matteoli, 2 anni e 3 mesi per Orsoni e Turato, 2 anni anche per la Sartori. Amara la dichiarazione dell’ex ministro e senatore dopo il verdetto: «Come ho avuto modo di confermare davanti al tribunale non sono un corrotto, mai ho ricevuto denaro né favorito alcuno. Non comprendo quindi questa sentenza verso la quale i miei avvocati ricorreranno in appello. Ho il dovere di credere ancora nella giustizia, nonostante la forte amarezza che patisco da quasi quattro anni» sostiene Matteoli.
L’Associazione Ambiente Venezia e il Comitato NoMose insistono a manifestare contro la «mafia di Venezia» con una lettura a 360 gradi: «Il Mose è la più grande opera di ingegneria ambientale al mondo, ma c’è stata qualche mela marcia: questa è stata la gestione politica, da parte del governo Renzi e poi Gentiloni, del più grande scandalo del secolo. L’inchiesta della Procura ha dimostrato l’esistenza di una vera e propria cupola, costituita da Mazzacurati e dai manager delle “grandi” imprese del Consorzio e delle “piccole” delle cooperative di tutti i colori, che si divideva lavori e dazioni da pagare a tecnici e politici più o meno eccellenti. Lo scopo non era ottenere appalti, visto la concessione unica sui lavori, ma far ottenere tutti i via libera ad un progetto sbagliato che prosciuga le risorse pubbliche».
Corriere del Veneto
PROCESSO MOSE
Nel caso qualcuno avesse rimosso o si fosse perso qualche puntata nel corso degli ultimi tre anni, stiamo parlando di una vicenda che è stata autorevolmente definita «il più grande scandalo europeo» per dimensioni finanziarie del malaffare, qualcosa come 8 miliardi di euro distribuiti da quel gigantesco collettore di fondi pubblici che è stato il Consorzio Venezia Nuova. Il quale aveva, per giunta, lo straordinario vantaggio competitivo di agire sotto lo scudo protettivo di una Legge Speciale. Perciò, ha ragione da vendere Massimo Cacciari – ex sindaco di Venezia, per la cronaca e per la storia l’unico in quel ruolo a dichiararsi apertamente contrario al Mose, mentre gli altri, magari con diverse sfumature, erano tutti a favore – quando afferma che la faccenda «non può essere ridotta a un processo al povero Giorgio Orsoni». E Orsoni, tra l’altro, se l’è pure cavata con un colpo di reni della prescrizione e un’assoluzione, per quanto l’amministrazione da lui guidata abbia pagato il prezzo politico più alto in questa storia, cadendo rovinosamente sotto i colpi dello scandalo e aprendo la strada della conquista di Venezia al sindaco fucsia Luigi Brugnaro.
Il processo
Non può essere ridotta a questo, innanzitutto, perché il processo che si è concluso con quattro sentenze di condanna e altrettante di assoluzione/prescrizione, era tutt’al più una riduzione in sedicesimo di quella che si usa definire come la «verità giudiziale», oltre che della mastodontica inchiesta penale da cui scaturirono, il 4 giugno di tre anni fa, i clamorosi provvedimenti di arresto per 35 persone, accusate a vario titolo di corruzione o finanziamento illecito ai partiti. Sulla scena giudiziaria, bisogna pur dirlo, erano rimasti davanti al Tribunale di Venezia alcuni personaggi di seconda fila del gigantesco affaire: un ex ministro della Repubblica non proprio tra i più in vista (Matteoli), un ex sindaco entrato e uscito dalla storia amministrativa di Venezia come una stella nelle notti d’agosto (il già citato Orsoni), un’ex potente eurodeputata in parabola politica discendente (Sartori), qualche imprenditore e professionista, un’ex funzionaria statale.
I pezzi grossi
I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede: o perché, pur essendo coinvolti dalla testa ai piedi nella vicenda, recitavano la parte dei grandi accusatori, oppure perché erano usciti anzitempo dagli impicci, scegliendo (o vedendosi costretti a scegliere, a seconda della diversa interpretazione) di scendere a patti con l’accusa.
Gli accusatori
Tra i primi, gli accusatori, si annovera il «grande distributore» Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, mai imputato, oggi incapace di stare in processo anche solo come testimone poiché affetto da una forma avanzata di demenza senile. Accanto a lui campeggia la figura di Piergiorgio Baita, già numero uno di Mantovani (la principale società tra quelle che componevano il Consorzio), il quale ha patteggiato 1 anno e 10 mesi per un reato minore (le false fatturazioni) e adesso gira il Veneto presentando il suo libro-verità «Corruzione. Un testimone racconta il malaffare» (si sottolinea la definizione «testimone»). E poi c’è donna Claudia, al secolo Minutillo, già inflessibile guardiana dell’agenda del governatore Giancarlo Galan, poi ascesa a manager dell’asfalto&cemento in Adria Infrastrutture: anche lei ha patteggiato una bazzecola per le fatture false. Sia Baita che Minutillo hanno ricevuto, nel cuore dell’estate, l’avviso di chiusura dell’indagine a loro carico per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, dato che se vi sono dei corrotti (o finanziati), a rigor di logica ci dovrebbero essere anche dei corruttori (o finanziatori). Per Baita, neanche a dirlo, si prospetta un altro bel patteggiamento, mentre Minutillo potrebbe giocarsi anche la chance delle chance, una tombale prescrizione.
I patteggiatori
Nella categoria patteggiatori, invece, rientrano i due personaggi che hanno dominato la scena politica del Veneto nei primi 15 anni della Seconda Repubblica (1995-2010): Giancarlo Galan, governatore e poi ministro (pena di 2 anni e 10 mesi, già scontati, e 2,6 milioni di multa) e Renato Chisso, l’uomo delle infrastrutture in Regione (2 anni, 6 mesi e 20 giorni, anch’egli tornato nel frattempo uomo libero). Entrambi, va sottolineato, hanno patteggiato senza mai cedere di un millimetro sull’ammissione di una qualche responsabilità personale: come ai tempi di Mani Pulite, si sono arresi all’idea di concordare una pena con l’accusa, hanno sempre detto, per evitare una prolungata detenzione in carcere.
Magistratura penale e contabile
La magistratura penale e quella contabile hanno chiesto loro una montagna di soldi a titolo di restituzione e risarcimento del danno (Galan ci ha rimesso l’aristocratica residenza di villa Rodella, confiscata all’uopo) ma tutti quei milioni rimangono uno dei misteri gloriosi di questa vicenda. Secondo l’accusa sarebbero stati imboscati da qualche parte all’estero (e finora mai trovati), mentre sul punto un combattivo Chisso è arrivato a sfidare la procura: «Li cerchino pure dove vogliono - ha dichiarato in una recentissima intervista -, hanno il mio permesso per fare qualsiasi accertamento: non troveranno nulla».
Galan e Chisso
In tanti, oltre a Galan e Chisso, hanno tagliato corto patteggiando. Tanto da far pensare a un’inchiesta sottratta, se non per alcune posizioni, alla sua conclusione naturale: un processo che accerti, nel contraddittorio delle parti, le responsabilità di ciascuno. «Ma la sostanza e il valore dell’inchiesta – aveva ribadito all’apertura del dibattimento il procuratore Carlo Nordio, prima di lasciare la magistratura per malaccetto pensionamento – non cambiano, visti i ruoli di molte persone che vi sono entrate. La situazione di compromesso dettata dal ricorso al patteggiamento ha portato al recupero di denaro a favore dello Stato». Come dire: sotto l’aspetto che per certi versi più conta, quello pratico-economico, l’inchiesta è andata dritta a bersaglio.
L’anomalia
Rimane un ultimo tema, fuori dalle questioni giudiziarie, rispetto al quale la vicenda Mose si è rivelata altamente illuminante. In un Paese come l’Italia, governato da un groviglio di leggi farraginose e dal potere di interdizione esercitato dai vari livelli della burocrazia, probabilmente non sarebbe mai stato possibile realizzare seguendo le vie ordinarie un’opera mastodontica come il sistema salva-Venezia. Per farlo, si è dovuti ricorrere a una procedura che costituisce un’anomalia assoluta e l’anomalia era finita talmente fuori controllo da permettere un dilagante malaffare molto ben mascherato. Per dirla ancora con Nordio: «Il Mose è il caso tipico e paradossale in cui chi ha avvelenato i pozzi aveva in mano anche l’antidoto».