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Lodo Meneghetti
MILANO ONALIM - La vita d’oggi in città
17 Marzo 2017
Lodovico (Lodo) Meneghetti
La città rovesciata, la città sottosopra. Avevamo creduto che l’amministrazione «arancione» gui­data da Giu­liano Pisapia avrebbe raffigurato un tipo nuovo di centrosinistra urbano ...

(segue)

La città rovesciata, la città sottosopra. Avevamo creduto che l’amministrazione «arancione» gui­data da Giu­liano Pisapia avrebbe raffigurato un tipo nuovo di centrosinistra urbano, risolutamente orientato a sinistra. Invece, l’abbiamo verificato ben prima della conclusione, esso fu apportatore di pensieri e pratiche che avrebbero potuto appartenere a un qualunque moderatismo senza punti socialdemocratici, attento alla do­manda dei dominatori della città: finanzieri, corporazioni commerciali, imprenditori e impresari edili, questa coppia soprattutto. Se c’è oggi una città esemplare della libertà edificatoria come una volta Roma, è Milano. Del resto, dispersa da trent’anni anche la me­moria della grande vitalità dovuta a una miriade di produzioni industriali e una dotazione terziaria in buona parte funzionale al sostegno delle produzioni, l’ascendenza della costituzione attuale sembra piuttosto quella delle tornate amministrative del centrodestra, con sindaci come Gabriele Al­bertini («governare la città è come amministrare un condominio») e Letizia Brichetto Moratti (ex ministro di università e ricerca scientifica - «meglio le scuole private della scuola pubblica di massa»).

Fu il primo, contraddicendo la dichiarazione minimalista, ad aprire le porte della città ad architetti internazio­nalisti, estranei alla storia e ai contesti urbani, per voler innalzare i tre (uno è in ritardo) balordi grattacieli di una City Life (la prima «Nuova Milano») sull’area dell’ex-Fiera, accompagnati o circondanti da impressionanti cataste di casamenti: quelli che un sagace collega ha paragonato alle non meno gigantesche e spaventevoli navi da crociera che ogni giorno infliggono incessanti vibrazioni al corpo di Venezia, scuotendolo e così av­vicinandolo al crollo finale. Un geniale foto­montaggio, un’immagine di quegli edifici milanesi come sorges­sero dall’acqua al fondo di una calle larga, denuncia la doppia orrendezza, di architettura terranea e navale-marinara, attestante la de­cadenza delle due città. Riguardo a Milano, demolisce l’artificio basato su due car­dini: il gradi­mento popolare delle forme edilizie balzane in sé oltre che prive di qualsiasi ordinamento urbani­stico; l’assordante coro assessorile intorno a una prodigiosa «attrattività» milanese. Similmente, di­svela il senso mortale della svendita di Venezia a un turismo contro-culturale dei 20 milioni di visi­tatori an­nui e della violenta trasformazione di edifici carichi di storia socioeconomica e di bellezza archi­tettonica in contenitori per consumi di una massa estranea alla città: guarda caso, mediante il compito as­segnato all’archi-star di turno, quasi per inviare un segnale di appartenenza ai confratelli infurianti sempre più a Milano nel tempo dei centrosinistra, il primo col sindaco proveniente da Sel, il suc­cessivo col novizio e invece gran marpione Giu­seppe Sala.

Ancora una volta in Italia, anche nella città che nel corso storico si è contraddistinta per conve­niente diver­sità (la capitale morale…), gli amministratori accettano e cavalcano con le molte entità interessate l’esclusiva riproduzione edilizia urbana la più smaccata, sprezzante i bisogni di proletari e piccolo borghesi, mobilitante incalcolabili capitali d’ogni provenienza, compresa quella mafiosa. E questo, ossia le più recenti “Nuove Mi­lano” del «Progetto Porta Nuova» (pro­prietà fon­diaria comprata da emirati e principati) i nostri lo vantano come autentica modernità pro­gressista, nuovista, solo perché espressa attraverso forme di corpi suscitanti le meraviglie dei compari e dei qualunque a causa del loro consistere: colossali come lo scimmione d’epoca so­verchiante omini e donnine, contorti come il discorso di un analfabeta, volgari come i loro gemelli qatarini, sauditi, kuala-lumpuresi…

Nella nostra città la mania di grattacielo il più alto impossibile imperversa nella mente (se è questa la sede…) di sindaci, assessori, funzionari municipali, di numerosi architetti, critici d’arte (Philippe Daverio), forse anche della casalinga di Voghera fosse venuta ad abitare qui. Sicché la previsione pertinente alla più vasta opera­zione fondiaria d’oggi a Milano, la riconversione dei sette scali ferro­viari, circa 1 milione e 300 mila mq, non lascia alcuna speranza alla moderazione di interventi uni­camente destinabili alla realizzazione di una col­lana di parchi (parchi veri, senza snaturamento at­traverso sospettabili «attrezzature») e, di edilizia, soltanto quanta ne occorra per risolvere la do­manda arretrata di alloggi popolari [1]. Invece l’accordo di programma fra FS e Comune di Milano si sta definendo lungo la linea del soddisfacimento di ingiuste pretese pecuniarie delle prime e di in­casso della porzione di speculazione privata che spetta al secondo. E come?

Immagi­niamo ogni scalo come un’aiuoletta coltivata a verdura o prato nel centro e circondata da una filza fit­tissima di paletti per l’avvinghio di altro cultivar. Ingrandiamo l’immagine di cento volte appor­tando i dovuti adatta­menti realistici e presenteremo il progetto per uno qualsiasi dei terreni-scali in causa (ma anche, notiamo, degli altri spazi destinati da Prg - Pgt a parco territoriale e grandi ser­vizi): come nell’aiuola, in mezzo il verde, poco alberato e fratturato dalle «attrezzature», lungo il pe­rimetro una schiera di grattacieli da 100 - 200 metri di altezza, magari «verdi» come usa adesso a causa di terrazzi ripieni di pianterelle e cespugli, forse anche di fagiolini o pomodori [2]. Può darsi che i cinque professionisti incaricati dall’assessore all’urbanistica (vio­lando la regola del concorso pub­blico) di proporre soluzioni di massima per lo sfrutta­mento intensivo delle aree sia diversa, ma lo sarà di poco giacché uno schema di questo tipo cir­cola da mesi e assicura formidabili cubature mediante l’inganno del «grande verde».

Mentre gli scali ferroviari perdono la vecchia funzione, non c’è milanese, residente o lavoratore pendolare, qualsiasi sia la sua appartenenza, che non spenda discorso per richiamare l’urgente necessità di creare un moderno sistema di trasporto metropolitano incentrato «sul ferro e non sulla gomma», ad ogni modo sul mezzo pubblico, specie linee tranviarie e autobus a bassa emissione di residui inquinanti della combustione. Questa dovrebbe essere, pare ovvio, la posizione del Comune e dell’Atm (Azienda tranviaria milanese). Al contrario costoro, quatti quatti, operano in stretta alleanza per obbiettivi retrogradi. Così, tre fra le principali ragioni concatenate che rendono difficile la vita cittadina, traffico automobilistico, inquinamento dell’aria, uso disagevole dei mezzi pubblici di­ventano simbolo di tradimento delle aspettative civili.

Vediamo. Hanno cominciato a gennaio con l’abolizione del servizio di dieci linee di bus notturni dal lunedì al giovedì e la domenica (salvata la movida di venerdì e sabato…). A metà febbraio è co­minciato l’inasprimento dei tagli anche nelle tre linee storiche della metropolitana (Rossa, Verde, Gialla): aumento degli intervalli fra i treni e restrizione dell’orario di punta. Dal 20 febbraio, poi, le lunghe attese domenicali dei passaggi in 17 li­nee di tram spingono i «clienti» a desistere… Infine, dal 26 febbraio il piano denominato dall’Atm «raziona­lizzazione» (l’utente esperto capisce subito cosa vuol dire), si apre in tutta la sua aziendale e comunale elo­quente espressività: venti linee gra­vemente amputate. Negate per sempre soluzioni intelligenti e molto utili, per prima quella, usuale nel passato, di percorsi tranviari da periferia a periferia passanti per il centro. Ora, linee troncate brutalmente hanno un ca­polinea presso piazza Duomo. Diventa normale la costrizione a im­piegare due mezzi anziché uno, moltiplicando la durata e la penosità dello spostamento, oppure a rinunciare o ricorrere all’automobile. Altri particolari pur interessanti li trascuriamo.

Complessivamente le decisioni cozzano pesantemente contro uno solido muro di contraddizioni. Sottrag­gono mezzi pubblici, aumentano le auto, l’aria pericolosamente inspirata satura di polveri sottili, Pm10, non demorde (l’altr’anno 85 giorni di forte superamento della soglia dei 50 mcg/mc – n.b. soglia troppo alta, e nessuna regola per Particulate Matter da 2,5, le micro-polveri terribili, per così dire). Tutto si tiene, basta os­servare gli investimenti: l’anno scorso il Comune non è stato capace di contrastare il governo che ha sot­tratto 12 milioni al trasporto pubblico; quest’anno se ne aggiunge­rebbero altri 11. Ascoltiamo consiglieri co­munali di partiti diversi: I° «Tagliare il trasporto pubblico mentre lo smog sale è da irresponsabili… ora si sta esagerando» (da Forza Italia). II° «Di­venta biz­zarro chiedere ai cittadini di lasciare a casa l'auto se non si potenziano i mezzi pubblici, anzi si ta­gliano» (dal presidente della Commissione mobilità, del Pd). III° «I tagli al trasporto pubblico dan­neggiano soprattutto chi vive in periferia e nei Comuni della cintura. Costringerli a spostarsi in auto significa condannare Milano al traffico e all'inquinamento» (da M5S).

Intanto altri motivi complicano la vita in città. La costruzione della linea 4 della Metropolitana (suc­cessiva alla quinta già in funzione) procede sconvolgendo in maniera incomprensibile il centro e grandi direttrici viarie ra­diali, residenziali commerciali e di penetrazione dall’hinterland o dalla tota­lità regionale. Nei cantieri estesi lungo i viali che ricordiamo alberati anche in tutto lo spazio interno (parterre) sembra che si voglia impedire la visione e il controllo degli accadimenti. Alti pannelloni di plastica dura e spessa connessi perfettamente fra essi e con la base diventano muraglie impenetrabili. Quale tecnica stanno impiegando le imprese, se questi larghi e lunghi viali completamente re­cinti sembrano richiedere lo scavo per intero della superficie? Perché non si sono scelte le tecno­logie che rendono il «tube» indipendente dai tracciati stradali? Troppo co­stoso? Lo sappiamo, non si è costruita la metropolitana in altri tempi, quelli giusti, per così dire. Come a Londra, a Parigi, a Mosca…Adesso gli enti pubblici locali non possono che affrontare gli alti costi per l’impiego delle tecniche più aggiornate agendo sugli equilibri di bilancio e soprattutto ottenendo maggiori fi­nanziamenti statali; debbono farlo, l’adeguamento alla riduzione non può diventare il sistema corrente.

Il sacrificio delle alberature per il Comune è scontato: quante saranno a fine lavori le piante ad alto fusto perdute se verso la fine di luglio gli abitanti di una sola parte di Viale Argonne denunciavano «l’inutile abbat­timento di 573 alberi, molti dei quali secolari»? E nel vasto spazio del viale proseguente verso il centro, con il corso Indipendenza e oltre? E dalla parte opposta della città il massacro di via Lorenteggio, dobbiamo darlo per accettato? [3]. Attenzione, qui non stiamo piangendo inutilmente la morte arborea che i nostri governanti considerano una pinzillacchera. Stiamo affermando che i loro errori o le loro pretese o le loro inadempienze nei confronti dello stato spingono verso il brutto il segno barometrico della qualità vitale milanese. Infatti ai lavori per la metropolitana si intersecano per durate incommensu­rabili la posa delle tubazioni e i relativi sbancamenti per il teleriscaldamento, nonché la sostituzione, qua e là, dappertutto all’improvviso, dei tubi metaniferi nelle vaste fosse. Da ultimo ma non il meno impor­tante: si è ritornati all’assurda costruzione di silo sotterranei in pieno centro, calamite che attirano quelle automobili a cui si vorrebbe impedire l’entrata. Que­sta volta si tocca il vertice della incon­gruenza con un grande garage in via Borgogna, vale a dire addosso a piazza San Babila (super-centro conosciuto da tutti), d’altronde quasi impossibile da percorrere fino a quando non sarà pronta la nuova stazione della metropolitana. Ah… dimenticavamo: i lavori per questa linea 4 e contorni dovrebbero terminare nel 2022 (annunci su diversi cartelloni). L’esperienza ci informa che signi­fica: non prima del 2024.

Osservazione conclusiva. La questione delle opere pubbliche urbane si deve porre dapprima come verifica del grado di necessità, poi immediatamente come dovere di pianificazione integrale e inte­grata: dei luoghi, dei momenti, delle durate, del livello di incidenza sul benessere e benestare dei cittadini, partendo quanto­meno dal rifiuto dell’affastellamento dei cantieri, insensato per defini­zione. Purtroppo l’attinente vocazione delle istituzioni pubbliche e delle aziende non rientra in alcun capitolo della presunta efficienza milanese, d’altronde sbandierata troppo spesso per non crederla un distintivo ammaccato, al più una medaglia di ver­meil.

[1] Cfr. L. Meneghetti, Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi», in eddyburg, 21 settembre 2016.
[2] «Babilonia del 2000. Coltivare sui terrazzi dei grattacieli zucchine, cavoli, fagiolini, cipolle, pomodori, pa­tate, mele, fragole, verdura e frutta da esibire come status symbol: è l’ultima follia miliardaria di New York, una moda che il New York Times ha definito “l’esclusiva fattoria dello zio Tobia”. Le cifre? Da vertigine, of course. 90 dollari per un pomodoro o una mela, 4.000 dollari al mese per il giardiniere, quasi un metro cubo d’acqua al giorno per l’innaffiamento. Questi orti che vanno trasformando New York in una sorta di Babilonia del 2000, sono curati come lussuosi salotti da specialisti del Landscape Design, ribattezzati dallo slang “i giardinieri dei piani alti”». In «Condé Nast Traveller», fascicolo monografico New York. New millennium city!, p. 137, siglato M. S. [Massimo Spampati].
[3] Non importa se i non milanesi non conoscono i luoghi citati. Basti ricordare che la struttura urbana è ra­diocentrica, cerchie attorno al nucleo storico e radiali. Strade e viali di penetrazione immaginabili possono essere riportati alla realtà di quelli nominati.

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