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Lodo Meneghetti
Dal Santa Chiara racconto milanese-veneziano
14 Settembre 2015
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre... (continua a leggere)

Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre... (continua a leggere)

Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre incorniciate, modanature della trabeazione o cornicione, linea di gronda netta indiscutibile conclusione dell’edificio contro il cielo, particolari di una rappresentazione unitaria severamente equilibrata – vedono ergersi là in alto un opaco volume come un camicione che nasconde un cantiere di lavori per sopralzare di un piano l’edificio. Non sanno, non sono informati di una nuova costruzione sulle loro teste. D’altronde sopralzi di ogni genere, e non di un solo piano, da quasi vent’anni stanno marchiando brutalmente la linea del cielo milanese.

Il rivolgimento, a cominciare dalla deregolazione voluta dalla legge regionale del 1996 per il «riutilizzo dei sottotetti» (veri e finti) e continuato attraverso ulteriori sfrenate liberalizzazioni allo scopo, mentivano, di contenere l’espansione edilizia (si vedrà come, quando l’edificazione delle «nuove Milano» ammucchierà metri cubi a milioni), non rispetta nulla della storica dote architettonica e urbana della città. Palazzi dell’Ottocento e del Novecento, intatti nella loro forma coerente, sono violentati due volte: la prima, nel «personale» valore architettonico; la seconda, nel loro contributo a costituire organiche cortine edilizie di altezza costante, in cui l’unità dei fondamentali urbanistici genera, attraverso uguaglianze e differenze di forma e stile, architettura di ordine superiore, che siamo soliti chiamare architettura urbana.
Incredibile: sopralzi sono concessi persino, giustificati con minimi visibili arretramenti, nei palazzi della più nota strada della città, via Dante, realizzata a metà dell’Ottocento secondo un piano urbanistico per una cortina prospettica inquadrante la visione centrale del Castello, e articolato in prescrizioni architettoniche vincolanti per ogni edificio da erigere su fondo di proprietà privata. Migliaia di progetti approdano a realizzazioni mostruose, giacché nessuno, né architetti, né critici, né comitati di quartiere, né generica opinione pubblica sembra disposto a discutere il problema dell’addizione di parti nuove in sopralzo su costruzioni d’epoca la cui bellezza è acquisita da tempo nel catalogo dei beni da conservare. Sembra che il caso appaia trascurabile, non rilevante dal punto di vista dell’estetica urbana perché l’accostamento avviene per così dire «in verticale».
Invece, quando avviene «in orizzontale» nuove dispute si aggiungono a quelle corse incessantemente nella storia dal dopoguerra, con qualche anticipazione degli anni Trenta. Così oggi balza in primo piano l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara a Venezia, con discussioni senza sbocchi in base al principio, falso nonché indice di asineria, «mi piace/non mi piace».
Intanto i nostri concittadini cominciano a preoccuparsi. Cosa copre il camicione? Lo sapranno presto, quando esso si affloscerà come un pallone bucato e loro guardando verso il cielo si sentiranno colpiti da una mazzata sulla testa e contro il petto (diranno dopo). Lassù, sopra il bel cornicione, appare «una cosa dall’altro mondo». Quasi tutti recepiscono subito: inconcepibile devastazione del volto della loro casa, come se questo non detenesse bei lineamenti e anche caratteri profondi durevoli nel passato e da tramandare integri al futuro. Perché abbiamo atteso la fine dei lavori e non ci siamo mossi prima? dicono alcuni. Allora scatta come una molla di ritorno e tutti decidono di invitare a valutare l’orrendo sopralzo l’assessore all’urbanistica e all’edilizia privata, insomma il potente personaggio da cui dipendono le concessioni a costruire (e gran parte delle scelte comunali riguardanti il destino del territorio di Milano e dintorni).
L’assessore viene, osserva come fosse estraneo alla vicenda del palazzo, e si esprime proprio secondo quel gioco duale tanto da sbalordire gli ospiti e chi propende a sopravvalutare la statura culturale dei nostri amministratori: può piacere o non piacere, è una questione di gusto; ossia: non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace. Tiè, direbbe il principe Antonio De Curtis.
Ecco servita la risoluzione del difficile problema, che infine dovrebbe allargarsi alla discussione su bellezza e bruttezza. A questo riguardo, soprintendenti, sindaci, assessori, eminenti istituzioni pubbliche e private si allineano nella lunga rassegna dei giudizi contrastanti. La scelta, in un senso o nell’opposto, appare quasi sempre stravagante, mai motivata in maniera convincente poiché mancante della doppia prerogativa: una multiforme preparazione che superi l’antagonismo o l’estraneità fra «le due culture», l’umanistica e la scientifica; una sensibilità acquisita attraverso l’esercizio, il movimento di tutti i sensi. Allora la scelta si configura liberamente nel rifiuto inoppugnabile dell’insulsaggine di «mi piace/non mi piace». Eppure ammissioni o negazioni anche inerenti a situazioni fortemente risonanti nella società civile accadono come fossero vincolate a questa alternativa. Perciò capita regolarmente che l’istituzione o il personaggio appaiano incoerenti e incomprensibili dinnanzi a circostanze simili o differenti.
Ritorniamo all’amata Venezia. Ora l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara, anzi l’intero edificio nuovo appiccicato al vecchio genera discussioni senza capo né coda. Ognuno dice la sua nel modo insensato. L’equivoco perdura. Non sembra nemmeno scontata la negazione della soluzione mimetica – fare architettura «in stile» (benché, visti certi esempi di arrogante disinteresse, succeda talvolta di rimpiangere le intelligenti falsificazioni…). Il linguaggio non può che rappresentare il nostro tempo. Ma non possiamo fissare le parole «giuste». A questa stregua s’impone la ragione della sensibilità che, in conclusione del procedimento descritto, approda a identificare i due campi estremi della realtà formale, quello della bellezza e quello della bruttezza, inframmezzati dal terreno accidentato dell’ambiguità e dell’inganno, o dell’illusione.
La completezza e ricchezza delle sensazioni significano preparazione a impiegare un superiore linguaggio contemporaneo dell’arte, dell’architettura, della musica e così via, tanto da permettere a chi lo possiede di avvicinarsi umilmente e benevolmente al «glorioso retaggio». Come possiamo spiegare tale sensibilità? Non possiamo; essa è un’attribuzione spontanea, intrinseca, sottratta a pressioni dall’esterno; imposta dalla dotazione sensoriale personale sorretta dalla conoscenza indipendente, cioè libera da schemi del tipo, come (discutibilmente) nella lingua, «vince l’uso vince la consuetudine». Ancora una volta dichiariamo di detestare lo slogan «è bello ciò che piace».
Non può che essere misero l’estratto apprezzabile dall’enorme massa di opere destinata a coinvolgere, anzi travolgere presente e passato nel tumultuoso processo finalizzato alla costruzione della bruttezza totale del mondo, quanto mai conveniente agli interessi delle classi dominanti. E’ contro questi che James Hillman, fautore della simbiosi fra psicologia ed ecologia, accusa che il Grande Represso di oggi è effettivamente la bellezza, soggiogata dalla bruttezza titanica, il Moloch che distrugge i luoghi storici e il paesaggio.

L’edificio aggiunto del Santa Chiara non può di certo esser compreso nell’estratto. Non basta rivendicare una pretesa semplicità delle forme, siglata anche da timoroso soprintendente: che invece si riduce a un infecondo malthusianismo traditore consapevole dell’umanitarismo dell’antenato. Né sarebbe valsa una via di mezzo, l’azione in quel terreno intermedio fra i due poli. Ce lo dimostrano certi dolorosi risultati in edificazioni importanti, ormai digeriti, se così posso dire, dalla città. Per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, l’hotel Bauer a San Moisè, la Cassa di risparmio in Campo Manin… Ma, allora (approssimativamente fino a cinquanta anni fa), la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva ancora perso per sempre la guerra contro i vandali. Il Moloch stava quatto nella tana sotto l’acqua in attesa delle occasioni per scatenarsi. Man mano arriveranno, ora sappiamo che non avranno mai fine.

Eppure, riguardo all’inserimento di nuove architetture entro un forte e fitto contesto storico, Venezia avrebbe potuto esibire la più straordinaria testimonianza di inclusione di un’opera moderna di immenso valore in un tratto della cortina lungo il Canale. Come altre volte, poiché la protesta urlata ci è rimasta in gola, ritorniamo al progetto di F. L. Wright per il Memoriale Masieri, un piccolo edificio commovente per l’evidente vocazione a collegarsi amorevolmente al vicinato in cortina (che del resto contiene forme di cinque o sei secoli saldate insieme dalla continuità e dalla specchiante partecipazione della strada d’acqua).
Le istituzioni locali e no, compresa la soprintendenza, con alla testa il municipio tenacemente caparbio nella negazione, accecate dal pregiudizio e dalla grettezza amministrativa, bocciano il progetto, quel meraviglioso saggio ispirato alla storia, alla natura, ai sentimenti artistici. Come se fosse un’offesa a un inesistente “stile” del Canale. L’architetto forse più grande del ventesimo secolo doveva subire l’ingiuria, lui custode del principio di bellezza più netto e risolutivo: l’artista vede più lontano e più chiaramente del suo popolo. Egli è l’unico a saper creare la bellezza.
È falso che il buonsenso sia peculiare dote di qualsiasi persona, che dunque sarebbe in grado di adottare le distinzioni giuste. Non possiamo calcolare l’esatta percentuale di responsabilità del popolo rispetto a quella di altri attori, sappiamo però che la distruzione della bellezza del nostro paese è avvenuta anche a causa dell’acquiescenza, spesso la spinta, delle popolazioni. Questo non significa che ogni cittadino non possa esprimere la sua opinione. I bravi milanesi che convocano l’assessore sono mossi da una visione secondo loro di impressionante bruttezza. La loro scelta è chiara. Purtroppo la realtà percepita e valutata è surclassata dalla presunzione del potente che ha scelto prima sulla base del più stolto criterio che si dia. A lui il sopralzo piace, da qui la decisione convalidante il reato già commesso di abuso e vessazione.

Riferimenti
Si veda in eddyburg di Lodo Menegnetti Pirani non docet, L’architettonica commedia di fine estate, L’opinione contraria, AIZENEV. La città rovesciata, Nnpp.

Lodo Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese 1, in «eddyburg» 10.12.2003. Idem 2,
24.06.2004. Poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg.
Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005.
Lodo Meneghetti, Anno 2000. La memoria la bellezza, in «il Grandevetro», XXXI, n. 80 (186), ottobre-dicembre 2007. Poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2008.
James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, Bergamo 1999.Milano, 13 settembre 2015
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