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Maurizio Ricci
Il futuro ha i capelli bianchi, i nonni cambieranno il mondo
28 Gennaio 2012
Cresce l’aspettativa di vita e si prospetta un grande cambiamento sociale, speriamo diverso da certe semplificazioni giornalistiche. La Repubblica, 28 gennaio 2012, con postilla. (f.b.)

A FIANCO della fontana, annegata nel verde, Mario danza leggero. Fa vorticare la corda sopra la testa e i piedi saltellano sapientemente a ritmo, sul largo tombino di cemento. È un esercizio da bambine di una volta e, per chi se lo ricorda, da sportivi anche più antichi. Diciamo anni ‘40, ‘50, Bartali, Tiberio Mitri. Mario lo ha imparato allora, da ragazzo. Perché Mario, che ansima appena nella sua tuta celeste, ha 82 anni. Altro che Balotelli, è lui SuperMario, il Mario nazionale, il simbolo dell’Italia che verrà. Benvenuti nel secolo dei nonni, anzi, dei bisnonni, gagliardi e vispi, destinati a soffocare, con la massa dei numeri, la sparuta pattuglia dei nipoti: nel 2030, dicono i demografi, in Italia ci saranno due anziani per ogni bambino. Già oggi, ha riferito ieri l’Istat, nel nostro paese, un uomo di 65 anni può ragionevolmente aspettarsi di vivere fino al compleanno numero 83 e una donna fino al traguardo degli 86. È una rivoluzione che non abbiamo ancora neanche cominciato a digerire.

Sono cinquant’anni che ci lamentiamo della carenza di asili-nido, ma la vera urgenza sono gli ospizi. Le scorte importanti in casa non sono i pannolini, ma i pannoloni. E la più cruciale emergenza edilizia è l’installazione a tappeto di ascensori. Nella storia dell’umanità, non è mai accaduto che la proporzione di persone sopra i 60 anni fosse superiore a una su venti. Adesso, siamo arrivati ad una su dieci. Nel 2050, secondo le previsioni dell’Onu, saranno una su cinque. Antonio Golini e Alessandro Rosina, che hanno curato un libro appena uscito, "Il secolo degli anziani", definiscono questo processo "inedito, incisivo, irreversibile". Non si è mai verificato, è destinato a sconvolgere politica, classi sociali, economia, consumi. E, visto che è il risultato di una vita più lunga e con meno figli, solo devastanti epidemie o catastrofi potrebbero rovesciarlo. Per una volta, l’Italia, uno dei paesi più vecchi e meno fecondi d’Occidente, è all’avanguardia: gli over 60 erano il 26 per cento della popolazione nel 2006, saranno il 41 per cento nel 2050.

Ci batte solo il Giappone. In generale, nei paesi ricchi gli ultrasessantenni passeranno da un quinto ad un terzo. Chi pensava che, con l’arrivo in pensione, la generazione dei baby boomers sfumasse quietamente sullo sfondo, si è sbagliato di grosso. Perché è statisticamente assai probabile che, in quel 41 per cento anziani italiani del 2050, i nati del dopoguerra siano ancora una bella fetta, vociante, imperiosa, pronta a piegare il mondo alle sue esigenze, come da sessant’anni a questa parte. Anziani, infatti, è un termine generico. Tutti ci siamo accorti che ci sono in giro meno bambini di una volta e che i ranghi della terza età sono sempre più nutriti. Ma non è quella la grande novità. La vera bomba sono quelli che Golini e Rosina chiamano, poco cerimoniosamente, i "grandi anziani". Cioè gli over 80, come SuperMario. Un secolo fa, una persona su dieci arrivava agli 80 anni. Oggi, succede a metà degli uomini e al 70 per cento delle donne. Di quel 41 per cento di popolazione anziana dell’Italia del 2050, più di un terzo sarà costituito da ultraottantenni.

In attesa che, oltre alla vita, si trovi il modo di prolungare anche la gioventù, questa falange di bisnonni - molti, necessariamente, un po’ acciaccati - sommergeranno il sistema sanitario, come è già avvenuto con quello pensionistico. Ma, accanto a questi impatti, molto dibattuti, ce ne sono più generali, più ampi, più sottili. Sulla politica, ad esempio. I futuri leader dovranno tener conto di questo zoccolo inamovibile di elettori, capaci, oltre a rivendicare le proprie esigenze, di continuare serenamente a rinfacciarsi, ad un secolo di distanza, le colpe di Stalin e quelle di Mussolini. Ma anche, in generale, sull’economia. L’Italia è sempre stata un paese di grande risparmio, ma i pensionati, di regola, risparmiano meno di quanto faccia chi ancora lavora. Consumano anche meno o, almeno, non le stesse cose. Le industrie dovranno tener conto di questi nuovi consumi. Preparatevi a vedere i baby boomers reclamare macchine più alte, in cui sia più facile infilarsi, autobus più bassi, in cui sia più facile salire, telefonini e computer con i tasti più grossi. Ma, in generale, in questo paese di vecchi, è una rivoluzione culturale quella che ci aspetta.

Sempre meno, scegliendo casa, ci preoccuperemo che disponga di un’ariosa stanza per i bambini. Il problema vero sarà la stanza per ospitare l’anziano genitore, se non tutt’e due. L’ospizio o la casa di riposo, infatti, dicono gli esperti, sono la soluzione sbagliata: un ghetto alienante, soprattutto per chi deve viverci a lungo. E, comunque, con un costo insopportabile: in America, calcolano che, ancor prima che negli ospizi arrivino milioni di baby boomers, l’assistenza nelle case di riposo costi 100 miliardi di dollari l’anno. Meglio, per la loro salute e il loro benessere, che gli anziani restino in casa. Anzi, che stiano nella loro casa. All’estero, spiega Giandomenico Amendola, si stanno creando costellazioni di città per anziani: dalla Florida all’Arizona, negli Stati Uniti, sulla costa mediterranea in Spagna e, in parte, in Francia. In Italia, non esistono simili spazi. La soluzione dovrà essere mantenere gli anziani nei palazzi e nei quartieri delle città in cui hanno sempre vissuto. Case, spesso, nei centri storici, vecchie, antiquate, con scale strette e ripide. La prima urgenza sociale sarà dotarle di ascensori, per non imprigionare gli anziani nei loro appartamenti.

Ma che appartamenti saranno? Qui c’è da rivedere, da zero, il concetto di smart home, la casa elettronica e intelligente. Anche qui, chi pensa alla casa intelligente come un posto in cui, con un telecomando programmatore in mano, senza muoversi dalla poltrona o anche da fuori, si accendono e spengono luci, si avvia il riscaldamento, si fa partire la lavatrice, si scongela la verdura per la cena è su una falsa pista. Tutti lussi superflui. Ciò che davvero occorre è una smart home (costo prevedibile 800-1.200 euro a vano) su misura dell’anziano. Dove il cuscino del letto reagisce alla pressione e, se l’anziano si alza per andare in bagno, automaticamente si accendono le luci fino in bagno e si spengono quando poggia di nuovo la testa sul cuscino. Naturalmente, se nel giro di 30 minuti non è uscito dal bagno, scatta l’allarme. Ma questo è solo l’abc. Si è già pensato a strumenti in grado di trasmettere automaticamente, in tempo reale, i dati sul ritmo cardiaco, sulla respirazione a squadre di controllo.

La casa-prototipo, studiata da alcune università americane prevede sensori sullo spazzolino da denti, sulle confezioni di medicinali, sui contenitori di cibo, per verificare che l’anziano si sia lavato i denti, abbia preso la medicina, abbia mangiato quanto occorre. Altri sensori ricostruiscono l’andatura o la postura in modo da segnalare, ai medici o ai parenti, sviluppi negativi. Nell’insieme, una casa che, magari, adesso, ci richiama, in modo inquietante, il Grande Fratello, ma che, forse, quando ci staremo dentro, ci farà pensare ad una Grande Mamma. Il paese dei nonni non è, però, una distesa di innumerevoli Titoni bavosi, consumati da una vecchiaia interminabile. Come mostra SuperMario, la vecchiaia è un concetto relativo. Golini e Rosina adottano un parametro un po’ macabro, ma efficace. Nel 1951, mediamente, una persona di 65 anni aveva davanti 13 anni di vita. Manteniamo quel differenziale di 13 anni. Il 65enne del 1951 equivale al 70enne del 1981, al 75enne del 2011, all’80enne del 2051. I dati di Golina e Rosina sono più datati rispetto agli ultimissimi dell’Istat e le proiezioni più ottimistiche. Ma il succo del ragionamento non cambia. Che vuol dire, infatti, questa scala? Che nel 2051, SuperMario, con i suoi 82 anni, avrebbe, in realtà, appena cominciato ad essere anziano.

I nonni, insomma, hanno un futuro. Verrebbe quasi da dire: sono il futuro. Perché, nel paese per vecchi che ci aspetta, il problema è capire quale futuro hanno, piuttosto, davanti i nipoti. Gli ultimi vent’anni hanno radicalmente rovesciato un vecchio cliché. Nel secolo scorso, il povero-tipo era la vecchina, confinata in una soffitta buia, umida e fredda, che tira avanti elemosinando minestre. Quella vecchina esiste ancora, ma il nuovo povero-tipo è completamente diverso: è giovane, istruito, precario, peggio per lui se con moglie e figlio. Se tira avanti è, probabilmente, perché la suddetta vecchina, nel frattempo, ha avuto la pensione. Questo rovesciamento di ruoli è un elemento centrale della società di oggi, dove l’inaridimento del welfare pubblico è stato reso possibile dal trasferimento dei compiti ad una sorta di welfare familiare, dove il giovane, disoccupato, resta a casa dei genitori fino a 40 anni e campa con la paghetta di papà e l’aiuto dei nonni.

Antonio Schizzerotto, Ugo Trivellato e Nicola Sartor provano, in un altro libro appena uscito, "Generazioni a confronto" a comparare la situazione dei giovani d’oggi con quella degli attuali nonni in marcia, ovvero chi era giovane nel dopoguerra e, poi, negli anni ‘60 e ‘80. Il quadro che ne risulta è quella di una desolata fine delle illusioni. I giovani di oggi sono i primi, da un secolo a questa parte, a sapere che non riusciranno a migliorare le posizioni occupazionali e sociali dei loro padri. È un amaro risveglio. Le riforme scolastiche della seconda metà del ‘900 li hanno resi più istruiti e meno diseguali, nelle opportunità di educazione, sia fra ricchi e poveri, sia fra uomini e donne. Ma quell’educazione è più scadente rispetto a quella dei giovani di una volta e, soprattutto, serve di meno sia a trovare un posto che un buon stipendio. Schizzerotto, Trivellato e Sartor disegnano una sorta di U rovesciata. I giovani del dopoguerra avevano a che fare con il lavoro nero. Quelli degli anni ‘60 e ‘80 hanno via via sempre più ottenuto un lavoro stabile e sicuro. I giovani attuali sono tornati a confrontarsi con il lavoro precario e occasionale.

Quei fortunati degli anni ‘60 e ‘80 sono i nonni in marcia di oggi, ma il dramma dei giovani non è semplicemente l’altra faccia dell’avanzata degli anziani. L’invecchiamento della società è un fenomeno di tutto l’Occidente. Ma, all’estero, spiegano gli autori di "Generazioni a confronto", i giovani hanno occupazioni meno precarie, a parità di istruzione hanno stipendi più alti e il welfare è pensato per proteggerli di più. Si può vivere con nonno, senza invidiarlo

postilla

Solo una breve nota su uno dei tanti aspetti toccati, con la prevedibile vena semplificatrice (in questo caso vagamente inquietante) dall’articolo. Quando tirando in ballo anche un noto esponente della sociologia urbana nazionale gli si fanno dire oggettive sciocchezze su un tema centrale come la struttura delle città future. Senza le quali città future, a ben vedere, anche le case che ci stano dentro, gli spazi per le attività, i servizi, i tempi della vita che dettano, hanno poco senso. Ma quali città future ci vengono ahimè prospettate dall’articolo? Quelle che in tempi che ritengo ormai superati anche dal “mercato” si sono realizzate nella fascia temperata degli Stati Uniti, e di cui la celebrata Seaside in Florida (che è dei primi anni ’90) costituisce sia il manifesto alternativo che l’inizio di un percorso opposto, nel segno dell’integrazione anziché delle segregazione. Di cosa ci parla invece il sociologo Amendola descrivendo concettualmente vetusti quanto inquietanti quartieri ad hoc per anziani? Semplicemente del sottoprodotto di un famigerato zoning rigidissimo (che tutti appunto considerano ormai improponibile) applicato automaticamente dal mercato perché favorito da leggi e norme. Mentre basta scorrere uno qualunque dei diffusissimi libretti, anche a carattere manualistico, prodotti negli ultimi vent’anni dalla cultura New Urbanism, per capire che la “comunità per anziani” era solo una variante del quartiere ghetto razziale, o della gated comunity per ricchi, o della città terziarizzata che al tramonto si trasforma per forza in un incubo. Però la colpa di questa superficialità giornalistica, diciamo potenzialmente pericolosa se qualche “intraprendente” locale si facesse strane idee, è anche nostra. Che non ci facciamo sentire a sufficienza, magari tutti presi a santificare il solito sacro santo centro storico, col vecchino arrancante verso l’estrema dimora. Ecco: se sparisce quell’idea di personaggio, dovrebbe diradarsi anche l’idea di ambiente che lo contiene. O no? (f.b.)

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