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Gian Antonio Sergio; Stella Rizzo
La città in briciole che ha paura di perdere identità
11 Settembre 2010
Terremoto all'Aquila
Nel passaggio del tempo e al confronto con l’esperienza della ricostruzione delle città del Friuli il caso dell’Abruzzo appare sempre più scandaloso. Corriere della Sera, 11 settembre 2010

«Ci hanno trattato come terremotati del Sud». Giusi Pitari, la docente anima del «popolo delle carriol e » , avverte che l e sue parole van capite bene. Che non c'è retropensiero razzista. Che lei semmai sta tutta dalla parte dei meridionali e che questa idea dei «terremotati del Sud», visti come una plebe da trattare come plebe, è nella testa di chi l'ha gestito, quest’anno e mezzo trascorso dalla notte in cui l'Appennino diede lo scrollone che devastò l'Aquila¸ straziò altri 56 comuni, uccise 308 persone.

«Presidente, grazie a lei siamo dei terremotati di lusso», disse colmo di stralunata riconoscenza uno degli sfollati a Silvio Berlusconi, in visita mesi fa al prefabbricato della «primaria» intitolata a Mariele Ventre, l’animatrice dello Zecchino d'oro. E come lui la pensano buona parte degli abitanti delle «case vere, belle, eterne» (parole del Cavaliere) tirate su a Bazzano in via Mia Martini e nelle altre 18 new town sparpagliate intorno al capoluogo. E in questi due giudizi opposti c’è la sintesi di come venga visto oggi il bilancio dell’operato del governo, della Regione, del Comune, della «macchina» dei soccorsi nel suo insieme.

Da una parte la venerazione per il Messia Azzurro di chi magari viveva in una casa di pietra «pittoresca» ma decrepita e si è ritrovato in un alloggio decente con una torta e lo spumante in frigorifero. Dall’altra l’insofferenza di quanti hanno trovato insopportabile essere trattati «come sudditi un po’ bambini invitati a "godersi il campeggio" e "divertirsi negli alberghi al mare" e magari "partire in crociera", come disse proprio Berlusconi in una conferenza stampa, mentre facevano tutto loro, a modo loro, per interessi loro».

Di qua quelli che mettono le lenzuola alle finestre con scritto «Silvio, fatti clonare per i nostri figli». Di là quelli che, riconosciuto il «miracolo» delle new town, fanno comunque notare come non solo «i prati verdi e fioriti con gli alberi d’alto fusto» si sono presto spelacchiati perché «erano stati messi giù in tutta fretta per le telecamere», ma forse sarebbe stato meglio restare un po’ di più «come i friulani» in strutture provvisorie pur di avviare subito la ricostruzione dell’Aquila e dei paesi «com’erano e dov’erano».

Cosa che avrebbe consentito anche di arginare l’assalto di quegli sciacalli immortalati dal dialogo infame intercettato la mattina del 6 aprile 2009 fra Pierfrancesco Gagliardi e suo cognato, il direttore dell’impresa «Opere pubbliche e ambiente», Francesco De Vito Piscicelli: «Qui bisogna partire subito in quarta. Non è che c’è un terremoto al giorno». «No, lo so». «Così per dire, per carità, poveracci». «Va buò, ciao». «O no?» «Eh certo, io ridevo stamattina alle tre e mezza dentro il letto». «Io pure. Va buò, ciao».

«La verità è che il terremoto è stato l’occasione colta al balzo per una speculazione su 200 ettari di terreni. A costo di assassinare la memoria, la dignità, la cultura di un popolo», accusa Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra che da mesi tempesta il governo denunciando «la mancanza d’un piano unitario di interventi sul centro storico dell’Aquila e della sua cintura di centri minori».

A dire il vero il Cavaliere, data la precedenza assoluta alla sistemazione nelle C.a.s.e. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili, ma potrebbero chiamarsi «Ghe-pensi-mi», tanto è riconoscibile la firma) una promessa l’aveva fatta. Questa: «Certo, per la ricostruzione di tutti gli edifici compresi anche quelli storici, ci vorranno degli anni ma l’impegno è quello di concludere tutto entro la legislatura». Non era successo anche in Friuli, del resto, che le chiese e palazzi storici erano stati tirati su «com’erano e dov’erano» solo dopo i primi interventi per l’emergenza, le fabbriche, le infrastrutture?

A parte i dubbi di oggi sulla durata della legislatura (settimane? mesi?) l’ottimismo berlusconiano, per realizzarsi, avrebbe bisogno davvero di un miracolo. Perché, spiega l’architetto Luciano Di Sopra che firmò il piano friulano, «è vero che a Osoppo, Gemona e Venzone la ricostruzione degli edifici storici distrutti cominciò tre anni dopo, ma i cantieri possono essere aperti solo alla fine di un percorso che deve iniziare molto prima. Deve avere leggi quadro, regolamenti, stime accuratissime dei danni, ripartizioni dei compiti, parametri, modelli, prezzari definiti… E più tardi si parte con questo lavoro, più tardi si aprono i cantieri. È come quando hai una macchina rotta: se la aggiusti subito è un conto, se la lasci ferma per anni diventa complicatissimo».

Certo, lassù in Friuli c’era una Regione a statuto speciale che aveva qualche agilità e potere in più. Che rivendicò subito la volontà di gestire tutto autonomamente. Qui è più complicato. Fatto sta che l’8 maggio 1976, trentacinque ore dopo il sisma, la Regione Friuli aveva già la sua prima legge. Qui, dopo la prontezza della risposta iniziale e l’intervento di una Protezione civile trasformata da Guido Bertolaso in una tambureggiante «macchina da guerra», c’è stato sotto questo profilo, dicono i critici, il vuoto.

La prova? L’accusa dice che è nelle date. Passano sei mesi dal terremoto prima che il 22 dicembre 2009 il governo decida di creare una Struttura di Missione per la ricostruzione, coordinata dal governatore di centrodestra Gianni Chiodi. Un altro perché questa struttura sia costituita materialmente il 2 febbraio 2010. E ancora sei perché arrivi il primo euro. Che appare solo il 10 agosto 2010, quando il Tesoro deposita 714 milioni sul conto speciale della Banca d’Italia. Esattamente 490 giorni dopo lo schianto.

La colpa? Un po’ di tutti. Del governo, ma certo anche delle autorità locali, Regione, Comune e Provincia, che non li hanno mai chiesti ufficialmente, dicono alla Protezione civile. L’unica cosa certa è che la ricostruzione, per tutto questo periodo, resta ferma. Mentre a L’Aquila il clima si fa incandescente. L’8 luglio, il giorno dopo le bastonate in piazza a Roma ai manifestanti aquilani, Berlusconi sbotta: «La ricostruzione spetta agli enti locali, al Comune e alla Regione. Il governo doveva dare i finanziamenti, cosa che è stata fatta».

Il problema è che l’Aquila ha un centro storico enorme. E un numero di edifici vincolati inferiore, in Italia, soltanto ad Arezzo. Bisogna camminarci, per le strade deserte, fra le macerie, le catene che tengono insieme gli edifici squarciati dalle crepe e i ponteggi luccicanti, per vedere come la ferita butti ancora sangue. C’erano 27 mila universitari, per metà fuorisede, tra queste strade piene di macerie. Sui muri dei viottoli morti leggi ancora graffiti pieni di vita: «Buongiorno principessa!», «Giulia è solo te ke voglio», «Amore 80 voglia di te!». Chissà dove sono finiti, i ragazzi che scrissero quelle frasi. Qui sono rimasti soltanto i fantasmi.

Intendiamoci, sarebbe indecoroso non riconoscere come 14.356 persone, stando agli ultimi dati (anche se molte sono ancora costrette a vivere negli alberghi o sistemazioni di fortuna) siano state sistemate a tempo di record nelle 19 aree del progetto C.a.s.e. Anche se sono legittime le perplessità sulla scelta di mettere in ogni abitazione tutto ma proprio tutto compresa la tivù ultrapiatta ma non una libreria. E lo è anche chiedersi se non sia stato un po’ costoso costruire quelle abitazioni a 2.700 euro al metro quadro contro una spesa media in zona di circa 900. Ma le case sono là.

Il dubbio che agita non solo Italia Nostra ma anche il sindaco o l’assessore (ed ex presidente provinciale) Stefania Pezzopane è semmai quello che forse il piano new town è stato «fin troppo» miracoloso. Come fosse una strategia edilizia già decisa per la prima occasione utile. Racconta il sindaco (e vicecommissario) Massimo Cialente: «La mattina dell’8 aprile Berlusconi scende dall’elicottero e ci dice: adesso costruiremo delle case sicure in una nuova città, una new town. Io scuotevo la testa, e chiedevo: ma le "nostre" case? Disse: hai coppie giovani, ci sono molti studenti, potrai metterci loro… In quel momento aveva in testa una sola new town. Voleva rifare l’Aquila da un’altra parte. Qualche giorno dopo Bertolaso mi confermò: Tremonti aveva trovato l’area. Quella del vecchio aeroporto».

L’incubo, dice la Pezzopane («e non chiesero niente a me che avevo le competenze urbanistiche») era quello «di finire come Gibellina», morta, abbandonata e trasferita altrove. Per di più in un terreno paludoso. Riprende il sindaco: «Ci opponemmo con tutte le forze. Riuscimmo a ottenere che invece si creassero "solo" nuovi insediamenti nelle aree degli altri comuni terremotati. Da medico, diciamo che invece di farci tagliare la gamba ce la siamo cavata con l’amputazione di un alluce. Dolorosa ma limitata».

Il lungo sonno dell’Aquila ferita sotto i detriti, ecco ciò che non fa dormire Antonio Perrotti, Giusi Pitari, Annalisa Taballione e gli animatori del comitato «3 e 32». Il difficile deve ancora cominciare. Lo dicono, paradossalmente, i tre monumenti (tre!) eretti in ricordo del terremoto assai prima che fossero rimosse le macerie che quel terremoto lo ricordano da sole. Lo dice la statua di Sallustio tra i tubi Innocenti di piazza Palazzo alla quale hanno messo in mano una pala: pensaci tu, se sei capace. Qui, per ora, nonostante gli appelli, le denunce, le manifestazioni, le assemblee dei cittadini (vietate nelle tendopoli, insieme con il caffè, gli alcolici e la Coca-Cola (!), perché «eccitanti») o le proposte avanzate dai giovani architetti e tecnici del Collettivo 99, c’è poco o niente.

Per ora ci si è limitati a suddividere il centro storico in «aggregati». Dove la ricostruzione dovrebbe esser gestita in modo consorziato dai condomini. Piccolo dettaglio: la legge prevede la copertura integrale dei danni subiti dall’«abitazione principale». E qui sorge il primo problema, perché l’Aquila è piena di seconde case. Di più: la natura di questa «copertura» non è chiara affatto. Sono stati chiesti pareri all’Avvocatura dello Stato e all’Authority dei lavori pubblici. Stessa risposta: per come è formulata la norma, trattasi di finanziamento statale. Come tale, può essere utilizzato solo facendo gare nazionali per importi oltre il milione e addirittura europee per quelli che passino i 4,9. Una follia. Tanto più che non c’è probabilmente edificio di grande pregio, diviso in sette o otto abitazioni, che non richieda somme simili.

A parte i tempi, ve l’immaginate un condominio bandire una gara internazionale, pubblicare l’avviso sulla Gazzetta ufficiale di Bruxelles, istituire una commissione per aprire le buste e affrontare gli inevitabili ricorsi? Un delirio. In plateale contraddizione, accusa il «popolo delle carriole», con quanto il Cavaliere aveva garantito l’8 agosto 2009 in conferenza stampa: «Chi vuole procedere alla ricostruzione in proprio si presenta alla banca, presenta il preventivo o la prima fattura dell’impresa cui ha affidato i lavori e riceve immediatamente senza alcuna altra pratica aggiuntiva i soldi necessari». Sì, magari! I privati che vogliono riparare le case meno danneggiate e classificate A e B, in realtà, devono avere (ovvio) l’approvazione del Comune. E sempre il Comune pagherà l’impresa, sulla base dello stato di avanzamento dei lavori.

E’ da febbraio, quando fu infine creato il commissariato alla ricostruzione, che il suo responsabile tecnico, Gaetano Fontana, ex direttore dell’Associazione costruttori, chiede sia risolto l’inghippo. Niente. Ora il governo si sarebbe deciso (il contributo statale andrebbe inteso come un «indennizzo», al riparo dalla procedura delle gare) a fare chiarezza. Con un’attesissima legge speciale magari con una tassa di scopo? Macché: con un emendamento al decreto Tirrenia! Direte: cosa c’entra la Tirrenia? Niente, appunto.

A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, dice il vecchio adagio. Sussurrano dunque i bene informati, fra cui politici con rilevanti responsabilità amministrative, che lo schema era già predisposto. Il centro storico dell’Aquila sarebbe stato ripartito in una ventina di zone, ognuna delle quali assegnata a un gruppo di imprese: ci avrebbero pensato loro a fare i progetti, farli approvare e ricostruire.

Fantasia? Guai se non fosse così. Intanto però la ricostruzione del capoluogo abruzzese ha gettato il mondo dei costruttori locali in uno stato di agitazione mai visto. Senza dire dei ripetuti allarmi sui rischi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Rischi denunciati ad esempio da «Libera» e dal giornale online www.site.it di Angelo Venti. Un esempio? La scoperta che una ditta impegnata nei puntellamenti, guidata da amministratori «padani» per non dar nell’occhio, aveva 13 dipendenti su 15 con precedenti di camorra.

Va da sé che in una situazione come questa, che richiederebbe un asse solidaristico «alla friulana», divampano polemiche feroci. Di qua, nei Comuni di centrosinistra, lamentano l’inerzia della Regione, che si sarebbe limitata ad assecondare il volere di Berlusconi rinunciando perfino a emanare una propria legge. Di là, alla Regione, si lagnano per l’inefficienza dei sindaci che pur avendo la delega alla ricostruzione non hanno manco provveduto (dicono loro che non è chiaro: chi paga?) a rimuovere le macerie. Sia chiaro: farebbe tremare i polsi anche a Churchill o a Napoleone la ricostruzione dell’Aquila. Ma colpisce il tempo necessario a definire una stima dei danni. Elemento decisivo, spiega Luciano Di Sopra, per pianificare la continuità finanziaria degli interventi. A maggio 2010 il Cavaliere parlò di 7-8 miliardi. Poi, guardando quanto si era speso per il terremoto di Umbria e Marche, ne sono stati aggiunti quattro o cinque. Finché Gaetano Fontana ha spedito un appunto a Chiodi. Con una cifra tanto dettagliata, per il capoluogo, da apparire surreale: 10 miliardi, 530 milioni, 449.727 euro e 50 centesimi. Per le sole chiese sarebbe necessario un miliardo e 300 milioni. Per i palazzi privati vincolati, un miliardo e 859 milioni. Per le case del centro storico, 2 miliardi e 224 milioni.

Poi, naturalmente, c’è il resto. Compresi gli altri 56 Comuni. Il conto finale, potete scommetterci, sarà astronomico. Per non parlare dei tempi.

Non che di soldi non ne siano arrivati. Anzi. L’emergenza ne ha fatti girare parecchi. Per l’esattezza, ben 2 miliardi e 196 milioni. Finiti anche nel centro storico aquilano. Sotto forma soprattutto di bulloni. L’operazione dei puntellamenti non è ancora conclusa (è all’80%) ma si sono spesi già 70 milioni in catene e ponteggi. Nuovi di zecca, molti firmati «Marcegaglia». Comprati sulla base dei prezziari ufficiali: 25 euro a snodo, compresi i tubi e la messa in opera.

Il nodo, scusate il gioco di parole, è proprio lo snodo. Lo vedi da alcuni dettagli. Come la messa in sicurezza di un portoncino in un palazzo davanti alla chiesa di S. Pietro. Dove di snodi, con la necessaria pazienza, se ne possono contare complessivamente 44. Per un totale, su quel solo portoncino, di 1.100 euro.

Più snodi ci sono, più il costo sale. In alcuni casi non si può farne a meno. In altri, a vedere l’ardimento di certi grovigli di tubi, ti vengono dei dubbi: mah... C’è un episodio che dice tutto. A Roio il padrone di una casa praticamente crollata e di nessun valore storico aveva deciso di darle due botte finali e ricostruirla. Niente da fare. All’arrivo con la ruspa, la sua casa la stavano ingabbiando in una selva di tubi: 80 mila euro. C’è poi da stupirsi se Cialente ha deciso di istituire una commissione per capire come sono stati spesi tutti quei quattrini?

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