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Eddytoriale 126 (5 settembre 2009)
5 Settembre 2009
Eddytoriali 2008-2009

Non so se tutti sanno che cos’è il demanio pubblico. È qualcosa che appartiene a tutti noi cittadini italiani. È stato formato con le tasse che noi, e i nostri padri e nonni, abbiamo pagato allo Stato. Una parte è costituita dagli immobili (terreno ed edifici) che appartenevano alla proprietà feudale degli stati preunitari, e quindi costituisce il patrimonio pubblico di base della nostra nazione. Il resto l’abbiamo proprio pagato noi, direttamente, con le nostre tasse.

Vi sembra giusto che questo patrimonio di tutti sia privatizzato? A me no. Così come non mi sembra giusto che sia venduto a privati il patrimonio degli Istituti delle case popolari, anziché essere dato in affitto alle famiglie più bisognose. La disponibilità di un patrimonio edilizio pubblico è essenziale. Ogni paese civile ne dispone in percentuale molto più elevate che in Italia: 34 % del totale delle abitazioni in Olanda, 20 % in Svezia, 15 % in Francia, meno del 5 % in Italia. Il dato è ancora più preoccupante in quanto in Italia è molto più bassa che negli altri paesi europei la percentuale di alloggi in affitto. Non riescono a trovare un’abitazione in affitto a prezzi decenti non solo quanti sono poveri (e i poveri, si sa, in Italia stanno aumentando), ma anche chi ha un normale reddito di lavoro e deve spostarsi dalla casa dei suoi genitori per trovare un’occupazione.

Ridurre il patrimonio abitativo pubblico, investire risorse per aumentare il peso delle abitazioni in proprietà rispetto a quelle in affitto, è una politica che accresce le diseguaglianze sociali e riduce la libertà di cercare occupazione là dove c’è. Obbliga chi ha un po’ di risparmi a investire nell’acquisto di una casa in proprietà, distraendo così il risparmio dagli impieghi produttivi e dai consumi, quindi indebolisce il sistema economico. È una politica reazionaria nel vero senso del termine: perché porta il nostro paese all’indietro nel tempo.

Del resto, come molti hanno osservato anche il “piano casa” di cui si sta dibattendo è un ritorno al passato. Affidare la ripresa economica allo sviluppo dell’attività edilizia e, per ottenere questo risultato, “liberare” i costruttori e i proprietari immobiliari dalla regole dei piani urbanistici, è proprio la strada che percorsero (ma con ben altre motivazioni e in una realtà radicalmente diversa) i governi italiani degli anni Cinquanta. Il diffondersi della cementificazione . la devastazione del paesaggio e delle nostre città compiuti ignorando la pianificazione urbanistica provocarono allora guasti di cui ci si rese conto, tentando di correre ai ripari. Oggi si è ripresa quella strada.

Curiosamente però, come ha osservato Salvatore Settis su la Repubblica del 1 settembre, il decreto del governo non è mai arrivato, mentre le regioni si sono tutte prodigate per attuarlo. Ciascuna a suo modo, ma tutte, destra o sinistra, nella stessa logica: bisogna privilegiare i proprietari di case rispetto a quelli che una casa non l’hanno, e non possono né comprarla né prenderla in affitto ai prezzi del mercato. I voti dei primi sono di più, e l’obiettivo principale è prendere più voti e consolidare il potere, indipendentemente dal merito dei problemi e delle soluzioni. Questa sembra essere diventata una regola bipartisan: ragione di più per esserne preoccupati.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 3 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti

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