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Vittorio Emiliani
Cemento e «deportati»: il modello immobiliarista che condanna L’Aquila
24 Settembre 2009
Terremoto all'Aquila
La prima puntata di un'accurato servizio sul disastro del dopo-terremoto in Abruzzo. L'Unità, 24 settembre 2009

Lo ricordo bene: dopo i terremoti del Friuli, dell’Umbria e delle Marche - i meglio risolti fra i tanti - il dibattito sulla ricostruzione di centri storici e monumenti fu subito intenso, acceso, coinvolse, appassionò intere comunità, produsse soluzioni alla fine valide. In Friuli lo slogan della ricostruzione fu «prima le fabbriche, poi le case e le chiese». In Umbria venne corretto in «prima le chiese (“Sono le nostre fabbriche”, fece notare un vescovo saggio, attento al turismo religioso di massa), poi le case e le fabbriche». Lo fa notare il solo studio complessivo – anche socio-culturale, anche economico - sin qui prodotto sul terremoto abruzzese: «L’Aquila. Non si uccide così anche una città?». Una brochure fitta di analisi, argomentazioni, piantine, tabelle di costi, che va sotto la sigla storica di Comitatus Aquilanus.

Vi hanno lavorato intensamente soprattutto l’urbanista Vezio De Lucia, con vaste esperienze di amministratore, l’ex direttore del Servizio Sismico nazionale, Roberto De Marco, l’architetto Georg Josef Frisch, coordinatore della ricerca che pubblichiamo in anteprima.

Prima notazione: nulla delle esperienze positive antecedenti già citate è stato tenuto in conto. È prevalsa su tutto la visione «edilizia», immobiliaristica del presidente Berlusconi, attuata «militarmente» dalla Protezione Civile. Difatti, qui in Abruzzo, all’Aquila, la parola «ricostruzione » non viene pronunciata, c’è uno spettrale silenzio attorno ad essa. Anche da parte degli intellettuali (tutti ipnotizzati?), dei giornali, di quasi tutte le tv. Dove un’altra parola risulta bandita: «pianificazione ». Tutto sul territorio aquilano avviene nella più totale assenza di un disegno urbanistico complessivo, con mille episodi sconnessi e con un consumo di suoli agricoli alla fine disastroso. Il solo slogan è quello efficientistico «dalle tende alle case», o meglio «alle casette» (magari donate dai trentini).

Ma ci sono poi case o casette per tutti? Neanche per idea. Ci sono prima che arrivi novembre e magari la prima neve? Soltanto in parte. Sere fa ha fatto sensazione a Ballarò l’intervento del direttore generale del Comune de L’Aquila, Massimiliano Cordeschi, accusato dal ministro Tremonti di «esortare alla rivoluzione» soltanto per aver detto che, in conclusione, a sei mesi dal sisma, su 40.000 senzatetto, ce ne sono 26.000 fuori da ogni prospettiva di residenza che non siano gli alberghi della costa, case di parenti, o la diaspora.

Lo studiodi De Lucia-De Marco-Frisch ci dice subito che la Protezione Civile ha censito gli edifici inagibili o danneggiati. Non gli alloggi. Dato fondamentale invece per stimare la gravità del danno e quindi la «domanda di ricostruzione». Loro tre calcolano che a L’Aquila siano 15.746 gli alloggi resi inagibili, per una superficie lorda di 1 milione e mezzo di metri quadrati. Una parte rilevante dei quali nel bellissimo ed ora spettrale centro storico, nella «zona rossa »: il 63%. Sono residenze di aquilani e case per studenti fuori sede. Lo slogan della ricostruzione (se di ricostruzione qualcuno parlasse nel primo grande centro storico atterrato dopo Messina) dovrebbe infatti mettere al primo posto, fra le «fabbriche », l’Università, vero «motore» di tanta vita economica e sociale aquilana, col Conservatorio, con l’Accademia di Belle Arti e altri Istituti. Pertanto, se migliaia di studenti sceglieranno altre sedi, tutta L’Aquila ne riceverà un colpo mortale. Ma se la ricostruzione non solo non parte (rimuovendo le macerie, puntellando, progettando, ecc.), ma neppure viene nominata, quali speranze si possono dare a questi giovani affluiti qui da altre regioni? Cosa può trattenerli dal fare altre scelte? In Umbria e Marche, dopo aver sistemato, con fatica certo, i terremotati in container attrezzati e in casette prefabbricate, vennero formati dalla Regione e dagli enti locali i consorzi obbligatori fra i proprietari privati onde far partire progetti integrati e pianificati di ricostruzione «in sicurezza ». Qui siamo sotto lo zero. E anche giornali, tv, opinionisti, gli stessi partiti di opposizione non ne parlano. Paiono come annichiliti e senza voce. Peggio, senza idee.

La sensazioneche gli autori di questa ricerca hanno avuto è che il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente sia stato lasciato piuttosto solo dallo stesso Pd anch’esso come catturato dalla logica tutta «edilizia» del duo Berlusconi-Bertolaso. Da qui l’ordinanza di giugno che lasciava libertà di costruire casette provvisorie dove si poteva. Da qui il Progetto dei Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.) che il premier un po’ chiama newn town e un po’ no, anzi si offende.˘«In buona sostanza », si legge nel rapporto, sono «lottizzazioni residenziali su 20 aree individuate dalla Protezione Civile (…), 164 edifici per un totale di circa 4.000-4.500 appartamenti che saranno adatti ad ospitare circa 15.000 persone», cioè un terzo soltanto dell’effettivo fabbisogno espresso dai cittadini del capoluogo. Adesso anche la Protezione Civile si è accorta che sono poche e allora si affanna a mandare altrove il popolo degli attendati, prima che il gelo li attanagli. Di nuovo negli alberghi della riviera adriatica. A costi notevolmente elevati. Senza che i senzatetto abbiano potuto esprimere una preferenza, senza che si sia lasciato uno spiraglio alla autodeterminazione democratica, senza che si sia potuto opporre qualcosa alla scelta centrifuga delle 20 micro-newtown e di tante altre casette sparse, a spray, sui terreni agricoli, a macchia d’olio. Il tutto a costi molto alti. Come sempre allorché non si pianifica praticamente nulla. Ne parleremo nella successiva puntata. Fermiamoci ad un costo sociale: «Una volta sgomberate le macerie e rese accessibili le case non danneggiate gravemente, solo uno su tre dei vecchi abitanti potrà tornare a casa». Più il tempo passa senza che inizi la ricostruzione e peggio è. Qui e nei centri storici minori. Sul piano oggettivo, psicologico, morale. «Non si uccide così anche una città?».

(1-continua)

Dai centri storici alle “new towns”

Cinque domande al premier

Nella conferenza-stampa di martedì Silvio Berlusconi ha detto che risponderà soltanto a domande serie, per esempio sulla consegna di case prevista il 29 in Abruzzo. L’inchiesta qui a fianco ne contiene tante di domande. Proviamo ad estrarne qualcuna:

1) Perché non si sono tenuti in alcun conto i risultati positivi della ricostruzione post-terremoto in Friuli e in Umbria-Marche?

2) Perché la Protezione Civile ha censito gli edifici e non invece gli alloggi colpiti per avere una stima più esatta dei bisogni?

3) Come mai le casette prefabbricate possono ospitare soltanto un terzo dei circa 40.000 senzatetto? E gli altri, dove finiranno?

4) È vero che nelle sue amate «new town» gli alloggi stanno fra i 40 e i 70mqe che ci si orienta sempre più verso i 40 mq?

5) Perché nemmeno si parla, per ora, di piani e progetti di ricostruzione dei centri storici, dell’Aquila in primo luogo? Cosa si vuol fare?

Tante sono le domande che urgono. Magari domanine faremo altre.

V.E.

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