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Roberto De Marco
La ricostruzione senza memoria
7 Giugno 2009
Con questo intervento del nostro corrispondente, presentiamo un'analisi sul post -terremoto, quale primo risultato del Comitatus Aquilanus. Scritto per eddyburg, 28 maggio 2009 (m.p.g.)

Prendiamo in prestito questo titolo dalle tragiche vicende del Belice, da un capitolo delle storia infinita di una ricostruzione devastante, per come è stato raccontato in una delle tante inchieste televisive (lastoriasiamonoi.rai.it) che nel volgere di una quarantina di anni hanno cercato di dare ragione di una delle più grandi sconfitte dello Stato.

Lo prendiamo in prestito perché l’assenza di memoria affiora in modo assolutamente preoccupante anche nelle vicende aquilane e si presta ad una duplice lettura. Una voglia di protagonismo nella modernità sta portando alla sperimentazione di un modello di ricostruzione del tutto originale che non tiene conto della “memoria” scritta, nel bene e nel male, da tanti altri dopo-terremoto dal quale distillare, a seconda dei casi, un auspicio o un monito sulle scelte assai impegnative che nell’Abruzzo terremotato si debbono compiere.

Ma una “ricostruzione senza memoria”, di nuovo, pende sul futuro di quel territorio dove la ricostituzione del tessuto economico e socio-culturale (emblematicamente il centro storico di L’Aquila) sembra rappresentare, nelle intenzioni espresse dal decreto del Governo, un valore marginale piuttosto che il punto da cui partire.

Nel primo caso, la partita si gioca sulla pelle del popolo dei campi tende e degli alberghi in riviera, nel secondo anche e soprattutto sulle prospettive di conservazione della storia, delle tradizioni e della cultura di una parte assai significativa del paese.

Cominciamo allora a meglio comprendere in cosa si sostanzia la modernità che nella gestione di questo dopo-terremoto si vuol sperimentare. Si tratta, in definitiva, di superare una fase intermedia del lungo e difficile percorso di ritorno alla normalità, che si colloca tra il superamento della prima emergenza, quella per l’appunto delle tende, ed il rientro a casa, salvo poi vedere quale casa. Insomma, fin dalle prime ore di questa tragedia l’alloggiamento davvero provvisoriono di attesa della ricostruzione, è stato visto come un passaggio da evitare ad ogni costo.

Ecco, il problema è proprio nei termini di quanto sia elevato questo costo, senza per altro avere un precedente a cui ispirarsi nella storia antica e recente delle ricostruzioni post-catastrofe. Al contrario, con l’ eccezione di qualche particolare ed infelice esperienza, la scelta assai determinata del porsi come traguardo il ritornare nella propria realtà come era e dove era, ha sorretto i disagi patiti delle popolazioni colpite dai tanti, grandi terremoti italiani. Quasi epico, insomma, il sacrificio della gente nel cogliere l’obiettivo più alto rappresentato da una ricostruzione conservativa del proprio patrimonio socio-culturale e del proprio assetto economico su cui fondare la ripresa, fattori sempre per altro coincidenti. Poiché questo è indubitabilmente il valore più significativo dell’opera di ricostruzione, ci si attendeva che il Governo usasse la modernità, intesa soprattutto come apporto tecnologico ed organizzativo nel settore della “protezione per l’appunto civile”, per rendere il più confortevole possibile la permanenza in alloggi temporanei in attesa di un RI-entro nelle case RI-costruite.

Se la scelta fosse stata questa, oggi il popolo delle tende e dei turisti per caso sull’Adriatico, sarebbe più sereno in ragione della certezza sulla praticabilità delle soluzioni adottate. L’alternativa imposta è stata del tutto diversa e si sostanzia in una corsa contro il tempo per realizzare gli alloggi previsti nel decreto (dalla stampa definito abracadabra) nella quantità necessaria per risolvere l’alloggiamento di 13mila persone (stabilita, per altro, in assenza di una valutazione definitiva di agibilità), aggettivati, con un termine desueto nel campo edilizio, come “durevoli” (forse perché il termine definitivi avrebbe avuto un significato inquietante, o forse perché nulla è così poco determinato in senso temporale: ma quanto durevoli ?). Le corse contro il tempo sono pericolose ed ovviamente lo sono in funzione di cosa e quanto si rischia. Se la corsa si vince solo in parte, e solo qualche nastro tricolore sarà tagliato prima dei primi fiocchi di neve, che succederà? Tutti al mare? Probabilmente. Il fatto è che, in questo modo, a 45 giorni dalla scossa, il popolo del terremoto sa davvero poche cose sul proprio destino e quasi tutte apprese dal contenuto di quel decreto che resta comunque la non equivoca testimonianza delle originarie intenzioni del Governo sulla ricostruzione. Insomma, 70mila persone si debbono fidare del Governo e della gestione Commissariale a cui davvero tutto è affidato. L’auspicio sincero è che comunque davvero tutto funzioni. Certo è che quanto si è appreso sulla Maddalena e soprattutto sugli imminenti campionati mondiali di nuoto di Roma, non aiuta il popolo delle tende a dormire sonni tranquilli.

Molta attesa era riposta, in questi giorni, sugli emendamenti al decreto, ma questi esprimono più che altro una disponibilità a riconsiderare qualcuno dei passaggi più critici, non incidono concretamente sull’insufficienza del quadro finanziario e, soprattutto, confermano le scelte di fondo già fatte circa il percorso di ricostruzione. Il popolo del terremoto sa che una ventina di aree attorno al capoluogo terremotato sono state espropriate in via definitiva per accogliere gli edifici durevoli. Nessuno sa davvero come questi saranno, se non che verranno consegnati ammobiliati, che saranno gli edifici più sicuri d’Italia poiché oltre ad esser progettati con criteri antisismici saranno anche posti su isolatori sismici (e poi si dice che in Italia non si spendono soldi per la prevenzione !). Per i caratteri architettonici bisogna invece affidarsi all’ex tempore piena di verde mostrata in TV un mese fa e che evoca l’idilliaco sfondo del “Truman Show” di Peter Weir del ’98. Leggendo il testo del decreto, il popolo del terremoto sa anche che l’espressione “centro storico” non compare nemmeno una volta, e questo ha cominciato a preoccupare qualcuno poiché ha sancito in via definitiva che la ricostruzione non ripartirà di lì. Cosa questa che, anche sotto il profilo della ripresa economica, assume il significato di un tristissimo presagio per un capoluogo di regione, sede di essenziali funzioni istituzionali ed amministrative, città universitaria prestigiosa, polo culturale e pregiata meta turistica.

Il rischio a cui è esposto un territorio per il quale non si colgano gli elementi essenziali che ne dovrebbero guidare la riproposizione conservativa, sembra alimentato dal rifiuto di qualsiasi riferimento al pregresso, alle tante esperienze vissute in questo paese con esiti anche alterni ma pur sempre estremamente utili. Per esempio la ricostruzione nel Friuli del ’76, che è presentata come esempio di federalismo compiuto, laboratorio di democrazia partecipativa e di concretezza. Ebbene, quel dopo-terremoto è sintetizzato nell’espressione che in quel periodo divenne una parola d’ordine di quel popolo del terremoto: fasim di bessoi. Facciamo da soli, che non vuol dire senza lo Stato, ma vuol dire con il contributo di tutti nell’ambito delle competenze di ciascuno. Non vi fu spazio per un intervento sostitutivo, ma piuttosto partecipativo, anche se un Commissario straordinario fu nominato nella persona di Giuseppe Zamberletti. In realtà fu il terremoto della Regione e dei Comuni, dei tecnici degli enti locali e dei professionisti che alla fine, con grande competenza e dedizione, riuscirono a ricostruire “il Friuli come e dove era”. Non mancarono anche lì suggerimenti “innovativi”; un urbanista allora in voga, D’Olivo, propose la nuova Pordenone ed anche la nuova Udine, che significava un allontanamento in massa dai luoghi del terremoto. Ma tempi e modi della ricostruzione furono dettati senza esitazioni dalla gente delle tende: “prima il lavoro, poi le case e dopo le chiese”. Di soldi ne arrivarono allora molti dallo Stato ma, a conti fatti, fu forse un affare per tutto il paese poiché, il buon utilizzo di quelle risorse, produsse il primo germe del miracolo del nord-est.

Poco più di venti anni dopo toccò all’Umbria e alle Marche. Nel settembre del ‘97 un terremoto con poche vittime ma con molti danni impegnò in una complessa opera di ricostruzione di un territorio fatto soprattutto di tanti piccoli paesi e di altrettanti centri storici. Anche lì il modello partecipativo non fu mai messo in discussione. Due giorni dopo il terremoto un’ordinanza nominava i Presidenti delle due regioni Commissari per la ricostruzione dei loro territori dove altrettanti partecipati comitati tecnico-scientifici ebbero immediatamente il compito di guidare la ricostruzione e le fasi intermedie di insediamento della popolazione. Oggi quel territorio è ricostruito. C’è voluto molto sacrificio, delle popolazioni soprattutto, molto tempo e molti soldi; oggi, tuttavia, visitando l’Umbria e le Marche ricostruite è difficile sostenere che non ne sia valsa la pena.

Di tutta quella strumentazione e di quelle logiche non c’è nulla nell’esperienza aquilana. Un modello monocratico, un decisionismo esasperato, un’irragionevole fretta piuttosto che una scansione del tempo dettata dalla efficacia e dalla concertazione su decisioni appropriate. Sembra che l’esigenza assoluta sia il fare le cose in modo innovativo, diverso. Si sceglie per la prima volta, per esempio, di “appaltare” le verifiche di agibilità. Perché? Per far prima e meglio? Non sembra, visto che dopo quasi due mesi la popolazione del terremoto è tutta ancora nelle tende né sa chi potrà rientrare nelle case e chi invece avrà una sorte diversa, ma comunque altrettanto sconosciuta.

In questo sfoggio solo apparente di ordine, trovano posto anche cose che lasciano estremamente perplessi come la posizione del sindaco di L’Aquila il quale, mentre accetta che la popolazione non trovi sistemazione in abitazioni davvero temporanee di proprietà pubblica, delibera la occupazione di ogni giardino e cortile con abitazioni solo nominalmente temporanee perché di proprietà privata. Così, un giustificato pessimismo lascia presagire che alla fine si avrà una città ricca di favelas, contornata da piccole new towns. Le case durevoli e magari le baracche nei giardini, ancor più durevoli, resteranno quale indelebile traccia dell’urbanistica d’emergenza (come sono rimaste quelle di Collarmele e di Villavallelonga, dopo il terremoto della Marsica che tuttavia lo si affrontò in tempo di guerra), testimonianza del costo pagato alla fretta ed alla originalità di un intervento di ricostruzione che probabilmente passerà alla storia. Ma non come il Friuli o l’Umbria e le Marche, ma piuttosto come il Belice.

A differenza dell’Abruzzo, in quella valle siciliana non si fece nemmeno in fretta, ma tuttavia si costruirono tante piccole new towns. Allora successe perchéla gente in quel lontano ‘68 rinunciò a partecipare alle scelte, perché i loro sindaci non seppero tutelare quel senso di cittadinanza e di appartenenza che riconosce, per esempio, ad un centro storico, ben al di la del pur importante qualità edilizia, un valore non negoziabile. Così oggi i paesi del Belice sono ancora meta di turisti che visitano incuriositi quell’incredibile modernismo, opera di tante prestigiose firme “paracadutate” in quella ricostruzione iniziata nel ’68 e ancora non finita. Poi gli stessi turisti, condividendo la profonda inquietudine dei cittadini superstiti di quella deportazione, visitano i paesi abbandonati, i campanili e le case distrutte dal terremoto prima e dopo dal tempo, che sarebbe stato invece bellissimo veder rinascere.

Parti consistenti del nostro territorio, fin da quando vi è memoria storica, sono state distrutte dai terremoti ( o da qualche altra cosa), e poi lì ricostruite. Caparbiamente come erano. Se così non fosse stato, se anche allora la scelta dominante fosse stata quella delle new towns, il paesaggio di questo paese sarebbe oggi profondamente diverso e non ci sarebbero oltre ventiduemila centri storici, due terzi dei quali in zona sismica. Più si riconosce valore a tutto ciò, più si capisce oggi quanto l’Abruzzo stia rischiando.

Di questi temi si è fatto in piccola parte carico il Comitatus Aquilanus, uno dei comitati spontanei sorti nel dopo terremoto il cui appello incentrato sulla ricostruzione è stato pubblicato su eddyburg.it e presentato in una affollato incontro a L’Aquila. In quell’occasione è emersa con forza, negli interventi dei cittadini e di altri comitati, l’esigenza di un confronto con chi oggi sta decidendo, è stata denunciata l’assenza di qualsiasi forma di coinvolgimento nelle scelte, si sono invocate, insomma, forme essenziali di partecipazione delle quali sembra che la velocità imposta da una scommessa contro il tempo e un rischiosissimo pragmatismo, abbia fatto strage.

Per finire un ultimo piccolo stralcio di “memoria”. La stampa ha spesso riproposto, in queste settimane, una delle più belle pagine mai scritte sul terremoto. Sono dell’abruzzese Ignazio Silone che a 15 anni perse tutta la famiglia, tranne una nonna ed il fratello, nel terremoto della Marsica. In quello scritto, pubblicato nel’65 su “Uscita di Sicurezza”, Silone dice come la natura, attraverso il terremoto sembri realizzare, nella sua distruttività, l’eguaglianza tra ricchi e poveri. Poi soggiunge che si tratta di un’uguaglianza effimera, trasformandosi presto, la disgrazia collettiva, in occasione di più larghe ingiustizie. Cita poi brogli, frodi, furti, camorre, truffe, malversazioni attraverso le quali tutto ridiventa “normale”. In genere la citazione di Silone viene riportata fin qui. Vi è da ritenere tuttavia che, in questo momento, valga la pena di leggerne ancora due righe: “A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra”.

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