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Ugo Mattei
Battitori d’asta per beni messi in comune
2 Luglio 2008
Scritti 2008
Il problema è: come fare per far leggere (e comprendere) questo fondamentale articolo a chi dovrebbe garantire il bene comune? Il manifesto, 23 maggio 2008

A lungo la cultura politico-costituzionale italiana (come del resto quella europea fin dalla Costituzione di Weimar) si è interrogata sul tema di quale dovesse essere il rapporto tra la rendita fondiaria e la tutela dei beni comuni. Il problema è tuttavia scomparso dalle odierne agende «riformiste» (il manifesto del 12 maggio) senza che il compromesso «alto» fra proprietà privata e democrazia raggiunto dalla Costituzione italiana del 1948 abbia ottenuto seguito. (Il tema è stato ripreso da Stefano Rodotà su la Repubblicadi lunedì 11 maggio). Tutte le forze capaci di realizzare quel capolavoro politico-culturale che fu la Costituzione sposarono una logica di lungo periodo ponendo le premesse ed i principi per la realizzazione di un sistema economico-politico misto (Art. 42 e 43 della Costituzone) la cui concreta realizzazione veniva lasciata alla dinamica parlamentare.

Un presupposto fondamentale di ogni economia mista è quello per cui il cosiddetto «surplus cooperativo», ossia la crescita di ricchezza collettiva derivate dall’aggregazione degli individui in società, appartiene a tutti e deve essere utilizzato quindi nell’interesse di un progresso civile e sociale che coinvolga tutti i cittadini di uno stato. In una economia mista, dunque, tale surplus cooperativo non può infatti essere automaticamente ed interamente assorbito dalla proprietà privata. Infatti, se il mio alloggio aumenta di valore, tale aumento è prodotto dalla pressione urbanistica, provocata dal fatto che gli uomini e le donne che vivono o vogliono vivere in citta assieme alle attività economiche e sociali tendono a concentrarsi in certe zone piuttosto che altre.

Sono queste attività sociali che determinano l’aumento del valore della mia proprietà in modo del tutto indipendente dal costo della fabbricazione o dalla qualità dei materiali adoperati per costruirla. Una casa di qualità splendida in una zona «depressa» vale molto meno di una casa costruita con materiali scadenti o anche completamente diroccata in una zona ad alta pressione urbanistica. La forbice fra il valore della proprietà privata sul mercato immobiliare ed il costo (materiali e lavoro) dell’immobile è nota come rendita fondiaria.

La potenza del debito

A chi appartiene questo surplus cooperativo (utilizzando il gergo della teoria dei giochi) o se si preferisce una locuzione più tradizionale, la rendita fondiaria? Oggi, l’ideologia dominante ritiene del tutto scontato che la rendita fondiaria appartenga al proprietario, e anche quel minimo di sua socializzazione prodotta dalla tassazione immobiliare (unica forma di imposta patrinoniale nel nostro sistema) è sotto attacco. Tale comune percezione dimostra il successo dell’ideologia neoliberale, dimenticando il fatto che fino a pochi anni fa la principale preoccupazione delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto) che si dedicavano al fenomeno urbanistico era di fornire alla politica gli strumenti istituzionali necessari per governare la rendita fondiaria nell’interesse della collettività che la produce. In altre parole la rendita fondiaria, prodotta da tutti, costituisce un esempio di ricchezza comune, che la politica dovrebbe poter utilizzare nell’interesse di tuttimache quasi sempre viene interamente assorbita dal privato proprietario che così sfrutta una rendita di posizione.

Dopo un quarto di secolo di sostanziale silenzio, di proprietà pubblica, beni comuni e del loro rapporto con la proprietà privata si è ripreso a discutere anche in Italia nel quadro del dibattito sul risanamento dei conti pubblici e sul debito aperto dalla nota proposta di Giuseppe Guarino di vendere il patrimonio immobiliare pubblico per ripianare un debito insostenibile. Il dibattito si è riscaldato principalmente in reazione alla tendenza apparentemente inarrestabile alla privatizzazione e dismissione dei beni pubblici e comuni per esigenze di spesa corrente (la cosiddetta finanza creativa).

La vulgata neo-riformista infatti ha presentato la proprietà pubblica come una specie di buco nero che assorbe risorse senza produrre nulla di cui occorre disfarsi al più presto possible. Le operazioni di dismissione sono state così condotte al di fuori da qualsiasi garanzia costituzionale, come se fosse ammissibile e naturale per un governo in carica, liberarsi di tutto un patrimonio comune garantito dalla Costituzione proprio perchè costruito negli anni con sforzo collettivo. Inoltre, a causa di un quadro normative obsoleto, contenuto nel Codice Civile del 1942 e mai modificato al fine di renderlo coerente con la Costituzione del 1948, qualsiasi privatizzazione anche dei beni pubblici più importanti è stata determinata da un semplice decreto ministeriale di «sdemanializzazione»: al di fuori quindi non solo da qualsiasi controllo costituzionale ma anche senza bisogno di alcun coinvolgimento del Parlamento. Insomma, in Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza parlamentare del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (la collettività dei cittadini italiani) quasi sempre trasferendolo sottocosto ad attori privati e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali «cartolarizzazioni».

Miracoli del censimento

Grazie anche ad un libro fondamentale e coraggioso del Rettore della Scuola Normale di Pisa (Salvatore Settis, Italia S.p.A.) i rischi di tale politica sono stati messi all’ordine del giorno. Si è avviata così una fase di riforme del regime dei beni culturali che hanno ricevuto in poco tempo attenzione bipartisan in forma di un «Codice» (e quindi legislativa) legato al nome di Urbani prima e di Rutelli poi. Ma il patrimonio pubblico, non è affatto limitato ai beni culturali (che pure, soprattutto in Italia, ne sono una componente non trascurabile) e la sua buona gestione e garanzia costituisce una delle più importanti trasformazioni strutturali necessarie per portare la nostra organizzazione sociale in sintonia con la visione della Repubblica italiana contenuta nella Costituzione.

Pur prescindendo dalla rendita fondiaria, fra i beni pubblici infatti ci sono le principali infrastrutture del paese, dalle autostrade alle ferrovie ai porti agli aeroporti, ospedali, tribunali, scuole, asili, prigioni, cimiteri ma anche foreste, parchi, acque, frequenze radiotelevisive e telefoniche, proprietà intellettuale pubblica, crediti fiscali. Il censimento di tali ricchezze ingentissime è iniziato con il «Conto patrimoniale della Pubblica amministrazione» voluto da Giulio Tremonti nel 2004 e per gran parte degli immobili è stato recentemente completato dall’Agenzia del Demanio. Sappiamo adesso che il valore di questo patrimonio pubblico italiano è altissimo, il più alto in Europa, ed è quindi verosimile che la buona gestione di questa ricchezza, secondo principi giuridici generalmente condivisi, possa dare benefici estremamente significativi (non solo economici) alla collettività che, ai sensi della nostra Costituzione, ne è proprietaria.

Non bisogna dimenticare infatti che la collettività non è composta soltanto da proprietari privati ma anche da nullatenenti la cui unica proprietà è pro quota quella pubblica. Di qui il riproporsi dell’annoso conflitto fra proprietà privata e democrazia, alla cui soluzione di principio hanno lavorato i nostri costituenti. Discutere di come utilizzare la proprietà pubblica è perciò questione fondamentale all’interno di un regime politico democratico e il luogo in cui ciò deve avvenire non può che essere il Parlamento perchè il Ministero dell’Economia, a tacer d’altro, è oberato dalle esigenze di far cassa sul breve periodo.

La comunità accademica si è fatta sentire e nel giugno del 2007 il Guardasigilli accolse le raccomandazioni espresso un anno prima dall’ Accademia Nazionale dei Lincei. Con un decreto ministeriale del 21 giugno 2007, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella investì del tema del regime giuridico della proprietà pubblica e della riforma delle parti del Codice Civile che lo riguardano una Commissione affidandone la guida a Stefano Rodotà, uno dei più prestigiosi studiosi internazionali della proprietà. La commissione, composta fra gli altri da «amministrativisti » del calibro di MarcoD’Alberti o da economisti come Giacomo Vaciago, ha completato i suoi lavori nel febbraio scorso a governo dimissionario e Parlamento sciolto. La proposta di legge delega da essa prodotta, è stata tuttavia ripresa e discussa lo scorso mese in una giornata di studio all’Accademia dei Lincei e si trova oggi nelle mani del guardasigilli Angelino Alfano che potrebbe dar prova di autentica volontà riformista di lungo periodo presentandola al più presto al Consiglio dei Ministri al fine di portarla in Parlamento per la discussione.

Fra le più significative innovazioni che il Parlamento dovrebbe dunque discutere vi è l’introduzione di una nozione di beni comuni, che apartengono a tutti i consociati, e che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Secondo la «Commissione Rodotà» i beni comuni di proprietà pubblica dovrebbero essere gestiti da soggetti pubblici ed essere collocati fuori commercio proprio al fine di evitarne il saccheggio privato.

Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

Un patrimonio da salvaguardare

La Commissione per la riforma del Codice Civile ha inoltre previsto altre categorie di beni pubblici, alcuni dei quali, «che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali», sono ad appartenenza pubblica necessaria e quindi a loro volta non privatizzabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale.

Altri beni sono pubblici non in quanto collegati alla sovranità dello Stato ma in quanto indissolubilmente legati alle esigenze organizzative dello Stato sociale previsto dalla Costituzione italiana: «Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona». Vi rientrerebbero tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio. Secondo la proposta della Commissione tali beni non potrebbero essere alienati senza che lo stesso livello di servizi sociali sia garantito attraverso altri beni sostitutivi. Tutti gli altri beni pubblici vengono definiti fruttiferi: essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti ordinari di diritto privato. L’«alienazione » è consentita però solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici.

Progettualità di lungo periodo

A questa struttura giuridica generale, che cerca di recuperare una progettualità di lungo periodo sviluppando, dopo sessant’anni, il mandato costituzionale, corrispondono diverse proposte volte a coniugare l’equità anche intergenerazionale con l’efficienza economica e gestionale.

In questo itinerario la cultura giuridica ed economica italiana, in dialogo con le più significative esperienze estere, ha cercato di offrire alla politica alcuni strumenti tecnici di avanguardia per affrontare in modo progettuale nell’interesse di tutta la nostra collettività, un futuro di risorse sempre più scarse. Sapranno i «nuovi» Berlusconi e Tremonti, il primo rinnovato statista, il secondo «mercatista» pentito, abbandonare la via della paura ed imboccare finalmente quella della speranza, affrontando in spirito autenticamente bipartisan i veri nodi strutturali ancora da implementare?

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