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Eddytoriale 86 (07.03.2006)
10 Giugno 2008
Eddytoriali 2006
È umiliante partecipare al voto nel modo in cui lo ha ridotto la maggioranza berlusconiana. Ma ancora più umiliante sarebbe astenersi, consentendo così il protrarsi della vergogna nazionale: l’ascesa al potere di quel gruppo di interessi arcaici, infettati dal razzismo, legati dal più retrivo individualismo proprietario che ancora sussista in Europa, portatori malati del morbo della sostanziale antidemocrazia.

Votiamo dunque turandoci il naso, come in un contesto ben più civile (ma dirigendo la mira in una direzione opposta) invitava a fare Indro Montanelli. Certo che il fetore è alto: basta vedere come sono state composte le liste elettorali, e come sono scomparsi quasi tutti i margini di scelta dell’elettore: “attivo” solo nella nomenclatura formale, poiché ogni reale attività è stata consegnata da Berlusconi ai partiti.

Votiamo rinunciando all’odorato, ma non alla vista: guardiamo anzi con attenzione al significato del nostro voto. Per quanto mi riguarda la mia “speranza di voto” questo avrà un duplice significato.

1. cacciare un personaggio e un gruppo la cui permanenza al potere renderebbe invivibile e inutilizzabile a fini civili quel poco di pulito che è rimasto tra le Alpi e il Canale di Sicilia. Non credo che sia necessario illustrare questo assunto. Mi limiterò a ricordare che, quando ci indigniamo per quello che di poco limpido c’è nello schieramento di opposizione parliamo di berlusconismo: il germe dell’infezione sta dunque là, fuori di quello schieramento, ed è di là in primo luogo che occorre debellarlo.

2. ristabilire un quadro di principi fermi, di regole funzionanti, di istituti efficaci mediante i quali si possa svolgere la libera dialettica tra forze diverse, oggi confusamente aggregate nell’opposizione a Berlusconi.

Credo che sia utile, forse addirittura necessario, fare uno sforzo per comprendere quali sono le forze diverse che formano l’opposizione (in che cosa precisamente consista la loro differenza), e qual è il programma che può unirle non solo per sconfiggere Berlusconi ma anche per governare dopo di lui.

Sul primo punto mi sembra che il discrimine che faticosamente sta emergendo dalla confusione possa essere definito nel seguente dilemma:

(a) se il sistema entro il quale viviamo (il sistema economico-sociale fondato sul modo di produzione capitalistico e nutrito dai principi e dagli istituti foggiati dalla borghesia, con il concorso dialettico della classe antagonista) sia tale da poter essere corretto nei suoi aspetti più critici senza modificarlo dalle radici, cioè dalla concezione dell’uomo, del lavoro e della società;

(b) oppure se le contraddizioni di quel sistema siano così profonde e letali da poter essere scongiurate solo attraverso l’invenzione e la graduale messa in opera di un sistema economico-sociale fondato su principi (e governato da istituti) del tutto diversi.

La dialettica tra “moderati” e “radicali” esprime forse queste due posizioni. Sarebbe augurabile che nelloro ambito si riuscissero a formulare con una qualche chiarezza i rispettivi connotati, a partire da argomenti fondanti e non dalle occasioni di cronaca: dalle strategie e non dalle tattiche.

Sul secondo punto, il programma, mi sembra che le ragioni dell’unione, e quindi le basi di un programma di governo unitario, debbano essere individuate in due direzioni, da enunciare in con un'esplicitazione chiara di contenuti, principi e indirizzi, un reale e serio "contratto con gli italiani", e non in un elenco infinito, e necessariamente sempre incompleto, di cose da fare

Innanzitutto deve essere reso chiaroi ed esplicito l'impegno a istabilire le regole della convivenza democratica. Ciò comporta ritrovare l’ispirazione della Costituzione del 1948, che non a caso fu un patto democratico tra forze portatrici di progetti di società alternativi; ma richiede anche di instaurare un rapporto tra le diverse dimensioni dell’umano operare (la politica, l’economia, l’amministrazione, la religione, l’arte, la scienza…) nella quale le rispettive autonomie siano tutelate e le diversità dei punti di vista rispettate, senza alcuna sudditanza d’una dimensione all’altra.

Mi sembra che la prevaricazione della politica sull’amministrazione e quella dell’economia sulla politica, come l’utilizzazione politica della religione, siano tra le più inquietanti anomalie dei nostri anni.

Un impegno altrettanto chiaro ed esplicito deve essere dichiarato oggi (e domani praticato) per mettere in moto un meccanismo economico nel quale vengano sconfitti alcuni vizi storici del capitalismo italiano: innanzitutto il peso schiacciante delle rendite d’ogni tipo e dimensione, a cominciare da quella immobiliare, e poi anche il permanere di ampie sacche di privilegio prive ormai d’ogni giustificazione sociale, e la conseguente rinuncia a percorrere le rischiose strade dell’innovazione.

Ma un meccanismo nel quale vengano garantiti i valori del lavoro e quelli del futuro: nel quale quindi, in attesa di un più compiuto riconoscimento sociale (possibile solo in una società radicalmente diversa), i valori dei beni comuni non riconducibili a merci siano garantiti nella loro sopravvivenza e nel loro sviluppo.

Nella consapevolezza che un vero sviluppo, omogeneo alla natura del genere umano e al suo patrimonio culturale, può avvenire solo se il valore d’ogni prodotto viene riconosciuto alla sua carattere di bene, e non alla sua riduzione a merce.

Una consapevolezza, questa, che non dovrebbe appartenere solo alle componenti “radicali” dello schieramento unitario.

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