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Eddytoriale 49 (28 giugno 2004)
2 Gennaio 2008
Eddytoriali 2004
Una fase è finita, se ne apre un’altra. La fase che si è chiusa con la sconfitta di Berlusconi è stata difficile e decisiva, ma quella che si apre lo è ancora di più: bisogna sconfiggere il berlusconismo. È un male insidioso, perché si annida anche nel fronte che ha battuto il cavalier B. Non solo su queste pagine si è denunciato come lo stravolgimento operato dall’attuale maggioranza parlamentare (il paese è un’altra cosa) fosse stato anticipato da posizioni e provvedimenti della precedente maggioranza.

Ricordiamone alcuni elementi. Una critica dello Stato sociale della Prima Repubblica privo della proposta di un nuovo Stato sociale: di un nuovo sistema capace di garantire, più e meglio di quello vigente, i diritti comuni in materia di salute, assistenza, sicurezza sociale, istruzione. Un cedimento ai principi della nuova destra dell’Occidente fino a mutuarne gli slogan più infecondi (più mercato e meno Stato, privato è bello ecc.). La rincorsa al secessionismo di Bossi e alle demagogie localistiche, dimenticando che “federalismo” significa unificazione e non divisione, e che in paese “normale” non si fa un secondo passo (il “federalismo”) senza aver discusso il bilancio del primo (il regionalismo).

Le forze politiche della sinistra hanno certo delle scusanti. Non è facile misurarsi con i problemi di una fase indubbiamente nuova dell’assetto del mondo senza avere alle proprie spalle un’analisi compiuta ed efficace come quella che, nel precedente assetto, era stata fornita dal marxismo. Un’analisi, non una descrizione: una lettura scientifica della struttura della società e dell’economia, delle tendenze profonde e dei possibili futuri, un’individuazione delle forze in gioco e – all’interno di queste – di quella o di quelle cui può essere affidato il progresso dell’umanità. Si può comprendere quindi l’oscillazione della sinistra, le sue stesse divisioni, l’alternarsi di fughe in avanti proposte, e di passi indietro praticati. Si può comprendere, ma non giustificare, poiché nell’arsenale delle pratiche e dei principi della “democrazia borghese” e di un buongoverno coerente con il sistema capitalistico esistevano, come esistono, strumenti e valori capaci di assicurare (almeno entro i limiti di quella democrazia e di quel sistema) una decente soddisfazione delle esigenze dell’umanità e del suo sviluppo civile: quindi, di tenere aperte le strade di un più ricco futuro nel quale trovassero soluzione anche i problemi di fondo del mondo contemporaneo.

Il primo valore e strumento è il primato della legge comune: dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle regole stabilite. Ha giovato a ribadire e a praticare questo primato la tolleranza verso il conflitto d’interessi, e il fastidio a volte manifestato verso la magistratura (quasi espressione di una difesa corporativa della politica)? Non credo proprio. Non si può anzi escludere che un simile atteggiamento, oltre a giovare direttamente al peggior satrapo che l’Italia abbia conosciuto, abbia contribuito al distacco della politica dal popolo.

Il secondo valore e strumento è la cura del patrimonio comune della nazione. Non c’è bisogno di essere ambientalisti, non c’è bisogno di avere consapevolezza del valore di quella quota della ricchezza del mondo che è depositata nei nostri territori e nelle nostre città, per comprendere che una visione anche aziendalistica (la “azienda Italia”) imporrebbe di avere una cura di quel patrimonio ben diversa da quella attuale. Non solo di quella praticata dai demolitori riuniti nell’accampamento berlusconiano, ma anche di quella dimostrata dalle formazioni politiche della sinistra: tutte mi sembra, nessuna esclusa.

Una prova di questa carenza della sinistra, dell’infezione che dalla destra berlusconiana si è propagata altrove? L’assoluta assenza, nella campagna elettorale appena conclusa dei temi relativi al governo del territorio, alle politiche urbane, alla pianificazione territoriale e urbanistica. Un’assenza antica, che ha fatto dimenticare il passato dei partiti della sinistra negli anni 60 e 70: quando la modernizzazione del paese e il buon governo passavano dall’impegno per la riforma delle strutture (ivi compresa quella urbanistica) e da quello nell’amministrazione urbanistica delle città dove la sinistra era al governo. Un’assenza che, fino a quando permarrà, peserà sul futuro. Lo testimonia un episodio che ha condiviso la cronaca con i risultati elettorali: la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania.

Il personale politico italiano non ha ancora compreso che la pianificazione del territorio, dentro e fuori le città, è uno strumento essenziale se si vuole risolvere a priori i potenziali conflitti nell’uso del suolo, se si vuole trovare una sintesi tra le diverse esigenze (quelle della tutela e quella della trasformazione, quella delle funzioni private e quelle dei servizi collettivi, quelle che inquinano e quelle che risanano). Probabilmente perché, al tempo stesso, non ha compreso che i problemi di oggi vanno risolti con una visione di prospettiva, di lungo periodo, strategica. La tattica di affrontare i problemi accantonandoli, di evitare i conflitti dando ragione all’ultimo che protesta, consente forse di vincere una campagna elettorale, non di rendere l’Italia un “paese normale”, all’altezza delle sue risorse e della sua storia.

Si veda anche la Lettera a Micromega, firmata da alcune decine di urbanisti molti mesi fa (e ancora senza risposta).

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