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Giancarlo De Carlo
Premessa al Secondo Schema del Piano Intercomunale Milanese
12 Luglio 2007
1951, il Piano Intercomunale Milanese
Rassegna degli obiettivi socioeconomici, dell'organizzazione, e del quadro territoriale dell'area metropolitana, da parte di uno dei principali protagonisti, 1963 (f.b.)

Premessa[1]

Le ipotesi e le proposte qui illustrate sono il risultato della verifica del Primo Schema del Piano Intercomunale Milanese presentato il 25 luglio 1963. Rappresentano, nel loro complesso, un Secondo Schema che deriva dall’approfondimento del Primo, come era stato richiesto dalla XIII Assemblea dei Sindaci con la deliberazione del 1° dicembre 1963. […].

I chiarimenti preliminari alla «verifica»

[…]

Nel concludere le relazioni del 25 luglio 63, il Comitato Tecnico stesso aveva segnalato una serie di questioni alle quali attribuiva un significato di tentativo ed aveva insistito sulla necessità di sottoporle ad un profondo riesame. Tra le questioni più importanti era stata indicata quella che si riferiva alle previsioni di sviluppo economico dell’area. Si era lavorato infatti su una ipotesi di incremento demografico di cui era nota l’estrema fragilità, dal momento che non era stata derivata né da un quadro di riferimento più generale - di livello regionale o nazionale - né da uno studio sufficientemente fondato che precisasse il ruolo dell’area milanese nelle nuove soluzioni «programmate» per lo sviluppo nazionale.

Ma oltre questa questione di fondo si richiedeva di sottoporre a “verifica” - nel senso di controllarne l’attendibilità e gli effetti - tutte le ipotesi di carattere specificamente territoriale avanzate per i diversi campi dell’area; e - nel senso di precisarne i meccanismi, i modi di funzionamento e le loro conseguenze - le linee strategiche dell’attuazione del Piano, che nello Schema, in mancanza di informazioni esaurienti sugli indirizzi e sulle volontà politiche, erano state appena accennate.

Alcuni importanti avvenimenti accaduti durante questo secondo periodo di lavoro hanno contribuito oggettivamente a chiarire il campo della pianificazione entro cui il P.I.M. avrebbe dovuto collocarsi. Prima di tutto, il dibattito sulla Programmazione Nazionale e i vari documenti prodotti dai diversi Ministeri del Bilancio che si sono succeduti. Se ne accetti o meno l’impostazione, si concordi o meno con le deduzioni che i diversi gruppi politici ne hanno tratto, quei documenti rappresentano infatti un principio di razionalizzazione della politica economica della nazione e forniscono, se non un quadro, almeno la logica di un quadro al quale è possibile ormai riferirsi nel definire una previsione di sviluppo e quindi un attendibile ruolo per l’area in cui si intende operare. In secondo luogo, il dibattito sulla Legge Urbanistica, che non è certo approdato a soluzioni particolarmente avanzate, e tuttavia ha reso esplicito - si potrebbe quasi dire acquisito - il rapporto di necessità esistente tra pianificazione urbanistica e disponibilità del territorio alle scelte di piano, con tutte le conseguenze di rinnovamento degli indirizzi politici e della strumentazione tecnica che questo comporta.

Altri chiarimenti molto importanti sono venuti dal notevole volume di osservazioni, di consensi e di critiche al Primo Schema […] [2].

Infine chiarimenti sostanziali sono venuti dagli studi che l’Ufficio Tecnico del P.I.M. ha potuto nel frattempo condurre per arrivare ad una visione più precisa del reale stato dell’area e dei suoi contorni e per confrontare la validità di situazioni e di giudizi che nella prima fase del lavoro erano stati assunti per via prevalentemente intuitiva ed in linea di pura ipotesi. […] [3]

Con l’integrazione dei risultati della ricerca pervenuta dall’ILSES sui Caratteri dell’urbanizzazione nell’area milanese, si è arrivati dunque a sapere molto di più di quanto non si sapesse all’inizio dei lavori […].

L’insieme dei vari chiarimenti e l’elaborazione di nuovi temi affrontati nel dibattito - dispersivo e sfocato, ma pur sempre utile - del Comitato Tecnico Direttivo, hanno consentito di mettere a fuoco le molteplici questioni che erano state poste sullo sfondo del Primo Schema. Su questa messa a fuoco la «verifica» ha potuto assumere una proiezione più ampia ed applicarsi non solo a confrontare la attendibilità delle osservazioni e delle linee di azione che erano state prospettate, ma anche ad estenderle e ad inquadrarle in una concezione culturale e operativa più ampia. In questa concezione emergono tre diversi argomenti che debbono essere considerati cardini del nuovo sistema di proposte che qui si presenta: il sistema di relazioni tra i diversi livelli di pianificazione del territorio, il piano come processo, l’organizzazione per distretti del sistema di osservazione e di intervento comprensoriali.

[…]

La verifica e gli assunti di base

Rinviando alle relazioni del 25 luglio 63, alle altre comunicazioni sul tema [4] e ai successivi capitoli di questa Relazione per tutti gli argomenti che qui ci si limita ad accennare, si può cominciare col dire che del Primo Schema si sono conservate le tre fondamentali assunzioni di base:

la prima assume che l’area milanese attraversa attualmente una fase di trasformazione ed evolve naturalmente - per certi aspetti anche contraddittori - verso quel tipo di organizzazione territoriale che è stato definito di “città-regione”. […]

La seconda assunzione di base si fonda sul presupposto che la trasformazione che ci si propone di correggere, accelerare e dirigere può approdare ai fini perseguiti dal Piano se si colloca in un quadro di evoluzione più generale della struttura socioeconomica ed urbanistica nazionale. Le linee fondamentali di questo quadro di evoluzione debbono risultare da una serie di concreti indirizzi istituzionali che perseguano l’eliminazione degli squilibri socioeconomici della nazione attraverso una razionale distribuzione degli investimenti, una composizione di nuovi rapporti tra i diversi settori della produzione e tra spesa pubblica e consumi privati, una equa ridistribuzione del reddito tra le diverse categorie sociali. È chiaro che questi indirizzi non potranno attuarsi se non verranno impiegati gli strumenti per la organizzazione e il controllo del territorio previsti dalla Costituzione e dalla Programmazione. […]

La terza assunzione di base che si ritenuto di dover conservare si riferisce alla necessità di adottare un comportamento realistico nei confronti dei vincoli territoriali, amministrativi e politici presenti attualmente nell’area. […]

[…]

[…] Nell’area milanese essi sono numerosi e multiformi, ma sinteticamente se ne può stabilire una classificazione in tre specie fondamentali: politico amministrativa, normativa, morfologica.

Appartengono alla specie politico amministrativa i vincoli che derivano dalla travagliata genesi del P.I.M. L’attuale dimensione del comprensorio è il risultato di lunghe controversie e di tenaci contrattazioni rivolte a colmare le lacune introdotte dai criteri discriminatori e settoriali ai quali si ispirava il primo decreto di costituzione del P.I.M. Lo sforzo compiuto rappresenta indubbiamente uno dei risultati più positivi e democratici raggiunti nell’urbanistica italiana, ma il risultato risente ancora in modo pesante del peccato originale.

[…]

Alla seconda specie, quella normativa, appartengono i vincoli che derivano dalla disparità degli apparati normativi locali. Non sembra necessario dare particolari ragguagli su questa situazione dal momento che è “visibile” come i numerosi piani regolatori, programmi di fabbricazione, norme, ecc., che agiscono nelle varie amministrazioni dell’area, siano privi non solo di principi di coordinamento, ma anche di ogni base logica comune. Nessun quadro di riferimento, neppure indicativo, è stato mai formulato e proposto per normalizzare le previsioni di intervento degli enti locali o settoriali. D’altra parte è pure “visibile” nelle configurazioni territoriali di ciascun Comune - comprese quelle del Comune di Milano - come indipendentemente dalla mancanza di una normalizzazione, la qualità stessa di ciascun apparato normativo sia scadente e antiquata, commisurata a ritmi e modi di espansione e sviluppo decisamente travolti dalle tendenza attuali [5]. Alla terza specie - quella morfologica - appartengono i vincoli che derivano dal sistema di distribuzione delle attività e dagli standards di insediamento delle funzioni che si rilevano nell’area.

[…]

La verifica e l’analisi positiva del territorio

Il Primo Schema aveva fondato il sistema delle valutazioni territoriali su una descrittiva che è stata notevolmente perfezionata nella seconda fase dei lavori dai risultati delle ricerche condotte sull’area. La sostanza dei giudizi sui fenomeni osservati non risulta però sensibilmente mutata e si può perciò rinviare a quello che era stato detto nelle relazioni del 25 luglio e nei successivi interventi su quanto si riferiva alla analisi dei caratteri degli insediamenti nei diversi settori dell’area, alla distribuzione delle attività e degli interessi, alla localizzazione e alla qualità delle strutture per la mobilità territoriale e delle reti infrastrutturali di attrezzature e servizi.

A proposito di queste ultime gli approfondimenti venuti dalle nuove ricerche hanno confermato l’esistenza di livelli scadenti che già erano stati rilevati ma hanno anche fornito una più precisa valutazione dei vari fenomeni di inefficienza che essi determinano. Questi fenomeni di inefficienza si estendono a tutta l’area, che è da ritenere congestionata in ogni fascia e in ogni settore, indipendentemente dai “quanta” di popolazione che vi sono insediati. Nei settori nord est, nord, nord ovest, la congestione si verifica infatti in presenza di forti densità di popolazione, mentre nei settori sud est, sud, sud ovest, si verifica in presenza di insediamenti a bassa densità. In entrambi i casi però il rapporto tra le quantità di strutture e attrezzature è estremamente basso. Poiché è questo “rapporto” il vero indice rivelatore della congestione, si può dire che il problema della congestione si pone per “ovunque nel territorio” [6]. Non è escluso da questo giudizio il capoluogo dove la spinta alla terziarizzazione è stata compiuta a scapito di una equa distribuzione dei servizi di base: (la città, che era famosa nell’800 per il comfort e la suggestione del suo ambiente urbano, è stata trasformata in un arido agglomerato edilizio privo di attrezzature e di immagine).

L’influenza di questo squilibrio oltrepassa i confini comunali e si riflette sull’intero territorio con un’incidenza che cresce col progredire dei fenomeni di terziarizzazione delle zone centrali. Per cui il problema dell’innalzamento dei livelli comprensoriali non può prescindere da una preliminare inversione di questi fenomeni e quindi dalla rottura della struttura radiocentrica che li determina e li esalta.

Tenendo conto delle varie configurazioni degli insediamenti e delle loro reciproche gravitazioni, il Primo Schema aveva identificato nell’area tre stati territoriali distinti: il primo comprendeva i poli principali che svolgono un ruolo attuale o potenziale nel sistema metropolitano e cioè i territori di Como, Lecco, Bergamo, Brescia, Cremona, Piacenza, Pavia, Vigevano, Novara, Gallarate - Busto - Legnano; il secondo comprendeva il vero corpo “galattico” dello sviluppo dell’area, tutte le aggregazioni più o meno determinate ed eterogenee comprese tra i territori dei poli esterni e l’immediato intorno del capoluogo; il terzo comprendeva il capoluogo e l’area ad esso adiacente e soggetta all’effetto diretto della sua pressione espansiva.

[…]

Nelle linee generali le conclusioni tratte dall’analisi positiva degli stati di fatto sono risultate confermate; ma un esame più accurato delle situazioni interne a ciascuno dei tre stati ha permesso di distinguere una serie di caratteri più specifici di cui si è tenuto conto nel momento normativo dello studio.

[…]

Le proposte normative del secondo schema - Assunti generali e particolari

Le conclusioni dell’analisi positiva del territorio contengono già le premesse delle proposte normative sviluppate nei successivi capitoli di questa relazione e negli elaborati grafici ad essa allegati. Le proposte si articolano però ad una serie di assunti urbanistici generali e particolari che per chiarezza conviene riassumere.

- Più per la sua posizione strategica nel triangolo industriale che per il suo grado di evoluzione intrinseca, l’area ha raggiunto il livello di infrastrutturazione viaria che provoca l’indifferenza territoriale: le grandi arterie di traffico che alimentano il bacino padano costituiscono una rete capace e diffusa che propaga sollecitazioni localizzative in tutto il territorio. Si dissolve nel concreto la tradizionale opposizione tra città e campagna e non per una evoluzione della struttura economica di quest’ultima, ma per il semplice fatto che ogni sua parte tende ad essere luogo di potenziale localizzazione. La città e la campagna si identificano, come si è detto, in un “continuo urbanizzato” che è caratterizzato dalla diffusione omogenea delle occasioni di sviluppo e perciò richiede una omogenea tensione di controllo urbanistico.

- La graduale diffusione di condizioni di indifferenza territoriale nell’area ha un notevole valore positivo nel fatto che generalizza le opportunità di localizzazione e di conseguenza, moltiplica le scelte; ha però un aspetto negativo nel fatto che demolisce alcuni vincoli naturali che potevano essere usati da argini alla espansione indiscriminata. Gli aspetti positivi e negativi possono essere rispettivamente incrementati e ridotti soltanto se si agisce alla radice dei fenomeni che hanno determinato l’indifferenza stessa e cioè sul modo di distribuzione delle linee viarie che intersecano l’area; sui collegamenti dell’area col territorio nazionale e con i poli regionali; su questi stessi poli, per indurvi modificazioni che si riflettano sull’equilibrio generale nel senso voluto. Si possono incrementare gli aspetti positivi e ridurre gli aspetti negativi dei fenomeni provocati dall’indifferenza territoriale solo estendendo l’azione «riflessa» del piano intercomunale fino ai limiti della regione e al di là di essi.

[…]

- Nella situazione di omogenea distribuzione delle possibilità insediate a cui tende il continuo urbanizzato la ricerca di rapporti lineari tra valori socioeconomici e posizione territoriale perde ogni capacità operativa. La distribuzione nell’area di interessi socioeconomici tende infatti ad assumere andamenti complessi, influenzati più dalla qualità delle relazioni tra i punti nodali delle strutture e delle attrezzature che dai tradizionali fattori di localizzazione. Gli interscambi o comunque le corrispondenze funzionali o strutturali o perfino formali tra i nodi delle maglie di infrastrutture (servizi, attrezzature, strade) sono ormai i veri fattori di localizzazione: tanto più attivi ed efficienti quanto più sono complessi ed integrati. […]

- Ancora a proposito di ristrutturazione del territorio e tenendo conto di quanto si è detto sui fattori che maggiormente sollecitano la localizzazione si può aggiungere che l’identica inutilità dei procedimenti fondati sulla presunta linearità dei rapporti tra valori e posizione territoriale la si ritrova nei procedimenti fondati sul principio dello “zoning”. Infatti l’organizzazione dell’area in distinte zone ad attività predestinata, oltre a ridurre i vantaggi della “indifferenza”, rende assai difficile di eliminarne i pericoli: l’organizzazione zonale si irrigidisce negli schemi distributivi delle destinazioni e perde ogni capacità reattiva ed ogni possibilità di assorbimento degli sviluppi che sfuggono alle previsioni. Lo stesso può dirsi per ogni operazione fondata sul principio della “dimensione conforme”, che dal punto di vista concettuale rappresenta in definitiva una generalizzazione del principio dello “zoning” [7] La riunione o la frammentazione del territorio in sistemi di grandezza ottimale […] ripropone ancora una volta la città come fenomeno emergente e isolato in un contesto agricolo col quale ha rapporti di assoluta contrapposizione. Nel comprensorio del PIM né il principio dello zoning né il principio della dimensione conforme possono trovare applicazioni ragionevoli. L’uno e l’altro, a diversa scala e con diverse conseguenze, sono espedienti per perseguire l’ordine attraverso la disaggregazione: il contrario di quanto sembra necessario per l’area milanese dove l’ordine deve derivare dalla preliminare rottura dei compartimenti gerarchici tradizionali e dalla successiva ricomposizione delle parti in una nuova entità enucleata ma omogenea, senza confini.

- In una concezione aderente alla realtà dello sviluppo dell’area e coerente con gli obiettivi perseguiti, il rapporto tradizionale tra mobilità territoriale e localizzazione assume nuovi significati. In primo luogo non sussiste il principio della dipendenza della mobilità alle localizzazioni, inoltre non sussiste la “necessità” di rendere minima la mobilità per raggiungere la massima efficienza degli assetti territoriali. Il continuo urbanizzato è riconducibile ad un sistema costituito di attrezzature non distribuibili, attrezzature distribuibili e trasporti [8].

Col crescere dello sviluppo tecnologico e con l’innalzarsi del grado di infrastrutturazione, le attrezzature distribuibili tendono ad aumentare e le attrezzature non distribuibili tendono a diminuire. Si può dire che in un’area evoluta come quella milanese continuano ad essere non distribuibili solo alcune attrezzature strettamente legate a permanenti vincoli geografici - i laghi, i parchi, i fiumi, ecc. - o a condizioni che ancora determinano economie interne ed esterne rilevanti - industrie di base solidamente impiantate, aggregati produttivi complementari, ecc. La gran parte delle attrezzature sono invece distribuibili e col crescere dell’infrastrutturazione lo divengono sempre più; acquistano cioè un sempre maggiore margine di dislocabilità. Ne risulta che il problema di raggiungere la loro massima fruizione, che è centrale rispetto agli obiettivi di efficienza territoriale, si può risolvere agendo sui loro collegamenti come sulla loro reciproca posizione. Questo significa che le relazioni tra mobilità e localizzazione divengono più complesse di quanto non fossero quando erano concepite in un rapporto di dipendenza e che in questa maggiore complessità ciascuna delle due variabili assume ampie funzioni. […]

[…]

- Il sistema di mobilità nel comprensorio ha una struttura essenzialmente radiale convergente sul capoluogo. […] Il sistema si estende al di là dell’area intercomunale ed è parte preponderante del tessuto di comunicazioni del triangolo industriale; nel quale si collega ai sistemi, anch’essi radiali ma meno cospicui, degli altri due vertici. All’interno dell’area dà luogo ad altri minori sistemi analoghi in corrispondenza dei poli e sottopoli che si assestano sui suoi raggi principali.

Uno dei fondamentali problemi della riorganizzazione del territorio è quello della rottura del sistema radiale delle comunicazioni, perché lo si riconosce vincolativo della trasformazione che si vuole ottenere. Nella decisione dei provvedimenti per attuare questo fine le scelte metodologiche e operative sono state influenzate da tre posizioni principali.

La prima assumeva che una modificazione del sistema radiale non poteva essere intrapresa solo attraverso interventi limitati all’area e non correlati a proposte di largo raggio incidenti sul tessuto di comunicazioni della regione, del triangolo industriale, della pianura padana, ed oltre. Per questo le proposte sono state estese a tutto il territorio dell’Italia settentrionale per il quale è stato progettato un nuovo schema a reticolo, fondato sul principio di collegare i fuochi di interesse territoriale (i valichi, i porti, i bacini industriali, i poli urbani principali) con un sistema distributivo il più neutrale possibile nei confronti delle localizzazioni preesistenti.

La seconda proposizione assumeva che la trasformazione del tessuto delle comunicazioni dovesse tener conto nella maggior misura possibile degli impianti esistenti, nel senso di utilizzarli al massimo nella nuova configurazione. Sembrava assurdo infatti di dover concepire un radicale rinnovo della rete viaria che implicasse una cospicua perdita degli investimenti effettuati in passato, anche se giudicati errati; né si poteva immaginare che la riorganizzazione dovesse convogliare verso questo settore risorse troppo cospicue, soprattutto tenendo conto che quelle già destinate nell’immediato passato sono da considerare eccessive, anche secondo un giudizio del Programma Nazionale del tutto condiviso. […]

La terza assunzione si riferisce ai limiti di integrità dello schema adottato. La distribuzione reticolare sembra la migliore nella situazione generale in cui si deve intervenire ed in relazione agli obiettivi di decentramento che ci si propone di raggiungere; questo però non significa che essa rappresenti il tipo distributivo ottimo per ogni situazione particolare del territorio. Si hanno infatti nell’area zone che conviene alleggerire e zone che occorre invece incentivare perché sono al di sotto dei livelli ammissibili e perché la loro incentivazione consente l’alleggerimento delle altre. La radiocentricità, o comunque la convergenza, dell’impianto viario può dunque essere assunta come un mezzo efficace per indirizzare gli interessi nelle zone dove è utile concentrarli.

Questo non significa che lo schema reticolare adottato debba essere contraddetto nelle parti del comprensorio dove risulta utile ricorrere all’espediente della concentrazione. Significa invece che esso deve essere rigorosamente applicato nelle grandi linee organizzative della mobilità territoriale a largo raggio, dove il problema si pone in termini di ottimo scorrimento e quindi di differenziazione gerarchica degli obiettivi e delle funzioni che caratterizzano i flussi; mentre nel passaggio dalle grandi linee alle linee organizzative più particolari e interne al comprensorio, dove gli stati attuali e le trasformazioni impongono una più complessa strumentazione degli interventi e dove la selezione dei flussi non richiede o non ammette una drastica separazione delle funzioni, lo schema reticolare deve articolarsi in configurazioni più ramificate e commiste. In questo passaggio lo schema iniziale deve poter confluire in altri schemi se risultano più appropriati alle esigenze dell’area che alimentano, siano essi radiocentrici o di altro tipo. Si è ricercata dunque la massima aderenza delle soluzioni viarie ai reali scopi del traffico visti in funzione della complessiva organizzazione del territorio, rifiutando gli atteggiamenti univoci che derivano dalla considerazione prioritaria di uno degli elementi organizzativi in gioco - i trasporti o gli insediamenti o i servizi, ecc. - e che portano inevitabilmente a proposizioni astratte e ineffettuali, come è ampiamente dimostrato da una ormai lunga esperienza urbanistica [9].

- Gli stessi principi adottati per la riorganizzazione del sistema viario sono stati adottati per la riorganizzazione del sistema ferroviario. Per le soluzioni scelte in entrambi i casi si rimanda ai successivi capitoli di questa relazione, ma si deve ancora aggiungere però che, per quanto riguarda le ferrovie, il problema dell’adattamento a quanto è precostituito, ha inciso con un peso ancora maggiore. È chiaro infatti che il concetto della flessibilità e della commistione delle linee di flusso trova in questo settore vincoli particolarmente incisivi, dovuti non solo alla intrinseca rigidità degli impianti esistenti e al loro costo, ma anche alle particolarità che ciascun impianto presenta.

[…] Questi vincoli insieme alla considerazione dei costi imposti da modificazioni radicali e del tempo che esse richiederebbero per essere attuate, hanno costretto a delineare soluzioni più rigide di quanto sarebbe stato possibile immaginare, in astratto, per una situazione meno vincolata di quella in cui si deve operare.

- Le conclusioni cui si è pervenuti a proposito delle comunicazioni vanno viste in relazione alle conclusioni raggiunte a proposito della riorganizzazione della struttura e della distribuzione degli insediamenti. Si tratta infatti di un unico gruppo di conclusioni correlate, derivate da un avvicinamento globale al problema del territorio, considerato come un unico urbanizzato in cui i fattori di mobilità e di localizzazione si pongono come variabili interdipendenti.

L’obiettivo di sostituire il sistema radiocentrico con un sistema articolato ed equipotenziale è stato perseguito rompendo la configurazione viaria e ferroviaria che attualmente converge il flusso degli interessi verso il polo centrale, ma è stato perseguito allo stesso tempo proponendo una nuova distribuzione degli insediamenti che agisca sui loro attuali schemi organizzativi e sul complesso delle loro relazioni esterne. […]

[…]

Nell’impostare lo studio degli interventi sulle localizzazioni ci si è riferiti alle distinzioni rilevate in sede di osservazione sui tre stati territoriali dell’area; si è tenuto conto però delle differenziazioni interne ad ogni “stato”, colte attraverso le analisi condotte dopo la presentazione del Primo Schema, ed anche di quanto è stato possibile precisare a proposito della struttura territoriale dei Poli esterni e dei tessuti agricoli che si estendono a sud del capoluogo. Questo insieme più omogeneo e più raffinato di informazioni ha consentito di mettere meglio a punto i nuovi presupposti organizzativi del sistema regionale nonché i processi di ristrutturazione previsti per l’area centrale, ed ha portato a revisionare radicalmente la serie di proposizioni relative ai cosiddetti tessuti intermedi, che il Primo Schema stesso aveva indicato come punto debole delle sue previsioni.

Il nuovo disegno territoriale delineato dal Secondo Schema propone in sintesi di realizzare un unico sistema che sia in grado di assorbire il decentramento non solo da Milano, ma da tutto il triangolo, ed imposta lo sviluppo di questa operazione su alcune linee di azione che investono con diverso metodo e con diversa incidenza operativa le varie parti dell’area.

I Poli esterni del Nord sono riconosciuti congestionati dal punto di vista spaziale, in molti casi incapaci di sopportare ulteriori convergenze di attività se non a patto di interventi di razionalizzazione che dovranno compiersi all’interno delle loro aree di influenza con criteri dello stesso tipo di quelli proposti per l’area centrale del comprensorio milanese. I Poli del Sud, pure congestionati per il difetto di attrezzature adeguate alle strutture che contengono e tuttavia troppo debilitati per produrle, richiedono interventi che indirizzino su di loro cospicui rafforzamenti di attività - solo a queste condizioni essi potranno sostenere un ruolo nella nuova configurazione regionale ed agire nello stesso tempo per l’equilibrio del sistema e per il rafforzamento dell’agricoltura. Il fuso che comprende i poli di Alessandria, Pavia, Piacenza e Cremona costituisce un complesso territoriale in cui la rete delle comunicazioni e la localizzazione puntuale dei centri urbani sono previsti in modo da conseguire la robustezza necessaria ad assumere una funzione alternativa per tutta l’area. La sua presenza diaframma l’agricoltura in due distinte zone - che filtrano l’una nell’altra attraverso i larghi interstizi tra le localizzazioni - e tuttavia si distinguono identificandosi nel sud con l’area agricola padana ed assumendo verso nord una funzione costiera influenzata dalla aree di consumo adiacenti. Ne consegue una chiarificazione organizzativa fondamentale nella quale il fuso agisce nei confronti dell’attività primaria limitando le sue tendenze al dissesto, in un’area dotata di precisi confini entro la quale si debbono compiere interventi di riconversione.

L’azione sui poli periferici è esterna al campo di diretta influenza del Piano; d’altra parte non può prescindere da questa azione alla quale deve riferire tutti gli interventi che esso prevede per l’area sottoposta al suo diretto controllo. La soluzione di questa apparente contraddizione rappresenta il punto critico di tutta l’operazione intercomunale, un nodo che condiziona non solo la scelta degli strumenti di intervento ma tutta l’impostazione istituzionale e metodologica del processo di pianificazione. Per questo oltre a fornire indicazioni circa il destino dei Poli del Nord e la riqualificazione dei Poli del Sud nel Fuso, sono state avanzate precise proposte per il territorio che a Nord e a Sud è compreso tra i poli e l’area comprensoriale. Queste proposte definiscono la formazione e la funzione di una serie di centri di urbanizzazione - chiamati “poli aggregativi” - che agiscono come epicentri consolidati in tutto il territorio intermedio tra l’area milanese e i poli regionali.

La definizione della fascia agricola del Sud chiarisce anche i diversi modi in cui si deve intervenire nelle zone intermedie del comprensorio, nei settori settentrionali, meridionali e delle spalle. È stato detto che a Nord l’area sembra dotata di una precisa vocazione metropolitana mentre nel Sud e nei settori orientale e occidentale si presenta oscillante tra una debole resistenza dell’attività primaria e una pressione intensa ma sporadica delle forze di urbanizzazione. Nel sud, riequilibrati questi tessuti oscillanti con la formazione della fascia agricola - che allo stesso tempo ristabilisce e difende la continuità delle aree agricole - il problema si pone in termini di struttura e morfologia degli insediamenti destinati, in questa parte dell’area, ad assorbire la massa demografica disponibile, che non può localizzarsi nei tessuti del Nord né del capoluogo oltre la misura ammissibile per non accrescerne la congestione. Calcolata la massa di manovra, risulta che la sua localizzazione deve essere concentrata, perché è questo il solo mezzo per portare anche nel Sud e alle spalle quel patrimonio di attrezzature necessario ad elevare i livelli di insediamento realizzando l’obiettivo di diffondere anche nelle zone più depresse le condizioni insediative desiderate per l’intero territorio. Da questo principio è derivato il sistema di “nuclei aggregati distrettuali” con attribuzioni diverse nei vari settori del comprensorio. Nelle aree del sud, dove l’urbanizzazione è ancora rada, esercitano una funzione di polarizzazione delle attività sparse che si diffondono tra il fuso A.P.P.C., i poli aggregati e il capoluogo.

Nelle aree del nord, per le quali è stata riconosciuta una elevata tendenza alla metropolizzazione, il problema di fondo è invece quello di mettere a punto nuovi principi organizzativi che possano districare un equilibrio territoriale nella esplosione delle aggregazioni originarie. Qui in ogni caso l’azione deve tendere a decomprimere l’area riducendo la pressione insediativa che si esercita naturalmente.

Il che si vuole ottenere non solo attraverso le alternative create nel sud e nelle spalle meridionali, ma anche per effetto dell’azione selettiva - non diffusiva - del nuovo impianto viario. Il nuovo andamento delle linee di comunicazione viaria e ferroviaria, la loro nuova classificazione ed il nuovo modo in cui esse organizzano le divergenze e le coincidenze dei flussi principali danno luogo a vuoti o ad addensamenti di attrezzature a largo raggio che divengono altrettante occasioni di repulsione o attrazione nei continui urbani esistenti. Intorno alle massime condensazioni di attrezzature sono stati previsti infatti i nuclei aggregativi distrettuali dell’arco settentrionale.

Per lo stato territoriale corrispondente al capoluogo e all’intorno direttamente investito dalla sua forza espansiva, il principio degli interventi non è sostanzialmente cambiato rispetto alle precedenti proposte, anche se le allusioni morfologiche cui si era allora riferiti hanno lasciato posto a definizioni più precise e, forse, meno disponibili ad equivoci di interpretazione. La maggiore conoscenza dei tessuti urbani delle zone di sviluppo della città ha permesso di acquisire l’esatta misura in cui si manifestano i fenomeni di deterioramento della sua seconda corona. Si è detto come questa area cieca debba essere considerata il supporto più solido della organizzazione egemonica del territorio e si è detto anche come la sua ricostituzione sia essenziale per un efficace intervento di ristrutturazione del comprensorio che rovesci i supporti dell’egemonia, coerentemente con gli obiettivi stabiliti. L’appiglio per operare il rovesciamento è rintracciabile in alcune tendenze che già si manifestano sotto forma di contraddizione al sistema esistente. Si verifica infatti per via naturale che alcune iniziative spontaneamente scavalchino la seconda corona per ritrovare al di là di essa migliori condizioni per la costituzione di più alti livelli insediativi. Queste iniziative, sporadiche e casuali, in linea generale incrementano il deterioramento della seconda corona ma in alcuni casi particolari - lungo le linee del loro sviluppo - finiscono col provocare azioni di rinnovamento poiché stabiliscono nuovi flussi di relazioni col vero centro, rimuovono le attività e i servizi dalle loro localizzazioni tradizionali, modificano i valori delle aree e degli immobili, ecc. [10].

Il sistema di interventi che si propone prende partito da questa tendenza naturale, per ora casuale e indeterminata, e la trasforma in un obiettivo tecnico deliberato. Creando insediamenti di alto livello nella terza corona, localizzati attorno ai nodi di attrezzature a largo raggio che debbono essere accesi dalle corrispondenze delle maglie infrastrutturali, ci si propone di scatenare nuovi archi di interessi col vero centro urbano che si riflettano sulla seconda corona provocandovi una forte azione di rinnovo. Questa azione provoca una sostanziale rettifica della politica urbanistica del Comune di Milano ed in particolare la rinuncia alle tendenze accentratrici e colonialiste che ha dimostrato finora di voler perseguire, mirando ad accrescere la funzione terziaria direzionale del suo centro e ad espellere all’esterno le localizzazioni destituite di interesse per questa funzione o incapaci di competere con essa. Per cui la rettifica della politica urbanistica significa in concreto riduzione - o in molti casi sospensione - degli investimenti pubblici e disincentivazione degli investimenti privati diretti alla prima corona, loro convogliamento nella terza corona per la creazione di nuove strutture urbane ad alto livello di attrezzatura, sollecitazione al rinnovo dei tessuti della seconda corona man mano che gli effetti dello scavalcamento cominciano a modificare i presupposti della sua attuale configurazione.

[…]

Il piano come processo

[…]

Il vero significato della città-regione, come interpretazione dei fenomeni di sviluppo urbanistico e come metodologia di controllo dello sviluppo stesso, sta nell’aver sostituito all’idea statica e prefigurata della città tradizionale, l’idea di una città che si compie e si configura in un sistema continuo di relazioni dinamiche; per cui ad ogni fase di sviluppo le configurazioni raggiunte nella fase precedente si ricompongono in configurazioni nuove, coerenti con gli aspetti della realtà che in quel preciso momento emergono dalla continua mutazione dei fattori che concorrono allo sviluppo. La città-regione è dunque un processo di organizzazione territoriale che deriva le sue ragioni concettuali e operative dal riconoscimento della necessità di dilatare il problema del controllo del territorio fino ad assumere tutte le componenti che concorrono a modificarlo […].

Si è già detto come nell’ottica di questa interpretazione perdano senso alcune proposizioni che erano tipiche di una concezione tradizionale della realtà urbana; per esempio la dicotomia esplorativa e operativa tra città e campagna, l’organizzazione urbana per zone a funzione predestinata ( zoning), la dimensione conforme e la su conseguenza - che è anche suo presupposto - dell’osservare e progettare una configurazione urbana in termini di quantità di popolazione anziché in termini di relazioni tra strutture e attrezzature presenti in un’area, qualunque sia la sua dimensione e la sua posizione. Quest’ultima proposizione e l’alternativa che si è appena enunciata permettono di chiarire un’altra novità di interpretazione tra le più tipiche ed essenziali del nuovo modo di avvicinamento al problema urbano. Svincolando l’idea di efficienza territoriale dal numero degli abitanti presenti in un’area e legandola invece al raggiungimento di uno stabilito livello del rapporto tra strutture e attrezzature, si deve assumere automaticamente il taglio dell’orizzonte temporale degli interventi come “dato” del processo di pianificazione che si vuol attuare. Il problema infatti non è più quello di predisporre l’organizzazione del territorio per il numero x, y, z, degli abitanti che si prevede di dover ospitare entro il periodo h, y, j, di anni, ma invece quello di raggiungere entro un periodo a, b, c, i livelli di insediamento ritenuti necessari ad un dato grado di sviluppo economico, sociale e tecnologico del territorio. E mentre x, y, z, sono legate ad h, y, j, da una previsione derivata dall’analisi delle tendenze e delle forze che tendono a modificarle; a, b, c, rappresentano il tempo entro il quale si vuole realizzare l’operazione di modificazione dei livelli; sono l’indice di una decisione e non l’ipotesi derivata da una valutazione (che il più delle volte ha forti immagini di azzardo) [11].

L’orizzonte temporale posto come “dato” è dunque strettamente connesso con gli obiettivi; è parte integrante dell’enunciazione degli obiettivi stessi poiché esprime il tempo in cui una nuova “qualità” del sistema organizzativo deve essere raggiunta: oltre il quale la “qualità” è superata, perché si modificano le condizioni che l’hanno richiesta e con esse la scala di valori degli standards cui ci si è riferiti.

La definizione dell’orizzonte temporale, vista in questa prospettiva, deve necessariamente collocarsi entro i limiti di due fondamentali condizioni: essere fondata su una larghissima base di informazioni ed essere il più accorciata possibile. Si intende per informazioni, non solo quelle che possono essere derivate dall’analisi tecnica e interdisciplinare degli stati di fatto e delle tendenze in atto, ma anche quelle che debbono pervenire dalla trasmissione diretta di giudizi ed aspirazioni da parte del maggior numero di forze direttamente interessate allo sviluppo del territorio.

Queste forze debbono essere «nel Piano», e non «fuori dal Piano» come sono sempre state, non solo perché il processo di pianificazione possa assumere reale sostanza democratica, ma soprattutto perché possa svolgersi in un contesto di effettiva razionalità. Il presupposto della razionalità è infatti nella più ampia disponibilità di informazioni e questa non può essere conseguita se non accade che tutte le forze impegnate a trasformare direttamente o indirettamente il territorio […] possano confrontarsi entro il campo di osservazione del piano. Solo così sarà possibile valutare esattamente le tensioni e, su questa valutazione, di costruire la scala di valori alla quale si riferiscono gli obiettivi della pianificazione.

I quali obiettivi, proprio perché si articolano ad una scala di valori che si modifica col variare dialettico delle tensioni tra le forze in gioco, sono anch’essi soggetti a modificazioni; che debbono avvenire nell’esatto momento in cui se ne manifesta la necessità e che possono avvenire con prontezza tanto più sensibile quanto più è scorrevole la trasmissione dalla periferia al centro organizzativo del piano e viceversa. L’esigenza di una ampia partecipazione introduce dunque la concezione del piano come processo di fini e mezzi e riconduce la sua azione ad una alternanza illimitata di proposte e verifiche entro la quale continuamente si aggiustano non solo i mezzi, in relazione alla precisione dei fini, ma i fini stessi in relazione al rinnovamento dei mezzi. Questa concezione esclude la possibilità che il Piano si configuri in una decisione unica e permanente, valida una volta per tutte; ma anche presuppone che l’orizzonte temporale venga accorciato il più possibile, in modo da lasciare adito alle modificazioni che si proporranno nel suo divenire come processo. Non si tratta, è chiaro, di ridurlo ad una serie di interventi a breve termine ma di collocare ogni periodo, lungo o breve che sia, entro tempi esattamente commisurati alle necessità delle azioni che si debbono compiere. Allo stesso tempo, si tratta di prevedere per il “lungo periodo” lo stretto necessario, e di attuarlo con i mezzi più flessibili per ridurre al massimo le occasioni di irrigidimento del processo: al limite di conseguire gli obiettivi lontani, dati come traguardi, attraverso la concatenazione di interventi a tempi raccorciati, che possano trovare i loro reciproci aggiustamenti nei momenti della loro saldatura. La rotta del processo deve essere garantita dalla continuità delle azioni del piano; dall’istituto del Piano, inteso come organo permanente di osservazione e di controllo del territorio. […]

La concezione del Piano come processo esclude automaticamente tutte le soluzioni urbanistiche che nascono da preconcette figurazioni morfologiche o strutturali.

Queste soluzioni che ancora esercitano suggestioni, per il fatto che sembrano poter risolvere in modo unitario e definitivo tutti i problemi territoriali, nel concreto della realtà non solo risultano ineffettuali ma anche limitative della partecipazione e quindi dell’allargamento della base di razionalità del piano. […]

Il piano come processo non può evidentemente conciliarsi con questo tipo di soluzione. Per il piano come processo la figurazione morfologica e strutturale è una delle componenti dell’azione, anche se nei risultati finali essa assume significati conclusivi e rivelatori della qualità delle situazioni raggiunte. Il fuoco dell’interesse è nelle relazioni che si stabiliscono tra le volontà politiche, le scelte economiche, i comportamenti sociali, i livelli delle strutture e delle attrezzature territoriali, i caratteri formali ed espressivi dell’ambiente fisico. Gli interventi sono rivolti alla modificazione di queste relazioni e agiscono sulle diverse componenti nell’ottica delle loro reciproche influenze.

Il consenso non è un vincolo ma una variabile, che si risolve nel divenire del piano, man mano che il libero esercizio della contestazione chiarisce, nel quadro degli obiettivi generali stabiliti, gli obiettivi particolari verso cui occorre dirigersi, e identifica i metodi e gli strumenti necessari per aggiungerla. Le decisioni del piano non sono il risultato di una delega di potere, ma l’espressione di volontà in movimento che si confrontano e si organizzano in forme pluralistiche di governo.

La forma prefigurata è sostituita da impianti fluidi e interpenetrali che crescono e si configurano nei successivi tempi del processo di piano, coerenti con ogni fase del suo sviluppo.

L’organizzazione per distretti del sistema di osservazione e di intervento comprensoriale

[…]

Si è detto come in sede di intervento l’intero campo comprensoriale sia stato ricondotto ad una unità operativa, si è detto d’altra parte come all’interno di questa unità si manifesti una mancata differenziazione degli stati di fatto e come le azioni particolari previste dal piano siano state caratterizzate da specificazioni e gradualità commisurate alle differenze esistenti. Questa contraddizione, tra il carattere specifico delle diverse proposte e l’unità del sistema generale entro cui esse si inquadrano può essere risolta entro campi di intervento dimensionati in modo da attuare una effettiva mediazione tra decisioni locali e centrali, e delimitati in modo da aderire il più possibile alle convergenze ecologiche delle diverse parti del territorio. Si è perciò suddiviso il comprensorio in subcomprensori - che sono stati chiamati “distretti” - i cui limiti concludono aree nelle quali i problemi di sviluppo del piano possano essere ritenuti omogenei. Lo stesso territorio del capoluogo è stato incluso in queste aree dopo essere stato suddiviso in settori assimilabili a ciascuna di esse. I distretti sono da considerare dunque una derivazione del concetto di «piano come processo»; perciò essi sono destinati in primo luogo ad agire da supporto al sistema di decentramento del piano stesso. La dimensione comunale è, nella generalità dei casi del comprensorio, troppo piccola e troppo poco attrezzata di strumenti per poter svolgere un ruolo incisivo nel processo delle decisioni; d’altra parte la presenza delle autorità locali deve essere nel piano il più possibile autentica e sostanziale per garantire la democraticità delle scelte. Il distretto sembra il “luogo” più appropriato per assicurare una partecipazione paritetica e attiva, dal momento che la sua dimensione riconduce concretamente alla portata locale i problemi che si manifestano nello svolgersi della pianificazione comprensoriale.

[…]

Il sistema di relazioni tra i diversi livelli di pianificazione del territorio

[…]

Uno dei problemi più scottanti della vita politica, economica e sociale del nostro paese è costituito dalla definizione degli ambiti e dei rapporti intercorrenti tra i diversi livelli di programmazione.

I gravi squilibri territoriali e settoriali, l’entità della spesa pubblica, la necessità di superare l’ambito angusto dei bilanci annuali, hanno fatto sì che in modo quasi spontaneo e non coordinato, venissero alla luce piani pluriennali di amministrazioni locali, piani comprensoriali, piani provinciali, piani regionali (nelle regioni a statuto speciale) e, oggi, un piano nazionale.

Se peraltro non è difficile spiegare storicamente le ragioni del mancato coordinamento ed inquadramento di queste esperienze, è certo che questo stato di cose oggi appare causa di conflitti, di sovrapposizioni, di iati.

Il piano nazionale si limita per il momento a fissare gli obiettivi ed a adottare strumenti soltanto a livello macroeconomico per grandi aree e grandi settori dell’economia nazionale, ristrutturando e sintetizzando i livelli di intervento in questo ambito, senza recepire, verificare, coordinare quanto programmato a scala più bassa. Manca il quadro regionale, che trova il proprio naturale ambito nella programmazione a “medio raggio”, offrendo un punto d’incontro indispensabile tra la programmazione nazionale e quella provinciale o meglio comprensoriale. […]

Neppure è stata definita finora la natura e gli ambiti della programmazione comprensoriale: coesistono a tutt’oggi piani puramente urbanistici accanto ad altri con obiettivi più vasti fino ad arrivare a piani di vero e proprio sviluppo sociale, che si propongono di intervenire tanto nelle strutture urbanistiche, quanto - seppure in misura non organica - in quelle economiche e sociali della propria area di competenza. E non vi è dubbio che “Le linee programmatiche e gli obiettivi del Piano Intercomunale Milanese” adottate dall’Assemblea dei Sindaci il 17 febbraio 1963 collocano il PIM tra questi ultimi e in una posizione di avanguardia. Piano di sviluppo sociale, abbiamo scritto. E tuttavia intendiamo sottolineare come questa definizione sia intenzionalmente vaga e limitativa. Infatti anche le esperienze più avanzate, come appunto quella del PIM, hanno indubbiamente sofferto, per l’impossibilità di trovare nel quadro delle istituzioni vigenti, una collocazione ed una definizione tale da comprendere oltre agli aspetti urbanistici anche quelli economici della programmazione. […]

[…]

Se la programmazione nazionale può essere definita come piano globale e quella regionale come piano a medio raggio, quella comprensoriale appare per propria natura come programmazione a breve raggio investente un’area nella quale lo sviluppo può essere ricondotto ad un livello di omogeneità tale da permettere il controllo dei fenomeni che intervengono nello sviluppo stesso e che da questo derivano.

Nella definizione di rapporti tra piani comprensoriali e piani a livello più elevato sono evidenti due pericoli relativi alla considerazione:

a)dei piani comprensoriali come gerarchicamente e burocraticamente subordinati a quelli superiori, e quindi come mera attuazione ed estrinsecazione di questi ultimi;

b)delle aree comprensoriali come “isole” all’interno delle quali i piani possano essere preparati, definiti, attuati in assoluta autonomia rispetto al più ampio contesto regionale e nazionale.

Il piano comprensoriale nasce dalla constatazione che gli ambiti puramente municipali non sono più sufficienti a far fronte ad una serie di fenomeni a livello economico, sociale ed urbanistico (congestionamento, degrado, speculazione fondiari a vasto raggio, ecc.); che la settorializzazione degli interventi rappresenta in realtà un ostacolo al controllo complessivo sul territorio; che di conseguenza la battaglia per la difesa e lo sviluppo dell’autonomia comunale vanno combattute ad un livello più elevato dai Comuni associati. In tale prospettiva il problema cardine per l’Ente Locale non è più quello di essere “formalmente” autonomo nel proprio ambito giurisdizionale e territoriale, quanto quello di poter esercitare in modo effettivo le proprie funzioni, anche attraverso la creazione di nuovi strumenti e di nuovi istituti. […]

Sotto questo profilo, appare evidente che i Comuni associandosi a livello di comprensorio, e permanendo come organi insostituibili di potere democratico, possono esprimere istanze valide anche nei riguardi della programmazione a livello superiore non soltanto nel campo urbanistico ed amministrativo, ma anche in quello economico e sociale. Il pericolo insito nella generalizzazione dei piani consiste proprio nel rendere i livelli inferiori responsabili esclusivamente verso quelli superiori, togliendo ad essi ogni autonomia, e rendendo peraltro tutto il processo di programmazione autoritario, burocratico e riducendolo, nel migliore dei casi, a pura operazione tecnocratica.

Questo principio non sta a significare che i piani a livelli superiori debbano essere intesi come pura sommatoria dei piani a livello inferiore. In modo schematico dunque il processo della programmazione democratica dovrebbe comprendere le seguenti fasi:

1)di elaborazione degli obiettivi generali del piano compiuta dagli organi nazionali in collaborazione con i livelli inferiori di piano con specificazioni territoriali di grande scala e con l’approntamento delle scelte di quadro;

2)di preparazione e definizione dei piani a livello inferiore inquadrati nei livelli di coerenza di cui sopra. La programmazione regionale nei riguardi della programmazione comprensoriale dovrebbe funzionare in limiti più ristretti nella prospettiva accennata per quanto riguarda i rapporti tra piano nazionale e livelli inferiori;

3)di sintesi, razionalizzazione e verifica dei piani a livello più basso, ormai definiti, a scala più elevata (programmi comprensoriali su scala regionale; programmi regionali su scala nazionale);

4)di specificazione degli obiettivi a livello più elevato ed adozione degli strumenti e delle politiche di attuazione.

Un processo questo all’interno del quale i rapporti tra il vertice e la base non sono mai configurati come univoci ma tali da sostanziare una dialettica continua tra i diversi livelli nelle fasi di preparazione, definizione, attuazione. Un processo quindi nel quale, al limite, non esistono neppure i livelli diversi di piano, ma una concatenazione senza soluzioni di continuità di momenti e di atti di pianificazione [12].

Come è stato sottolineato, la situazione delinea soltanto i primi passi in tale direzione e prefigura un lungo periodo di transizione e di esperienze. Per tutto questo periodo dunque i piani comprensoriali, come manifestazioni della volontà degli Enti Locali, dovranno essere ritenuti innanzitutto responsabili verso le forze che li hanno espressi. Nulla ipotecando per il futuro, anzi sollecitando una più matura dialettica tra i vari livelli di programmazione, i comprensori dovranno preparare, definire, attuare i propri piani in condizioni di piena autonomia. In questa prospettiva sarà fin d’ora necessario per l’azione comprensoriale far risaltare tutti gli elementi di concordanza e di incontro con il piano nazionale, ponendo in atto direttamente nel proprio territorio ed indirettamente anche al di fuori del proprio ambito tutti quegli strumenti che possono concorrere alla pronta attuazione del piano stesso.

Già oggi al Piano Comprensoriale Milanese si presenta una vasta area di intervento in tale direzione: il piano Pieraccini come già le linee del rapporto Giolitti, indicano per il triangolo industriale un’azione di contenimento della spesa a scopi infrastrutturali, una politica di disincentivazione del flusso migratorio, una politica di riequilibrio degli investimenti industriali a favore delle zone depresse del territorio nazionale. In modo autonomo e fin dall’inizio, il piano comprensoriale ha già fatto propri tali obiettivi e su di essi ha fondato le proprie scelte operative.

Nei riguardi di tutta una serie di scelte di quadro politiche, economiche, istituzionali - come Legge Urbanistica, politica di perequazione tra le diverse zone ed i diversi settori dell’economia nazionale, attuazione dell’Ente Regione - il piano comprensoriale deve proporsi come elemento di pressione, sollecitando innanzitutto prese di posizione da parte degli Enti Locali, portando attraverso ai propri elaborati elementi di discussione e di presa di coscienza presso l’opinione pubblica, intervenendo al massimo livello parte dei problemi irrisolti per la massa dei propri amministrati.

È certo infatti che scelte di questa natura che possono essere compiute solo in sede di programmazione e di competenza legislativa nazionale e tutt’al più regionale condizionano ed incidono fortemente sull’avvenire del piano comprensoriale. Sarebbe tuttavia un grave errore pensare che soltanto dopo il varo di tali strumenti possa essere avviata la programmazione comprensoriale, o che comunque a tali scelte debbano essere demandate le soluzioni delle alternative fondamentali del piano comprensoriale stesso. Ad una impostazione siffatta è facile rispondere che tali deliberazioni di quadro, qualsiasi incidenza possa ad esse attribuirsi, non determinano la natura del piano comprensoriale, né soprattutto possono giungere a definire il piano stesso. Anzi, la programmazione comprensoriale, rendendo espliciti gli iati e le contraddizioni esistenti, portandoli a livello di coscienza e di cultura sociale, attuando scelte che sollecitino iniziative in sede politica nel senso sopra ricordato, appare elemento di stimolo, certo non secondario, per affrettare e facilitare l’attuazione di questi indirizzi, di questi strumenti politici e di questi Istituti.

Nota: il testo di Giancarlo De Carlo riportato sopra è stato tagliato per motivi di spazio; la versione originale completa è scaricabile in calce all'articolo "guida" di questa Pagina di Storia sul PIM, insieme ad altri materiali (f.b.)

[1] Si riporta qui l’introduzione alla relazione che accompagnava il Secondo Schema per il Piano Intercomunale Milanese, redatto dagli architetti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino.

[2] Tra i numerosi interventi dall’esterno si possono segnalare quelli della stampa della DC, del PSI, del PCI; i Convegni di corrente dei partiti di maggioranza; il Seminario dell’ILSES sulla Pianificazione Intercomunale; il Seminario della Facoltà di Architettura di Venezia sulla Pianificazione Territoriale Urbanistica nell’area milanese.

[3] Si rimanda alla relazione dell’Ufficio Tecnico per i particolari sulle ricerche e sugli studi affrontati nell’anno trascorso.

[4] Cfr.: P.I.M. - Relazione illustrativa sullo schema proposto. Seminario sulla pianificazione urbanistica intercomunale in Italia con particolare riferimento ai primi risultati del Piano Intercomunale Milanese, tenuto all’ILSES il 10-10-63. Seminario sulla pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, tenuto all’Ist. di Arch. di Venezia il 14 e 15 maggio ’64. Casabella n. 282, dicembre ’63.

[5] Una rappresentazione lampante di questa situazione è data dall’assemblaggio delle previsioni dei piani regolatori locali, della rappresentazione dello stato di compromissione dei vari territori comunali, dall’analisi dei tessuti fornita dalla ricerca ILSES sui Caratteri dell’urbanizzazione nell’area milanese.

[6] È importante notare che il superamento della densità di popolazione come indice rivelatore dei fenomeni di congestione è coerente con il principio del «continuo urbanizzato» della città regione. L’idea, connessa a questo principio, dell’estensione del controllo urbanistico a tutto il territorio concepito come un unico pianificato, implica di dover giudicare le condizioni territoriali secondo una scala di valori dipendenti da una serie di relazioni tra standards. Poiché gli standards sono per loro stesa definizione variabili con le condizioni di sviluppo, con le aspirazioni dei gruppi sociali, con i livelli tecnologici, ecc., si introducono attraverso le loro serie di relazioni criteri di giudizio comprensivi dei molteplici aspetti che concorrono all’efficienza di un territorio e perciò più significativi del rapporto statico che si stabilisce tra quantità di popolazione e superficie di area occupata. Il fatto che una forte densità insediativa coesista con una strozzatura urbanistica rappresenta soltanto una frequente coincidenza: questo può consentire di servirsi della densità solo come indice di prima approssimazione.

[7] Più correttamente, se non altro da un punto di vista storico, si dovrebbe dire che lo zoning è un caso particolare del principio della dimensione conforme.

[8] A sostegno di questa schematizzazione cfr. A.Z.Guttemberg «Urban Structure and Urban Growth» (AIP n.2, maggio 1960). Nella categoria delle «attrezzature» sono compresi in questo caso anche quei fattori che vengono normalmente chiamati «strutture» e cioè le materializzazioni fisiche nel territorio delle attività produttive e residenziali.

[9] Tipico di una concezione urbanistica, fondata sul mito della funzione prioritaria dei trasporti, è il ben noto schema della “città lineare”. Inventato da Soria y Mata nel 1852, esso assume il principio di sviluppare lungo un sistema assiale di linee di comunicazione una catena continua di insediamenti e specializzazione alternata.

La struttura organizzativa già rivela in se stessa i suoi principali limiti ed in primo luogo quelli connessi con gli inevitabili fenomeni di specializzazione e di segregazione che derivano dall’espediente della segmentazione a catena. Bisogna però soprattutto considerare come tale struttura, a parte le sue intrinseche disfunzioni, non possa ammettere eccezioni né al suo interno né al suo contorno: una città lineare deviata dalla sua linea assiale oppure innestata a una struttura territoriale ramificata perderebbe ogni senso, dal momento che verrebbe ad essere contraddetto nei fatti il principio del suo funzionamento.

Per questo tutte le città lineari realizzate sono state collocate nei deserti - degli Urali, della Siberia, del Sud America o dell’India - dove hanno potuto trovare ragioni sufficienti per la loro generazione nella reale preminenza della linea di comunicazione alla quale si attestavano e ragioni sufficienti per il loro sviluppo nella totale assenza di alternative territoriali al loro intorno. In un’area già sviluppata come quella milanese la città lineare non avrebbe alcun senso perché il livello di infrastrutturazione è già troppo elevato per ammettere semplificazioni radicali e perché la distribuzione degli insediamenti è troppo articolata per consentire alla segmentazione dello schema di conservarsi integra.

[10] I fenomeni di deterioramento della seconda corona che si verificano nei poli delle aree metropolitane sono stati analizzati diffusamente da Homer Hoyt negli studi per il piano di Chicago. In queste analisi egli stesso ha rilevato come molte iniziative mosse dall’esigenza di insediarsi con livelli elevati tendano a scavalcare le aree deteriorate e ad insediarsi nella terza corona provocando alle loro spalle ulteriore deterioramento ma anche episodi di rinnovo edilizio.

Nell’area milanese un esempio evidente dell’attualità di questa tendenza è dato dall’episodio di San Donato e di quanto ha provocato nell’intorno di piazza Corvetto e corso Lodi.

Cfr. Homer Hoyt, The structure and Growth of Residential Neighbourhood in American Cities, 1939.

Chicago Plan Commission, Master Plan of Residential Land Use of Chicago, 1943.

[11] Si può osservare che anche procedendo per via tradizionale è possibile scegliere un orizzonte temporale, tra i tanti ipotizzabili, ponendolo in rapporto con i livelli di insediamento della popolazione che si prevede per il tempo fissato. In questo caso però la scelta deve essere riferita in primo luogo ai livelli ed essere aggiustata in rapporto al numero degli abitanti fino al punto in cui anche questa variabile diviene costante, fino al punto cioè in cui la soluzione è unica e l’orizzonte temporale diviene «dato».

[12] È peraltro evidente come la «circolarità» della programmazione sopra delineata, non esaurisca il contenuto di una pianificazione democratica, che si sostanzia soprattutto nelle scelte, e neppure il processo di partecipazione e di controllo dal basso che deve comprendere l’intervento di altre istanze come ad esempio quelle sindacali, a tutti i livelli.

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