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Anna Marson
Venezia: Presentazione de "La controriforma urbanistica"
14 Dicembre 2005
La legge Lupi
Cesare De Piccoli, Gianfranco Vecchiato, Luca Romano e Diego Bottacin ne hanno discusso, il 30 novembre 2005, con gli autori E.Salzano, L.Scano e A.Marson

Cà Tron, sede della facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università IUAV di Venezia, ore 15.30

Introduzione di Edoardo Salzano; Cesare De Piccoli, Gianfranco Vecchiato, Luca Romano e Diego Bottacin ne hanno discusso con gli autori Luigi Scano e Anna Marson. Interventi di Augusto Cusinato, Stefano Boato, Francesco Indovina, Maria Rosa Vittadini.

Pubblico insolitamente numeroso, per la presentazione di un libro di argomento apparentemente così ostico: studenti, docenti, funzionari pubblici, architetti, oltre ai discussant invitati e agli autori presenti. L’aula trabocca di persone, molte in piedi, che resistono per ore.

Edoardo Salzano introduce. Sottolinea tre aspetti della legge, che non riguardano l’urbanistica ma la politica, l’economia, i diritti. (1) Dall’inizio dell’XIX secolo i regimi liberali e liberisti si sono resi conto che il mercato non risolveva alcuni problemi e ne hanno affidato il governo alla mano pubblica: tra questi, le trasformazioni urbane. E' nata così la pianificazione urbanistca, rigorosamente gestita dall’autorità pubblica. Con la Legge Lupi ci compie un rovesciamento completo di questa impostazione e si affida l’urbanistica agli interessi privati, cioè – in Italia – agli interessi immobiliari. (2) Grazie a questa sua scelta, la Legge Lupi provoca un forte rafforzamento della componente parassitaria e premoderna del processo di formazione del reddito: la rendita immobiliare. Il prevalere della rendita (immobiliare e finanziaria) è già fortissimo in Italia, ed è una causa importante del declino economico del paese. La legge Lupi rafforza pesantemente questa perversa tendenza. (3) Gli standard urbanistici sono stati un diritto per tutti i cittadini italiani conquistato grazie a movimenti di massa, sperimentazioni politico-amministrative e innovazioni culturali significative negli anni del primo centrosinistra. La Legge Lupi cancella questo diritto affidandone la gestione alle Regioni e al mercato. Salzano conclude dicendo che è il silenzio della politica sulla gravità dell’impianto della Legge Lupi sotto il profilo economico, politico e dei diritti che ha spinto a pubblicare il libro.

Cesare De Piccoli (responsabile infrastrutture segreteria nazionale DS) dichiara che la “stagione d’oro” degli anni ’70 è passata da tempo, e che è fondamentale prenderne atto: il prevalere dell’interesse economico è ormai dilagante; i piani urbanistici sono stati disattesi; l’economia si è ri-orientata sulla rendita immobiliare; l’urbanistica ha perso visibilità anche all’interno dell’accademia, dove conta ormai di più l’ambiente o il segno architettonico; la politica sempre più è diventata amministrazione, e il consenso somma degli interessi particolari.

Ricostruzione indubbiamente arguta, nella quale tuttavia responsabilità della politica e responsabilità di quanti praticano la disciplina dell’urbanistica tendono a confondersi eccessivamente. Se è vero che tutti noi urbanisti siamo anche attori politici, il ri-orientamento dell’economia nazionale verso la rendita immobiliare, piuttosto che la priorità data agli interessi puntuali e a breve termine sono senza dubbio responsabilità maggiore di chi ricopre ruoli politici più significativi dei nostri.

Responsabilità che si giocano anche nelle scelte urbanistiche puntuali, come ricorda Gianfranco Vecchiato (assessore all’urbanistica del Comune di Venezia) citando l’aumento di popolazione e quindi di volumi edificati previsto a Venezia al 2010 (+ 33.000 abitanti), e la domanda di qualità urbanistica che gli standard non garantiscono ma aiutano a raggiungere nelle trattative con i privati proprietari dei terreni in un contesto, come quello italiano, nel quale l’interesse pubblico non è supportato da strumenti operativi adeguati.

Luca Romano (agente di sviluppo territoriale), dopo essersi presentato come vittima della disinformazione relativa a questo progetto di legge, della quale nulla sapeva prima di essere invitato a questa discussione, nota come nel modello di urbanizzazione diffusa il concetto di interesse pubblico rimandi a quello di accessibilità (ai servizi, alla conoscenza, al lavoro), ma come il governo del territorio che dovrebbe darvi risposta richieda un’idea di sviluppo come guida. E se oggi l’idea è quella dello sviluppo locale, inteso come messa in relazione e circuito delle diverse vocazioni dei territori (agricoltura, turismo, saperi ecc.). essa richiede una pianificazione urbanistica che sia in grado di dare corpo a questo intreccio. Cosa che questa legge non soltanto non facilita, ma addirittura impedisce.

Diego Bottacin (consigliere regionale Margherita-Ulivo) invita a “togliere ogni nostalgia dal campo”, ricordando che nei tredici anni trascorsi come Sindaco di Mogliano non ha mai pensato di procedere al governo delle trasformazioni urbane con una Variante generale al PRG. Non solo, ma “le uniche trasformazioni che hanno funzionato su questo territorio sono quelle fatte in barba alla strumentazione urbanistica classica”. Dunque, è necessario prendere atto che il sistema di pianificazione urbanistica vigente non funziona, essendo basato su di un pregiudizio ostile alla capacità delle comunità locali di generare decisioni virtuose. Ciò che ha finora prodotto è il fallimento della pianificazione sovra-locale e la de-responsabilizzazione delle comunità locali. Se le uniche trasformazioni ammissibili sono oggi quelle che costituiscono l’esito della negoziazione, vanno specificati i limiti e le procedure che garantiscano trasparenza alla negoziazione stessa (anche se non basta una buona legge a garantire una buona urbanistica).

Forse, verrebbe da replicare, non è tutto così semplice, dal momento che la negoziazione coinvolge raramente (o mai?) le comunità locali, e sovente i soli sindaci o i sindaci e le rappresentanze di alcuni interessi economici. Una maggiore responsabilizzazione delle comunità locali è senza dubbio decisiva, così come lo sono procedure che garantiscano gli interessi diffusi e di lungo termine contro gli interessi predatori a breve.

Le provocazioni dei relatori scatenano le reazioni di molti fra i presenti.

Augusto Cusinato ricorda che l’urbanistica è sempre stata contrattata. Solo che gli attori erano pochi e riconoscibili. Di quel modello non sta oggi più in piedi neppure il linguaggio, che richiede di essere innovato. E tuttavia, per continuare a usare il linguaggio che abbiamo, i compiti dell’urbanistica rimangono ancor oggi la produzione di beni pubblici e il controllo della rendita.

Ma non è più chiaro cosa sia l’interesse pubblico, dichiara Stefano Boato: tutte le operazioni degli ultimi 15 anni sono operazioni immobiliari guidate da logiche aziendali. I Comuni battono moneta aprendo la contrattazione su tutte le aree. A fronte di questa situazione i veri problemi sono oggi quelli della vivibilità e della tutela ambientale.

Ma chi può garantire che questi problemi acquistino la priorità necessaria? Anche i progetti di legge presentati dal centro-sinistra in materia di governo del territorio non andavano bene, sottolinea Francesco Indovina: la contrattazione dovrebbe infatti seguire la pianificazione, non precederla. Il problema è ce, come dice Bottacin, una legge non basta. Ciò che ci vorrebbe, e non c’è, è l’interesse comune: si riescono a fare le operazioni immobiliari, ma non gli interventi di interesse comune come una strada, un inceneritore o quant’altro. Ma poi bisognerebbe anche riflettere maggiormente sulla scarsa rilevanza dei piani comunali, e sulla rilevanza della pianificazione d’area vasta. Il problema del controllo della rendita è un problema di governo, non può essere demandato alla contrattazione.

Maria Rosa Vittadini cita la Val di Susa quale esempio di come si prendono le decisioni di interesse collettivo, etichettando “interesse collettivo” scelte inadeguate che corrispondono soltanto ad alcuni interessi individuali e non collettivi.

A Gigi Scano e Anna Marson l’arduo compito di tentare delle conclusioni.

I PdL Mantini e Lupi, ricorda Gigi Scano , avevano grosso modo gli stessi contenuti. Non si può in effetti che sottolineare come, dagli anni ’70 in poi, vi sia stato un vero e proprio crollo della cultura di governo. L’attuale cultura di governo trascura ciò che gli economisti liberali classici avevano già chiarito nel secolo XIX, ovvero il fallimento del mercato nel garantire la produzione e la riproduzione dei beni comuni. Se non il mercato, che cosa può garantire questi beni? La “decisionalità politica democratica”, ovvero la pianificazione se non la programmazione. Quando parliamo di contrattazione e negoziazione, dovremmo chiederci almeno che cosa si negozia: le regole o le compensazioni? E con chi? Con il solo proprietario del bene immobile? L’attuale prassi di governo ha buttato a mare secoli di cultura sviluppata in difesa degli interessi collettivi.

Il governo del territorio necessita di due dimensioni, una politica e una tecnica, osserva Anna Marson. Entrambe devono fare la loro parte, perché il governo funzioni, ma certo la dimensione tecnica o accademica non può supplire quella politica, se questa viene meno o si svende ad alcuni interessi di parte. Il contesto fisico, culturale e politico in cui ci troviamo oggi è senza dubbio molto cambiato rispetto a qualche decennio fa, e ciò richiede innovazione, ma a partire da alcuni principi non negoziabili. Le aziende è fondamentale si muovano con una logica aziendale: ma gli enti pubblici territoriali proprio no, se il loro compito è quello di indirizzo e controllo delle trasformazioni in nome dell’interesse collettivo. Se l’interesse collettivo è oggi un concetto sfuggente, e al tempo stesso il territorio è tuttavia al centro di qualsiasi ipotesi di sviluppo, si provi a ridefinire questo interesse collettivo luogo per luogo, e a livello di area vasta, con il concorso degli attori che rappresentano effettivamente gli interessi diffusi. Le riflessioni tecniche, disciplinari, su questa innovazione possibile e oggi più che mai necessaria non mancano. Ciò che sembra mancare davvero è la capacità politica di promuovere innovazione capace di costruire l’interesse collettivo, anziché concepirlo come semplice somma di interessi particolari.

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