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Eddytoriale 02 (6 febbraio 2003)
11 Gennaio 2005
Eddytoriali 2003
6 febbraio 2003 - È il piano urbanistico comunale che attribuisce a un’area la capacità di edificare, ed è il piano che può toglierla, senza per questo dover pagare alcun prezzo: questa la tesi che il prof. Vincenzo Cerulli Irelli, insigne amministrativista, ha calorosamente e documentato e sostenuto nell’incontro organizzato da Italia Nostra a Roma, il 4 febbraio scorso.

È una tesi che Cerulli Irelli giudica assolutamente ovvia, mentre ha definito”una sciocchezza” la tesi secondo cui, invece, si dovrebbero “compensare” previsioni di piano che riducano o tolgano edificabilità ad aree “valorizzate” da precedenti previsIoni di piano. Queste affermazioni possono apparire assolutamente controcorrente nel dibattito e nella prassi dell’attuale urbanistica italiana. La “compensazione” è diventata infatti una parola d’ordine. Nel PRG di Roma ha provocato un notevole sovradimensionamento, del tutto immotivato seconda qualunque altro criterio. Ma in quanti comuni italiani si ritiene che cancellare una previsione del piano vigente comporta la necessità di “compensare” il proprietario per la perdita subita”? Eppure, come ho dimostrato rastrellando tutte le sentenze disponibili (della Corte costituzionale del Consiglio di Stato, dei TAR) perfino le lottizzazioni già convenzionate possono essere ridotte anche pesantemente nei loro contenuti, e perfino cancellate, se la decisione è adeguatamente motivata. E senza pagare alcun prezzo (se non quello per i danni reali eventualmente subiti dal proprietario e inoppugnabilmente documentati). Figuriamoci una semplice previsione di PRG.

Adeguatamente motivata. Ecco, in questa frase c’è un limite dell’attuale giurisprudenza. Oggi occorre motivare la riduzione di edificabilità. Vorrei porre un obiettivo certo ambizioso ma, a mio parere, non utopistico: raggiungibile cioè. È ormai amplissima la consapevolezza del fatto che il ciclo biologico naturale è un bene prezioso da cui troppa parte del nostro territorio è stata privata (dal 1945 a oggi il territorio urbanizzato è aumentato del mille per cento). È convinzione sempre più larga che il paesaggio agricolo, boschivo, pastorale è un bene culturale, è un elemento della ricchezza comune. Ebbene, tutto ciò non dovrebbe sollecitare a chiedere una “adeguata motivazione” – anzi, una dimostrazione scientifica – della necessità di sottrare anche un solo ettaro ulteriore di terra al ciclo biologico, al paesaggio non urbano?

Nel piano strutturale di Sesto Fiorentino la Giunta comunale ha deciso si inserire, tra le “invarianti strutturali” (e anzi prima fra esse) la linea che segna il limite delle aree urbanizzate e urbanizzabili. La città ha raggiunto i suoi limiti. Le ulteriori esigenze di spazio possono essere soddisfatte utilizzando meglio ciò che è già stato sottratto alla campagna. È la riproposizione di una regola che, come Camagni, Gibelli e Rigamonti hanno documentato, si sta applicando in diverse aree dell’Europa e degli USA. Assumerla in modo generalizzato sarebbe un buono strumento per tutelare l’ambiente e la cultura.

P. S. A proposito di quest’ultima affermazione. È singolare osservare che una prestigiosa rivista come Micromega, nel numero dedicato a delineare il programma per “un’altra Italia possibile”, dedica due dozzine di capitoli ad altrettanti argomenti (tra cui, appunto, l’ambiente e i beni culturali, insieme alla giustizia e alla sanità, all’immigrazione e all’università, alle carceri e alla sicurezza), e non ne dedichi nessuno al territorio e al suo governo: come se non fosse qui, negli scempi e negli errori che si commettono con la malpianificazione del territorio e delle città, una delle cause maggiori della devastazione dell’ambiente e della dissipazione dei beni culturali.

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