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L’antica città di Angkor fu soffocata dallo sprawl
15 Agosto 2007
Consumo di suolo
Errare è umano. Persistere nell’errore è diabolico. Ora anche l’archeologia conferma i disastri dell’espansione a bassa densità. The Guardian, 14 agosto 2007 e la Repubblica, 15 agosto 2007 (f.b.)

The Guardian

Ancient urban sprawl surrounded Angkor Wat

di David Adam

Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il famoso tempio medievale di Angkor Wat in Cambogia un tempo era circondato da un gigantesco sprawl urbano di insediamenti, secondo una nuova mappa pubblicata da un gruppo internazionale di archeologi. Gli esperti hanno trascorso anni a studiare le immagini della Nasa per la regione di Angkor, verificando tutte le possibili prospettive sul posto, e scoprendo rovine a sufficienza per concludere che il sito rappresenta l’insediamento urbano più vasto dell’epoca pre-industriale.

Ricoperte dalla vegetazione e oscurate dalle nubi basse, le rovine sono diffuse su oltre 1.000 chilometri quadrati attorno al simbolico tempio, collegate da un complesso sistema di irrigazione.

La scoperta potrebbe porre un problema per gli esperti di conservazione, dato che questi resti storici sono sparsi ben oltre i confini dell’area classificata Patrimonio dell’Umanità attorno al monumento.

Damian Evans, del laboratorio di elaborazione al computer per l’archeologia dell’Università di Sydney, insieme a colleghi da Australia, Cambogia, e Francia, ha incrociato i dati di carte redatte a mano, rilievi sul terreno, fotografie aeree e immagini radar messe a disposizione dalla Nasa. Il radar può rilevare le differenze nella crescita della vegetazione e nei contenuti di umidità, prodotte da piccole variazioni nella struttura o livello superficiale. Il gruppo di lavoro ha trovato tracce di oltre 1.000 bacini artificiali e almeno 74 templi in rovina. Un sistema idraulico collegava tutto a rete, ed era probabilmente utilizzato per fornire agli abitanti una scorta costante di acqua. Sono anche state scoperte due misteriose gigantesche strutture a terrapieno.

La nuova mappa è stata pubblicata ieri dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Gli esperti affermano: “Anche secondo calcoli prudenti, l’area metropolitana di Angkor al suo massimo era il complesso urbano a bassa densità più vasto del mondo pre-industriale”.

La città è fiorita fra in IX e il XVI secolo. I ricercatori affermano che ci sono segni di decadenza dovuta al degrado ambientale prodotto dagli abitanti.

“Angkor si trova in una vasta regione di risaie, che ha richiesto grandi disboscamenti in tutta l’area di pianura, e fino alle colline di Kulen e Khror verso nord” affermano gli esperti. “Le nuove carte mostrano come il cambiamento nell’uso del suolo sia stato diffuso e intenso, in modo sufficiente ad aver prodotto una serie di problemi ecologici, dalla deforestazione, alla sovrappopolazione, all’erosione”.

Nota: di tono leggermente diverso l'articolo su Angkor dell'italiano la Repubblica (riportato di seguito) sul tema della sostenibilità ambientale. Resta da chiedersi (domanda angosciosa, no?) cosa ne penseranno i sostenitori della legittimità storica dello sprawl suburbano, tipoRobert Bruegmanno il più moderato ma mica tanto, Joel Kotkin. L’immagine del tempio è tratta dal Guardian; quelle delle foto aeree illustrano un articolo di Emma Young sul medesimo ritrovamento, dal New Scientist 13 agosto 2007 (f.b.)

here English version

la Repubblica

Angkor, la Los Angeles del passato

di Paola Coppola

C’era nell’età preindustriale una metropoli che aveva fondato la sua grandezza sull’acqua. Era la capitale dell’impero Khmer al tempo del suo massimo splendore. Angkor, che in sanscrito significa "città", era la più grande del mondo, molto simile alla Los Angeles di oggi.

Un gigante nel cuore della giungla cambogiana dove vivevano un milione di persone e che invece di grattacieli aveva più di mille templi.

Fiorì sotto la guida del re Jayavarman II, il "monarca universale", poi crebbe nei secoli. Tanto splendore a partire dall’anno 800 fu possibile grazie una sofisticata tecnologia di gestione e conservazione dell’acqua che si reggeva su un sistema di laghi artificiali e di canali. Nei periodi di siccità veniva anche deviato il corso del fiume Siem Reap per portare l’acqua nel cuore della capitale.

Ma l’aver fatto affidamento su questa risorsa fu anche la rovina di Angkor, perché alcuni secoli dopo, intorno al 1500, ne provocò il collasso: la pressione esercitata da una città che continuava a crescere e la deforestazione prima incepparono e poi fecero saltare quel delicato meccanismo che garantiva la sua autonomia idrica.

Sembra una metafora contemporanea la ricostruzione del passato della capitale dell’impero Khmer fatta da uno studio pubblicato sui Pnas, Proceedings of the national academy of sciences. «Il sistema idraulico era diventato ingestibile», ha raccontato al Los Angeles Times l’archeologo Damian Evans dell’Università di Sydney, che ha coordinato la ricerca.

Ma quando era in auge Angkor non aveva pari anche perché era una delle poche civiltà fiorite in un ambiente tropicale. E per questo, secondo l’archeologo William Saturno dell’Università di Boston, diventerà un modello per interpretare le civiltà simili.

Se oggi sappiamo che un tempo aveva un volto simile a quello di Los Angeles è grazie a un articolato progetto - Greater Angkor Project - che ha usato antiche e nuove tecnologie per restituire ai resti dell’impero Khmer lo sfarzo di un tempo. Ci sono i dati raccolti dallo shuttle in orbita nel 2000 e rielaborati dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa che hanno fotografato il suolo e svelato l’esistenza di alcuni templi nascosti e dei laghi artificiali usati per conservare l’acqua e per irrigare i campi. E c’è il lavoro sul campo dei ricercatori che hanno scattato immagini volando sopra i resti o sono andati a verificare nella giungla quello che aveva visto il satellite.

Lo studio continua ancora, ma oggi la mappa di Angkor è più ricca di dettagli rispetto a quella restituita dai ricercatori tre anni fa. Non si sapeva allora che la capitale fosse così estesa, né che ci fossero altri 74 templi nella zona nota soprattutto per quello di Angkor Wat, costruito da Suryavarman II all’inizio del XII secolo. Né che la capitale di quell’impero che si estendeva fino a Laos, Thailandia e Vietnam, potesse contare su così tanti laghi artificiali per soddisfare la sua necessità di acqua.

«La ricerca mostra che le conoscenze di ingegneria idraulica erano sofisticate e complesse», chiarisce Evans. All’avanguardia per quei tempi, anche se il paesaggio venne manipolato in modo così radicale da creare problemi all’ambiente. Le pareti dei canali erano fatte di terra e, continua il ricercatore, «i punti di collegamento nel sistema erano sofisticate strutture di pietra». I Khmer erano anche riusciti a trovare il sistema per coltivare il riso durante tutto l’anno e non solo nella stagione delle piogge.

Ma la manutenzione di quest’opera di ingegneria era faticosa: richiedeva capacità amministrative, conoscenze tecniche e soprattutto un grande sforzo fisico. Il lavoro divenne troppo: i sedimenti si accumulavano nei canali prima di poter essere rimossi, gli argini cedevano in fretta. Il sistema andò in rovina, e fu il primo segnale. Dopo poco seguì il collasso dell’impero.

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