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Edoardo Salzano
20070625 La città, l’urbanistica e il lavoro
8 Marzo 2008
Interventi e relazioni
Intervento alla presentazione del libro Più piazze meno cemento, a cura della CGIL di Vicenza, 25 giugno 2007

Più piazze e meno cemento. L’impegno della Cgil vicentina per restituire la città alla società. Il caso Dal Molin, a cura di Oscar Mancini, Roma, Ediesse, 2007, pp. 236, €12,00

Dobbiamo essere grati alla CGIL, alla CdL di Vicenza, e soprattutto a Oscar Mancini per il grande regalo che hanno fatto con le iniziative di cui questo libro è la testimonianza. Per quelli di noi che si occupano del territorio (parlo degli urbanisti, ma non solo) il rapporto con il mondo del lavoro è questione centrale. Non sempre questo rapporto è positivo.

Naturalmente, quando parlo di urbanisti non parlo di quelli che attaccano il carro dove vuole il padrone (qualunque padrone, qualunque carro). E non parlo neppure di quelli che proclamano la neutralità della scienza e della tecnica di fronte alla dialettica che anima la società e attraverso la quale si disegna il suo cammino.

Parlo degli urbanisti che sono schierati, che sono “faziosi” (come definiscono eddyburg gli studenti del PoliMI). Quelli che ritengono che il nesso tra urbanistica e società, e tra urbanistica e politica, sia un nesso essenziale. E che si rendono conto che la frammentazione della società, e l’appiattimento della politica sugli interessi di breve periodo, rendono sempre più difficile e ingrato il loro lavoro.

E parlo di quegli urbanisti per i quali il territorio non è – come poteva essere per i nostri nonni – un contenitore generico e indifferenziato d’ogni possibile trasformazione e utilizzazione. Parlo di urbanisti territorialisti, che ritengono che il territorio sia un deposito di risorse che natura e storia hanno creato con la loro collaborazione: con il millenario investimento di lavoro e di cultura volto a guidare e utilizzare le risorse e le forze, i ritmi e le regole della natura, rispettandole e aiutando la natura a crescere.

Parlo degli urbanisti che ritengono che anche il territorio abbia dei diritti, se è vero che la sopravvivenza delle qualità in esso depositate è una risorsa che non può, non deve essere dissipata, consumata, logorata, distrutta dalle generazioni del presente, perché è patrimonio anche delle generazioni del futuro, e delle loro esigenze. “Terra a rendere”, lo slogan di Laura Conti è un impegno e una stella polare.

Per questi urbanisti il rapporto con il mondo del lavoro è essenziale, ma non è sempre facile. Il mondo del lavoro è anch’esso un mondo storicamente determinato. Il lavoro è parte (è la parte creativa) del sistema capitalistico di produzione. Nella sua forma contemporanea è necessariamente interno a questo sistema – anche perché fuori da questo sistema non c’è niente, se non sacche di arretratezza da una parte, e aspirazioni, sogni, speranze, progetti dall’altra parte.

A volte il mondo del lavoro si fa catturare dalle logiche del concreto sistema economico nel quale vive. Succede così che a volte il mondo del lavoro difende obiettivi e proposte che sono sbagliati dal punto di vista degli interessi generali, spesso è costretto a scegliere soluzioni che sembrano premiare nell’immediato ma compromettono il futuro.

Altre volte il mondo del lavoro è un grande alleato delle aspirazioni dell’urbanistica territorialista e schierata, faziosa, partigiana del “territorio come bene comune” e del primato, nel governo del territorio, del collettivo, del comune, del pubblico nei confronti dell’individuale, del privato.

Un momento importante dell’incontro tra le aspirazioni degli urbanisti e la spinta del mondo del lavoro è stato il grande sciopero generale del 19 novembre 1969.

Furono anni importanti, la cui storia è stata scritta ma poco studiata dai decisori. È la storia di un processo di riforme che ha tentato di sconfiggere le forze della rendita e della speculazione, di creare le condizioni che consentissero di dare razionalità, socievolezza e bellezza alla città e al territorio. Gli anni nei quali non si raggiunse l’obiettivo di una radicale riforma urbanistica, ma se ne conquistarono pezzi importanti: la politica degli spazi pubblici commisurati a standard adeguati, la politica della casa come diritto sociale, la politica di una pianificazione urbanistica capace di mettere la mordacchia alla rendita fondiaria.

Ebbene, avendo partecipato abbastanza da vicino a quegli avvenimenti, ricordo bene quanto fu decisivo il ruolo delle forze sociali. Del movimento delle donne (un ruolo protagonista nell’ottenere gli standard urbanistici fu quello dell’UDI) e del sindacato dei lavoratori. Il ricordo dello sciopero generale del 19 novembre 1969 (per la casa, i servizi, il trasporto, il Mezzogiorno) è ancora entusiasmante per chi lo vide da vicino.

Ecco, ogni volta che vengo a Vicenza ho la sensazione di vivere un momento analogo. Certo non con la stessa rilevanza, ma certamente con la stessa anima. E, in più rispetto ad allora, con una maggiore capacità di studiare, di comprendere, di utilizzare i saperi diversi ma anche di insegnar loro qualcosa che non sanno. Il lavoro che questo libro documenta, e offre a un pubblico più largo di quello che vi ha partecipato, è una testimonianza molto ricca di questo.

Ho letto cose molto interessanti, soprattutto sul rapporto tra lavoro e città, tra condizione e ruolo del lavoratore e condizione e ruolo del cittadino. Mi dispiace che non ci sia Paolo Nerozzi, impegnato nella contrattazione col Governo: ha scritto cose molto acute su questo punto, ma c’è Oscar Mancini, che ha questo tema nel suo cuore e lo ha posto nel cuore delle azioni che da anni promuove.

Io credo che bisogna lavorare a scavare ancora su questo argomento. Vorrei fornire un ulteriore spunto di riflessione.

“Lavoro” è un termine che esprime un valore profondo, primario, fondativo della nostra società. Per la nostra Costituzione il lavoro (non il mercato!) è il fondamento della Repubblica italiana. E in effetti, in modo diverso e con alleanze di classe diverse, le grandi forze che fondarono la Repubblica esprimevano tutte il mondo del lavoro: dal PCI e il PSI, alla DC, ai “partiti laici”.

La corrente di pensiero che, nella sua analisi e nella sua azione, ha posto come centrale il lavoro dell’uomo è comunque indubbiamente la marxista. E allora vale la pena di ricordare il modo in cui Marx definiva il lavoro:

“l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso [corsivo mio] di qualsiasi genere”.

E ancora:

“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.

Riflettere sul significato del lavoro dell’uomo nei contesti nei quali viviamo (dal governo attuale alla crisi planetaria) porta a sottolineare due connotazioni dei nostri tempi, l’una di carattere tattico e relativa al breve-medio periodo, l’altra di carattere strategico e relativa allungo periodo. Da esse scaturiscono due necessità dell’azione politica e di quella culturale: necessità certamente distinte, ma che sarebbe sbagliato separare.

Da un lato, è evidente che nell’attuale situazione italiana, così come questa si è determinata per colpa sia della destra che delle debolezze del centro-sinistra, il lavoro ha perso la centralità che la Costituzione gli assegnava. Lo rivelano l’espansione del precariato e la sua assunzione come “fattore di modernizzazione”, l’indebolimento dei sindacati dei lavoratori, lo squilibrio tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi finanziari, nonché, per riferirci a un tema centrale per queste pagine, la prevalenza della rendita (remunerazione della proprietà) sul salario (remunerazione del lavoro) e sul profitto (remunerazione dell’attività imprenditiva secondo una scuola, il frutto stesso del lavoro secondo un’altra).

Un governo che volesse ripristinare il rispetto della Costituzione su ciò che costituisce il fondamento della Repubblica dovrebbe assumere perciò come centrale la questione del lavoro, in tutte le articolazioni ora enunciate. Ora mi sembra che, mentre sul versante dei diritti del lavoro una pressione sulle forze moderate del governo c’è, sul versante del contrasto alle forze della rendita non ci sia con altrettanta determinazione.

Anzi. La cronaca dei nostri anni è piena delle cronache degli affari che amministrazioni strozzate dalla riduzione delle risorse assegnate consentono di fare agli speculatori per ottenere da loro qualche briciola, è piena di espressioni di considerazione di cui la politica gratifica gli immobiliaristi, denominati “capitani coraggiosi”. La rendita immobiliare, i plusvalori realizzati con le destinazioni urbanistiche e la localizzazione dei servizi, dovrebbe essere tosata per essere destinata a usi sociali, invece è diventata una componente significativa dello “sviluppo”, una grandezza del cui incremento ci si compiace perché accresce l’entità del PIL.

Ma accanto e dietro questo aspetto del problema del lavoro un altro se ne pone, che ne costituisce in qualche modo la prospettiva e lo scenario. La concezione del lavoro che ancor oggi nutre il pensiero economico e l’organizzazione sociale è quella propria del sistema capitalistico: il lavoro socialmente ed economicamente riconosciuto è quello finalizzato, direttamente o indirettamente, alla produzione di merci.

Se Marx, nel brano sopra citato, riferiva il lavoro alla produzione di valor d’uso, oggi invece per il calcolo economico, e per la stessa considerazione sociale, l’unico valore che è rimasto è il valore di scambio. I beni (siano essi oggetti o servizi) cui la produzione è finalizzata sono solo quelli riducibili a merce, e in tanto sono considerati in quanto sono ridotti a merce. Ciò che conta non è la loro utilità ai fini dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità, ma la loro capacità di essere acquistati da un consumatore.

È morto un anno fa John Kenneth Galbraith. Fu lui che, nel lontano 1958, coniò per primo il termine “società opulenta” (affluent society). Con questa espressione si designa appunto una società nella quale la produzione ha perso qualunque profondo connotato umano, ed è finalizzata esclusivamente a vendere, in misura via via crescente, merci via via più lontane da ogni reale utilità per l’uomo.

Mi sembra che un lavoro finalizzato esclusivamente alla produzione crescente di merci superflue (spesso per di più dannose) non possa essere considerato durevole. Il ragionamento sul lavoro, e la rivendicazione della sua necessaria centralità si deve perciò connettere a quello attorno ai limiti dello sviluppo (di questo sviluppo, basato sulla riduzione dei beni a merci, sull’orgogliosa negazione dei limiti posti dal pianeta, sulla perdita di ogni finalità propriamente umana), al nuovo imperativo della “decrescita”, al pieno riconoscimento economico e sociale dei valori d’uso - e delle qualità culturali,ambientali, storiche del territorio.

Poiché il territorio è matrice rilevantissima di grandissima parte dei valori d’uso: lo ricorda nel libro Anna Marson, in apertura del suo scritto. Lottare per la sua salvaguardia, per la sua riqualificazione, per la sua salute è essenziale per conservare civiltà e speranza.

Ma è anche necessario inventare una economia che sappia conferire rilevanza, pienezza di diritti, cittadinanza piena nell’economia e nella società, al lavoro finalizzato alla produzione di valori d’uso.

Per concludere. Il caso della base americana Dal Molin, sul quale illibro fornisce abbontìdante materiale, è stato davvero un episodio significativo di una delle poche novità positive che si sono manifestate in questi anni: la crescita di un movimento radicato nel territorio, diffuso in ogni parte d’Italia, capace di durare, di contestare e insieme di proporre, di incidere concretamente sulle decisioni (il caso di Monticchiello e quello del cementificio di Torviscosa insegnano).

Per la nuova base militare americana a Vicenza grandi sono certamente le responsablità non solo del governo Berlusconi (e che cos’altro ci si poteva aspettare) ma anche del governo Prodi, che ben altro aveva promesso. Ma non dobbiamo trascurare le responsabilità del comune di Vicenza, succube e favorevole in ogni fase della vicenda.

Ebbene, io credo che si debba lavorare per far sì che il movimento nato per la protesta contro l’ulteriore espansione della base USA debba non solo durare e allargarsi, ma proporsi anche di incidere direttamente sul risultato delle prossime elezioni amministrative, sui programmi che saranno posti all’ordine del giorno e sulle forze che li realizzeranno.

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