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Edoardo Salzano
Natura, donne e riscatto a Foghesu, Sardegna
28 Marzo 2007
Recensioni e segnalazioni
Un intervento di presentazione del libro di Giacomo Mameli, La ghianda è una ciliegia, (CLUEC, Cagliari 2006) con due domande, e le risposte dell’autore

La presentazione si è svolta ad Alghero, il 26 marzo 2007, con la sociologa Antonietta Mazzette, che ha coordinato e l'attore Elio Arthemalle, che ha letto alcune pagine del libro

Quando un libro piace quanto a me è piaciuto La ghianda è una ciliegia vuol dire che si è realizzato un cortocircuito tra ciò che il libro è (non parlo dell’autore, parlo del libro, che ha una sua esistenza autonoma rispetto all’autore) e ciò che è il lettore: i suoi interessi, sentimenti, esperienze, curiosità.

Devo dire subito che se quel cortocircuito non ci fosse stato, se quello di Mameli mi fosse sembrato solo un bel libro, non avrei accettato di venire qui a presentarlo: che c’entro io, un urbanista, alle prese con un tema letterario, con un’esercitazione letteraria, con un’occasione letteraria su argomenti così diversi da quelli che mi sono familiari?

Nel riflettere su questa occasione d’incontro mi sono sforzato perciò di comprendere che cosa avesse determinato quel corto circuito tra me e il libro di Mameli. Ho trovato alcune risposte, ma soprattutto un paio di domande che rivolgerò a voi tutti.

Le storie della guerra mi sono piaciute molto. Ho trovato in qualche passo la stessa emozione che mi ha dato l’incipit del Sergente nella neve di Rigoni Stern, e spesso mi sono trovato nello stesso clima dell’altrettanto sardo Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu. Ma non è stato questo a determinare quel corto circuito.

Mi ha colpito moltissimo (e qui cominciamo ad avvicinarci al punto, alle domande) la descrizione della vita in Sardegna, a Perdasdefogu, negli anni raccontati dalle storie del libro. Mi ha terribilmente colpito l’estrema condizione di vita – la povertà, la fame, la fatica, la durezza della vita, sentite e patite come tali, non imbellite dal ricordo o dalla nostalgia – e insieme l’attaccamento per il luogo e le persone di quella condizione - la terra, la casa e l’albero, la fonte, il paese, la comunità immediata e quella un po’ più larga, i luoghi, le durissime “pietre di fuoco”. Sono pagine commoventi quelle che raccontano (dove si raccontano) vite drammatiche, spesso tragiche, dove i momenti di gioia nascono come licheni sul sasso.

Rileggendo le quattordici storie e cercando di comprenderle nel loro insieme ho visto che il percorso narrato poteva essere considerato composto da due parti. Una prima parte, la vita a Foghesu, contrassegnata da fame, povertà, durezza, fatica, e bellezza. Una seconda parte, la guerra e soprattutto il mondo, ciò che c’è oltre il percorso mulo – corriera – bastimento – tradotta: essersi affacciati là dove esistono altre lingue, altre e inaspettate ricchezze, e soprattutto altri diritti e regole, a tutela anche del debole.

Ma gli uomini e le donne che raccontano la storia sono ancora vivi quando l’autore li intervista. Hanno vissuto perciò anche dopo la guerra: nella pace, nella democrazia, nella “Repubblica fondata sul lavoro” (che espressione desueta!). Mi sarei aspettato perciò una terza parte: chiamiamola “il riscatto” dalla condizione di “prima della guerra”.

Ne ho cercato qualche traccia. Ve la racconto partendo da un episodio, tristissimo e bellissimo, che mi sollecita alle due domande che vorrei farvi. Un episodio, anzi, una storia antichissima, raccontata da Vittorio Palmas. La storia di Maria Cercapane, orfana di padre e di madre dall’età di otto anni.

“Maria aveva solo un fratello che era stato ucciso per vendetta”. Franciscu, ecco la sua storia.

Il fratello, Fracìscu, aveva visto un uomo che metteva fuoco sotto gli alberi di olivo e di leccio di Tuèri in una giornata di vento forte. “Sei un assassino dei boschi”, gli aveva urlato. L’incendiario era fuggito, il bosco era mangiato dal fuoco. Le fiamme alte avevano disegnato un cerchio rosso. Si sentiva il lamento delle foglie che piangevano e bruciavano. Erano morti conigli e cinghiali, anche le volpi e le martore, e due cervi. Francìscu aveva trovate bruciate dal fuoco anche una pernice e otto suoi piccoli perniciotti. Aveva pianto vedendo quell’orrore. Il bosco verde era diventato un campo di cenere, un cimitero nero. E l’odore bruciava la gola. I tronchi sembravano i cadaveri del bosco. Francìscu era rientrato in paese, in piazza aveva urlato:

“Il bosco di Tuéri lo ha ucciso Gonario, il figlio di Rubategole”.

“Ma cosa dici, quello era fuoco fuggito” gli avevano risposto tre uomini.

“Fuggito? Quello è fuoco messo. Messo dalle mani dell’uomo, dalle mani di Gonario di Rubategole. Tuti i fuochi sono messi dalla mano dell’uomo”.

“Tu non sai quello che dici, moccioso. E se sei sicuro vai dal barracello”.

“Io già ci vado ma lui non fa nulla, non ha mai fatto nulla. E tutti sappiamo chi lo mette il fuoco”.

“Tu vuoi vivere poco”, lo avevano minacciato.

“Io lo so quello che dico. E voglio vivere molto. Ma senza fuoco. Invece vedo le campagne del nostro paese senza piante e senza ombra. E la terra è cenere. Quello di Tuéri era fuoco messo. Gonario lo ha messo”.

Francìscu è “ucciso a pallettoni nella discesa del fiume. Ucciso da uno che si era appostato sopra la pianta delle ghiande perché Francìscu era stato colpito in testa”.

Ed ecco la prima domanda che mi viene. Vedo in questa storia un contrasto.

Francìscu ama la natura, il bosco e i suoi alberi, gli animali che lo vivono. Sente l’incendio come un’ingiustizia profonda, cosmica. Se non si può evitare questa ingiustizia non vale più nemmeno la pena di vivere.

Ma il popolo al quale Francìscu appartiene non sente la distruzione della natura come un’ingiustizia. Sa che bruciare il bosco è uno strumento per allargare il pascolo o migliorare la fertilità della terra. “Bue rosso terra nera” è il responso di Salomone al contadino che gli chiede come può rendere fertile la sua terra stremata dai molti raccolti, e alla fine comprende che la saggezza del Re gli suggeriva di dar fuoco ai campi per rendere nera e fertile la terra per i successivi raccolti.

Oggi alla fertilità per il coltivo o per il pascolo si è sostituito quello che viene definito lo “sviluppo del territorio”: e cioè il susseguirsi di lottizzazioni che cancellano la natura e distruggono il paesaggio, ma danno un reddito immediato ai proprietari e ai promotori immobiliari.

Francìscu è ancora in minoranza e finirà ammazzato da una palla in fronte, oppure può diventare maggioranza?

La storia di Maria Cercapane, dopo la morte del fratello, è struggente. Già nel funerale di Francìscu resta sola. “Perché anche in paese non sempre la verità piace”.

Aveva dovuto scavare lei la tomba attorno alla chiesa. E la bara, con due legnetti, l’aveva fatta un falegname di buon cuore, quello zoppo. Per calarla nella fossa erano intervenuti tre ragazzi, poi erano fuggiti.

Dopo i funerali

Maria era povera e bella, anche se era magra come un filo d'erba, era la più alta del paese, occhi neri come i suoi capelli lunghi. Aveva sempre la stessa gonna nera e un maglione di lana pungente di pecora, non aveva scarpe, errava sempre, sempre e solo in cerca di cibo. Camminava e camminava, e i piedi spesso le sanguinavano. Camminava per vivere, per passare dal giorno alla notte, o dall'inverno all'estate. Nel tempo dei fichidindia e delle more mangiava fichidindia e more, mangiava anche corbezzoli, la minestra la faceva con le patate dell'orto e con i porri che andava a cogliere fra i sassi del vulcano addormentato di Còmina Trinta. E lì trovava anche l'ortica, ce n'era un campo sterminato sotto i lecci che guardano il fiume che nasce a Ulassai. Brodo di ortica e, quando c'era, pane duro, quello che buttano ai cani. Carne mai, formaggio quasi mai. Una volta un pastore, zio Bartòlu, le aveva regalato una forma di ricotta secca. Maria lo aveva ringraziato con un bacio e con poche parole che le erano uscite dal cuore: "che Dio glielo paghi". Non aveva più neanche la capretta che dorme in casa e la mattina presto ti assicura il latte. Eppure la capretta l'aveva avuta. Ma a lei, a Maria Cercapane, l'avevano rubata ragazzi di un paese vicino per tare spuntino con una capra arrosto alla festa di mezzagosto. Loro in festa, Maria Cercapane senza più latte. E quando non trovava fichidindia e more, porri e corbezzoli, andava alla fonte di giù a bere. Bevendo uccideva la fame. Oppure si doveva arrangiare. Fu così che un giorno la moglie severa di un ricco vaccaro la trovò nel pollaio di casa. Maria aveva in mano due uova, non fece in tempo a nasconderle sotto la blusa e a scappare. Colta con le mani nel pollaio fu portata davanti al barracello e poi impiccata al patibolo del cocuzzolo della forca. E tutto il paese a vedere. Aveva ventun anni Maria. Nessuno sa dire dove sia stata sepolta.

Ho letto questa storia perché Maria Cercapane mi aiuta a formulare una ipotesi che è anche la seconda domanda che vorrei farvi.

Maria entra all’inizio del libro, nel primo racconto. È la prima storia di donna. Storia dolente, ma anche storia di rivolta. Maria lotta, per cercare il pane, per ricordare suo fratello. Oggettivamente (con l’oggettività dei miti) si oppone al paese divenuto ostile: “usque ad mortem”.

Ebbene, torniamo alla questione che ponevo prima, alla mia ricerca di tracce della “terza parte del libro”: il riscatto.

La mia sensazione è che, nei racconti raccolti e interpretati da Giacomo Mameli i segni di riscatto ci siano nelle poche – ma fortissime – presenze femminili.

I segni del riscatto del lavoro ci sono nella storia delle “donne del rosmarino”. Nel 1937 arrivano dei forestieri dal Continente, “i bolognesi”. Vengono per raccogliere il rosmarino e farne essenze per profumi. Il rosmarino lo raccolgono le donne, sono pagate un tanto a sacco. Angela fa i conti, si accorge che i bolognesi fregano sul peso. Lo dice alle compagne, escogitano il modo per ristabilire la giusta mercede: infilano una pietra nel sacco e la sfilano dopo la pesata.

I segni del riscatto morale ci sono nella storia di Stella Bianca. Così viene chiamata Marella Ferrigni, fioraia di Rovigo, spedita in un paese di fantasia (Gadàmu) perché antifascista e staffetta partigiana. Per vivere nella miserie del confine si prostituisce. Ma si nega alla prepotenza dell’appuntato dei carabineri e lo denuncia nella piazza grande.

Perché per far cambiare le cose bisogna dirle e urlarle le cose guaste. Per far cambiare le cose non bisogna aver paura. Marella non aveva accettato che qualcuno le mettesse i piedi in testa. A Gadàmu e nei paesi vicini aveva fatto scuola quella povera ragazza giunta dal nord.

I segni del riscatto politico sono nella storia della “Confinata di Corleto”, Maria Caterina Lo Giudice, confinata anche lei per antifascismo, che a Foghesu diventa l’animatrice di un piccolo gruppo di antifascisti attraverso le cui vicende si prepara il domani politico. Attrevarso la fiducia nei libri, nella cultura, nella crescita dell’intelligenza Maria Caterina comprende la via del riscatto e la indica ai suoi nuovi compaesani:

Mi stavo integrando con i foghesini e avevo pensato che sevuoi il fuoco devi avere la legna ma anche qualcosa per accendere. Se ti manca o la legna o il fiammifero fuoco non ne puoi fare e la fiamma non la vedi. Così è per l’intelligenza: cosa può essere senza sapere, senza vedere, senza viaggiare? Se finisce la guerra - avevo pensato – torno a Corleto e con i pochi denari che avrò comprerò libri. E tornerò a Foghcsu a dare libri a chi so io, a chi ho capito che è intelligente davvero.

[…]

La guerra finì. Caterina tornò a Corleto, comprò i libri.

Quei libri entrarono nelle case di Foghesu dove ancora non c'era la luce elettrica ma era entrata altra luce, quella delle elezioni libere, dei comizi, degli scontri a parole. Ma questa é storia del Dopoguerra.

Con la storia privata, segreta e tormentata di una confinata ci furono storie meno angosciate, ci furono le elezioni anche a Foghcsu. A sinistra c'erano tre gruppí: sardisti, socialisti, comunisti. Erano più dei dodici carbonari della seconda riunione capeggiata da Raimondo l'ex minatore, erano diventati cento, quattrocento. E c'erano i democristiani, molti democristiani, più di quelli di sinistra. Ma tutti finalmente liberi. Raimondo e Francesco, Fernando e il maestro Lai, e gli altri che volevano potevano parlare.

Come mai – ecco la mia seconda domanda – nel libro di Giacomo Mameli i segni di riscatto hanno tutti un’impronta femminile? Visione dell’autore, o panorama della Sardegna?

GIACOMO MAMELI RISPONDE

“La ghianda è una ciliegia” nasce a Perdasdefogu, in piazza di chiesa, nel rione del gelso, “Sa mura gessa”. Ascoltavo i racconti dei novantenni-centenari, sulla seconda guerra mondiale, sulla loro vita da ragazzi a Perdasdefogu, che noi chiamiamo “Foghesu”, aggettivo di “fogu” (fuoco). In piazza ho deciso di trasformare il parlato degli altri in uno scritto mio per evitare – come dice Mario Morcellini – di far “smagnetizzare la piazza”. Da quei racconti, dagli incontri ripetuti con i protagonisti e le protagoniste di 50 anni di storia locale, è nato il mio libro di raccontatori puri. Ho fatto in modo che a parlare fossero “loro”, i testimoni della tragedia nel Don o nei campi di prigionia in Sudafrica o in India, nei campi di concentramento tedeschi, evitando mie intromissioni. Il libro è così diventato il racconto corale di un paese, che è un po’ un paese non dell’Ogliastra o del Salto di Quitta ma del mondo. Un paese povero, misero. Perché Cristo si era fermato anche a Foghèsu.

Edoardo Salzano – che invito con file in rete, mio ospite, a visitare il mio paese – chiede se Francìscu è oggi un personaggio minoritario. Dico di sì: perché ancora oggi il coraggio di urlare la verità è di pochi, i soprusi continuano, gli interessi forti sono tanti, i potenti si difendono a vicenda, fanno cartello urbi ed orbi. Isole comprese. In un altro mio libro, “Donne sarde”, racconto di una ragazza, Pina Paola Monni, di Orune: ha avuto – tre anni fa - il coraggio di fare i nomi degli assassini del fidanzato. Oggi lei non vive più a Orune ma, sotto scorta, nella penisola. Lei ha infranto la legge dell’omertà. L’aveva infranta anche Francìscu urlando in piazza che “Gonario, figlio di Rubategole”, aveva dato fuoco al bosco di lecci di Tuèri. Era stato ucciso.

Vengo alla seconda domanda: il riscatto passa per le donne? A Foghesu è avvenuto così. Sono state le donne le prime antifasciste, sono state le donne le prime a voler leggere e studiare, sono state le donne del rosmarino le prime a ribellarsi ai soprusi dei padroni in un posto di lavoro. Oggi la Sardegna è una delle regioni italiane col più alto tasso di scolarizzazione in Italia. Il riscatto sardo non potrà che essere griffato donna. È questione di anni, forse di lustri. Ma il dominio maschile, molto arrogante e un po’ ignorante, è destinato - giustamente – a finire. Oggi, in Sardegna, è donna il nuovo turismo, la nuova ecologia, sono donne le direttrici delle aziende innovative di successo. Occorre attendere. Mi auguro non troppo.

Concludo con la richiesta di Eddy: ci sarà il riscatto? Sì, spero che avvenga presto. Con “La ghianda è una ciliegia” ho raccontato Foghesu dal 1900 al 1945. Mi auguro di scrivere (prendo in prestito “dum spiro spero”) il seguito dal 1945 al 1970 circa.

Prima di lasciarvi: io sono un ottimista, la Sardegna di oggi è profondamente cambiata, crede più di prima in se stessa, lo fa senza miti stupidi, la Sardegna fa parte del mondo. I segnali di cambiamento ci sono. Spero che trionfi la Sardegna delle donne del rosmarino, di Itala che voleva leggere libri, di Francìscu che non accettava la legge del più arrogante, dei vecchi di Foghesu diventato ottimi storici.

Un sociologo dell’università di Cagliari, di origini emiliane, Gianfranco Bottazzi, ha scritto un libro sulla Sardegna economica contemporanea titolandolo “Eppur si muove”. Aggiungo: eppur si è mossa. Ci sono più ciliegie che ghiande.

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