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Patrick Butler
La casa che vi fa star bene
19 Gennaio 2007
Recensioni e segnalazioni
Un libro "giornalistico" tocca da vicino la questione della bassa qualità degli spazi nell'edilizia popolare, britannica ma ovviamente non solo. The Guardian, 17 gennaio 2007

Titolo originale: Housing that will make you feel good - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini



La psicogeografia dell’abitazione si installa in noi sin dalla più tenera età. Quando facevo la consegna dei giornali, portavo i miei pacchi di Mirror e di Sun in una zona della città caratterizzata da due principali tipi di case: solidi, graziosi, cottage in linea costruiti per gli operai di epoca vittoriana; e più in alto sul ciglio della collina, più anonime schiere di edifici vari moderni in mattoni delle case economiche. Era impossibile capire esattamente perché, ma nelle brume del primo mattino mi sentivo sempre a mio agio nelle strade dei villini vittoriani, mentre avvicinavo gli isolati delle case popolari con una strana trepidazione. Stessa gente, stessa scelta di giornali: ma in qualche modo si avvertiva di attraversare un invisibile confine, verso uno spazio diverso e inquietante.

Un bellissimo libro della giornalista Lynsey Hanley, pubblicato questa settimana, spiega vivacemente e approfonditamente perché il paesaggio mentale di ognuno di noi venga modellato dall’ambiente fisico. É cresciuta in un enorme complesso pubblico degli anni ’60 a Chelmsley Wood, Solihull, e ora abita a Bow, nella zona est di Londra. Ha imparato sulla propria pelle come i posti migliori per abitare vi facciano sentire al sicuro, liberi e soddisfatti, mentre i peggiori – colloca molti complessi di case popolari in questa categoria, coi blocchi di cemento armato, i sottopassaggi e passerelle – inducono “batticuore e paura”. Ambienti che sembrano quasi esalare miasmi, sostiene, ed è praticamente sicuro che inducano disagio, stress e ansia.

Come lo stato sociale britannico sia arrivato a realizzare spazi tanto mostruosi, rappresenta parte dell’obiettivo del lavoro della Hanley. Ricostruisce la parabola discendente della casa sociale, dal fugace idealismo del periodo fra le due guerre, all’immediato dopoguerra delle “case per gli eroi” , all’abominio dei complessi modernisti degli anni ’50 e ‘60.

Descrive quanto rapidamente la necessità politica ed economica di costruire case economiche e di massa abbia travolto le visioni della cultura socialista “bevanita”, delle spaziose casette a tre camere per ogni famiglia, indistinguibili da quelle borghesi. A metà anni ‘60, spuntavano dappertutto e senza pensarci troppo gli enormi complessi autosufficienti delle case popolari ai margini delle città e cittadine: centinaia di alloggi stipati in poco spazio, senza un pub, un ufficio postale, una chiesa, figuriamoci un centro comunitario, o trasporti pubblici vicini. A questo punto, l’immagine sociale della casa pubblica era cambiata: “Si potevano riconoscere a chilometri di distanza”.

Escono da queste pagine semplici insegnamenti per urbanisti, architetti, costruttori: progettate case di alta qualità; non usate materiali scadenti; chiedete agli abitanti in quali case vorrebbero abitare; fate una buona manutenzione ai complessi una volta terminati. Non sono cose originali, ma escono dalla pura forza dell’esperienza diretta. La Hanley ricorda quando insieme a un gruppo di inquilini accompagnavano una delegazione di “master planners” per un progetto di rigenerazione nel suo quartiere dello East End. Mentre arrancavano tristemente di fianco ad auto bruciate, coi ragazzini che sfrecciavano in motorino, uno dei visitatori si chiedeva ad alta voce chi avesse mai concepito spazi tanto poco funzionali. “La risposta arrivò, spontanea come il sorgere del sole” ricorda la Hanley: “Qualcuno che non abita qui”.

Nonostante la sua difesa quasi religiosa del sistema delle abitazioni pubbliche e dello stato sociale, la Hanley finisce per esprimere idee eretiche sul fatto che le case popolari abbiano un futuro, oppure no, se non altro perché la loro immagine pubblica è stata tanto denigrata da associarsi automaticamente a droga, criminalità, piccoli comportamenti idioti, “una specie di follia strisciante indotta dalla povertà cronica, da menti umane ingabbiate tra le rigide sbarre di classe e la scarsa voglia di sapere di chi dovrebbe”. Alla fine, conserva la sua fiducia, ispirata in questo dalla visita al complesso Old Ford di Tower Hamlets, dove gli abitanti hanno pensato e progettato la rigenerazione dei propri spazi. Le nuove case popolari nascono dalle macerie delle vecchie, l’Autrice è colpita da quanto sembrano belle. Poi capisce perché: “Non hanno l’aspetto di case popolari”.

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