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Raffaele Radicioni
Insoddisfazione nella Nuova Fabbrica
18 Febbraio 2008
Un tema interessante, un’occasione mancata in un convegno torinese sulle aree dismesse. Una corrispondenza per eddyburg, 15 dicembre 2006

Nei giorni 11, 12, dicembre 2006 si è svolto il convegno “LA NUOVA FABBRICA”, indetto dagli organismi di “Torino Internazionale” e “Urban Center”. Il convegno era dedicato al tema della trasformazione delle aree industriali dimesse con riferimento sia alla specificità della realtà urbana, che a quanto in corso o già avvenuto in altre città italiane. Il tema si annunciava incentrato su due questioni: urbanistica, concernente il rapporto delle grandi aree di trasformazione con il contesto ambientale e sociale dell’intera città, se non addirittura del suo entroterra metropolitano; economica, intesa come occasione per favorire nuovi processi di ammodernamento e di sviluppo della città.

Le sessioni di lavoro sono parse di interesse. Ad esempio l’esposizione dell’Assessore al Comune di Torino della cessione di parte delle aree del complesso di Mirafiori (300 mila metri quadrati su circa 3 milioni) a Regione, Provincia e Comune, ha dato conto della volontà degli enti pubblici di favorire il rilancio produttivo ed occupazionale, senza tuttavia accedere a forme di finanziamento diretto del capitale di impresa, in quei termini impedito dalla normativa nazionale ed europea. Sull’uso delle aree è ora in corso la progettazione e la definizione delle strutture organizzative, atte ad accogliere, oltre che industrie, anche ricerca e formazione, nettamente finalizzate alla produzione industriale, con maggiore caratterizzazione in tal senso, rispetto a quanto già ora svolge il Politecnico di Torino, impegnato soprattutto nel campo della sperimentazione accademica, collegata alla didattica ed alla formazione professionale.

A proposito del comportamento degli enti locali sono state rivolte critiche, nei confronti della debolezza, se non dell’assenza della pianificazione territoriale, in quanto scelte particolarmente incidenti sulla realtà urbana, quali le trasformazioni di vaste aree, assumono di norma il carattere dell’episodicità, in contrasto perciò rispetto alle esigenze di miglioramento delle condizioni ambientali e di controllo della mobilità di rilevo non solo locale.

Spunti critici, seppure colloquiali, non sono mancati neppure da parte dell’ambiente accademico. L’esperienza ormai più che ventennale di trasformazione di grandi aree ha prodotto spesso delusioni nei confronti di quelle, che si erano annunciate come le “grandi occasioni” di rigenerazione della città “postindustriale”. Sono emersi anche elementi interessanti in forza di soluzioni documentate, riguardanti singoli casi d’intervento, in Italia ed all’estero, oggetto di esperienze dirette in tema di aree dimesse (a Roma), o di trasformazione d’interi settori urbani (Helsinki).

Nel complesso quindi si è trattato di una manifestazione, che ha consentito di apportare al tema in discussione qualche maggiore elemento di conoscenza e di valutazione. Ciò non ostante l’iniziativa è sembrata l’ulteriore occasione mancata, per mettere a fuoco la questione centrale della trasformazione urbana torinese degli ultimi 20 anni.

Negli anni ’80 la dismissione dei grandi patrimoni di aree industriali, centri primari del motore economico della città, in conseguenza dei processi di mutazione dei modi e dei luoghi della produzione, mise in crisi le scelte di fondo della fine degli anni ’70, basate in primo luogo sulla dimensione regionale della pianificazione e sugli obiettivi di miglioramento delle condizioni ambientali, a partire dal settore delle abitazioni a basso costo.

La crisi urbana, ma anche economica e occupazionale, impose alle scelte di governo della città un mutamento radicale d’indirizzo. S’interruppe qualunque forma di programmazione regionale; ogni città (Torino in particolare) divenne centro unico, luogo deputato per la ripresa economica, non più ascrivibile al settore industriale. Questa fu assegnata in capo alla produzione dei servizi di rango elevato, in un gioco di relazioni e di competizioni, che divenne immediatamente di rilievo internazionale. Alle aree dismesse (tre, cinque, nove milioni di metri quadri), luoghi quindi, nei quali concentrare le attività di nuova generazione (la finanza, la ricerca, la moda, il commercio specializzato), il compito di formare il propellente per spingere Torino nell’orbita delle grandi metropoli, in virtù in primo luogo di ingenti investimenti infrastrutturali.

Al nuovo corso ha dato forza e coerenza la vicenda conseguente alla nota Sentenza della Corte Costituzionale del febbraio 1980, che è sembrato colpire al cuore il principio della separazione fra proprietà dei suoli e diritto di edificare, costruito nel corso di un lungo periodo contrassegnato sia da lotte rivendicative nelle fabbriche e nelle città, che di apporti specialistici, elaborati da un ampio fronte politico e culturale.

La proprietà fondiaria, specie a Torino, la proprietà delle grandi aree già industriali (Fiat, Ferrovie, Michelin, Savigliano, per fare i nomi più famosi) è assurta improvvisamente ad arbitro ed interlocutore privilegiato del nuovo corso, in sintonia per altro con quanto molto spesso si elabora a livello nazionale: per esempio la recente proposta di legge nazionale Lupi del 2005 consacra quella linea.

Il piano regolatore di Torino, formato negli anni fra il 1986 ed il 1995 ha costituito la trama fondamentale delle trasformazioni urbane; esso è il risultato dell’egemonia politica e culturale, che ha soppiantato i contenuti formulati dalle amministrazioni di sinistra degli anni fra il ’70 e l’80. Così, in conseguenza della nuova stagione culturale e politica (tuttora in corso) le aree di trasformazione, sede delle destinazioni più prestigiose e redditizie, composte in forme edilizie dalle densità abnormi, si vanno via via realizzando, in un clima culturale, che, nel migliore dei casi, si limita a discutere delle forme e dei modi dell’architettura (pure importanti), senza volere (o potere?) andare alla radice delle scelte di governo della città. Si poteva uscire soddisfatti da “LA NUOVA FABBRICA”?

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