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Luciano Gallino
Neocorporativismo. L'Italia che va in frantumi
14 Febbraio 2007
Articoli del 2006
L'infinita dialettica fra Stato e individuo come elemento fondante della modernità. Da la Repubblica, 28 novembre 2006 (m.p.g.)

Etichettare avvocati, medici, tassisti, ricercatori e altre categorie scese in piazza per protestare contro le liberalizzazioni e la Finanziaria come altrettante corporazioni, e le loro azioni come corporativismo, viene naturale. Ci si deve tuttavia chiedere se sia la scelta più idonea per spiegare le loro azioni. Ove si risalga al decreto del 1934 che istituiva 22 corporazioni, tra cui una per le barbabietole e i prodotti dello zucchero, e una per i servizi alberghieri, la corrispondenza sembra piuttosto labile. Ogni corporazione includeva infatti sia i lavoratori che i datori di lavoro, e una delle sue principali funzioni doveva essere l´elaborazione dei contratti collettivi di lavoro. Peggio sarebbe risalire al Medioevo, tante sono le differenze tra le organizzazioni professionali di ieri e di oggi.

Un diverso schema interpretativo potrebbe invece vedere in quel che succede una fase di crisi della modernità. Nel duplice senso del venir meno di quella particolare esperienza che consiste nell´essere e sentirsi moderni, e del declino d´una idea della modernità capace di dare profondità e ricchezza a tale esperienza. Essere moderni, scriveva già vent´anni fa un docente newyorkese di Scienza politica, Marshall Berman, «vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo». Simile esperienza materiale e intellettuale di "unità della separatezza" di processi complementari e nondimeno contrapposti entra in crisi quando uno dei due processi viene separato e assolutizzato, nella pratica come nelle idee, quasi che potesse sussistere in modo indipendente dall´altro.

Vari fattori hanno concorso a spezzare tale unità, in Italia come in altri paesi. Fra di essi bisogna porre la visione oleografica della modernizzazione diffusa dalle scienze sociali sin dagli anni Sessanta del Novecento. Stando a essa, tutte le società del mondo sarebbero immancabilmente avanzate, al pari delle società occidentali, verso una condizione in cui le autorità tradizionali di tipo religioso, etnico e familiare vengono soppiantate da autorità razionalmente costituite in base a un contratto politico di natura secolare tra le masse e le classi dirigenti; la partecipazione politica manifesta un grande sviluppo; l´azione sociale viene sempre più guidata da norme secolari-razionali; il carattere delle persone si trasforma in modo da combinare una maggior capacità di auto-realizzazione con una crescente disponibilità a cooperare con altri.

Oggi tale idea della modernizzazione appare penosamente sfocata, punto per punto, a confronto della situazione del mondo. A onta del suo distacco dalla realtà, essa si ripresenta di continuo, ad esempio in varie riforme che le forze politiche dei due schieramenti propongono sovente allo scopo di modernizzare il Paese. Esse disegnano un lungo cammino felice verso una nuova stabilità sociale ed economica, per poco che si seguano le indicazioni dei governi, intanto che le persone sperimentano ogni giorno la distruzione accelerata di rapporti tradizionali, la scomparsa di tratti di cultura, l´erosione di comunità identitarie. Le proposte dimezzate provenienti dalle forze di governo, insieme con le esperienze dimezzate che le persone compiono, in assenza di adeguati schemi pubblici d´orientamento, restringono l´orizzonte delle persone agli interessi privati e accentuano il solco tra le élite e le masse.

Opera qui nello sfondo, fra le élite come fra le masse, una concezione rozzamente individualistica della società. Poche battute sono politicamente più ottuse di quella di Margaret Thatcher, per cui la società non esiste; esistono soltanto gli individui. Quanto invece è acuta e fertile la concezione che vede nella società, nello Stato, un essere umano in grande, e in ciascun essere umano una società in piccolo. È una concezione che risale quanto meno a Platone, ma alla quale è stata data nitida forma da un sociologo tedesco, Georg Simmel, ormai un secolo fa. Scriveva Simmel: «Tutte le fasi di una lotta, l´equilibrio delle forze che paralizza temporaneamente la lotta, la vittoria apparente di un partito che dà soltanto all´altro l´occasione di raccogliere le proprie forze... tutto ciò rappresenta in egual misura la forma del corso dei conflitti sia interni che esterni». In altre parole la società risiede in noi, siamo noi stessi, perché sin dall´infanzia abbiamo interiorizzato le sue tensioni, i conflitti e i mutamenti, le ambiguità e le certezze. Mentre ciò che si svolge all´esterno, sulla scena pubblica, è una lotta di formazioni sociali e di rappresentazioni reciproche che riproduce in grande la nostra stessa molteplicità, ma insieme la complica e la estende.

La comprensione di questa dialettica tra l´interiore e l´esteriore, tra società e Stato e l´individuo, per farne impegno di arricchimento personale e sociale, è l´essenza stessa della modernità. Quando comprensione e impegno vengono meno, com´è accaduto in Italia, si ha la regressione di masse intere negli interessi privati, siano essi materiali o spirituali, lo squilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica. Che è anche squilibrio tra l´azione privata, che bada soltanto alle cerchie più interne del proprio mondo quotidiano, e l´azione pubblica, con la quale l´individuo non si identifica con persone, etnie o gruppi sociali, bensì con sistemi impersonali di regole intese a rendere praticabile la cooperazione con cerchie via via più ampie di estranei.

Allorché ciò accade, non serve limitarsi a gettarne la responsabilità sulle masse, accusandole ritualmente di comportamenti rozzamente corporativi, o di colpevoli ricadute nella cultura dell´Io – anche quando lo meritino. Esse hanno soggettivamente interiorizzato una scena oggettivamente predisposta, nel corso di decenni, dalle élite politiche, economiche e intellettuali. Per dirla con Christopher Lasch, che una decina di anni fa intitolò un suo libro La ribellione delle élite per contrapporlo a La ribellione delle masse di José Ortega Y Gasset: «le élite, che definiscono... i temi del dibattito pubblico, hanno perso il contatto con la gente normale. Il carattere irreale, artificiale, della nostra politica riflette il loro isolamento dalla vita comune, e la segreta convinzione che questi problemi siano insolubili».

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