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Francesco Erbani
Quelle città mostruose
18 Maggio 2008
”Il futuro non sarà di vetro e acciaio ma di paglia e legno distese di baracche e di edifici fatiscenti”. Una nuova recensione del libro di Mike Davis, Il pianeta degli slum, da la Repubblica del 2 novembre 2006

Si dice ormai da qualche anno che metà della popolazione mondiale vive in città. Si scrive che l’urbanesimo, iniziato alcuni millenni fa, ha scavalcato quella dorsale simbolica compiendo questo passaggio di civilizzazione in una data anch’essa simbolica, grosso modo l’alba del XXI secolo. In che tipo di città viva la maggior parte degli abitanti del mondo lo spiega però Mike Davis nel libro Il pianeta degli slum (Feltrinelli, pagg. 232, euro 15, traduzione di Bruno Amato).

Davis è americano e insegna in California. È uno dei massimi studiosi dello sviluppo urbano. Ma non si accontenta delle tradizionali gabbie disciplinari. Da tempo intreccia dati fisici, sociali e politici, dati di storia della mentalità e di storia delle religioni per descrivere fenomeni che soltanto se osservati da più punti di vista riescono a esprimere il loro senso, sfuggendo a frettolose etichettature. Capire un certo tipo di sviluppo urbano aiuta a spiegare il fanatismo religioso, per esempio. O il terrorismo.

Gli slum sono quelle indefinite distese di edifici di varia natura, dalle baracche ai caseggiati, miseri aggregati di manufatti che si diffondono dai bordi della città verso la campagna. Ma non sono né città né campagna. E neanche periferie. Gli slum sono l’elemento cospicuo del paesaggio nel sud del mondo - America latina, Asia e Africa. Attualmente - dati dell’Onu citati da Davis - sono abitati da un miliardo di persone, ma le cifre sono quanto di più incerto possa darsi. Con sicurezza si sa che sono in continua crescita e che assorbono la quasi totalità della crescita demografica mondiale. I ritmi spaventano più dei dati assoluti: nel 1910 Londra era sette volte più grande di quanto fosse cent’anni prima; Dhaka, Kinshasa e Lagos sono all’incirca quaranta volte più grandi di quanto fossero cinquant’anni fa. In mezzo secolo Città del Messico è passata da 3 a 22 milioni di abitanti. Il Cairo da 2 e mezzo a 15. Mumbay (Bombay) da 3 a 19.

La città alla quale per abitudine attribuiamo certe caratteristiche queste caratteristiche in gran parte le perde proprio nel momento in cui diventa l’ambiente di vita prevalente. In Europa e negli Stati Uniti dilaga lo sprawl urbano, la cosiddetta città diffusa - la città che si espande e perde la densità che ne ha costituito la natura originaria. Ma il miliardo di esseri umani che si ammassa negli slum, e che potrebbe raddoppiare e triplicare nel giro di qualche generazione, ha molto poco a che fare con le forme di esistenza del mondo ricco, comprese le sue parti più marginali, dalle banlieues parigine alle periferie italiane o inglesi.

I processi di urbanizzazione sono diversi fra loro. In Cina dai tardi anni Settanta a oggi duecento milioni di persone si sono trasferite a Donguang, Shenzen, Fushan e Chengchow, che, scrive Davis, «sono le Sheffield e le Pittsburgh del postmoderno». In buona parte dell’Estremo Oriente la crescita urbana si lega alla crescita del Pil, dipende dall’attrazione esercitata dalle attività economiche che si concentrano nelle città, per cui «l’ottanta per cento del proletariato industriale di Marx oggi vive in Cina». Ma non è così dovunque. Anzi. Nella stragrande maggioranza le città si ingrossano nonostante non offrano nessuna condizione di vita migliore rispetto alla campagna. «Come faceva Lagos negli anni Ottanta a crescere a un ritmo doppio della popolazione nigeriana», si domanda Davis, «mentre la sua economia era in profonda recessione?». Le città sono state per consuetudine secolare il luogo nel quale cercare rifugio perché minacciati - e spesso perché minacciati dalla fame. Lo sono tuttora, pur non assicurando nulla. Ma troppo forti, spiega Davis, sono le spinte all’esodo dalle campagne attivate dalla politica dei prezzi agricoli, dalla deregulation praticata negli anni Ottanta e oltre o dalle discipline finanziarie imposte da Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale.

Secondo una ricerca citata da Davis, il mercato immobiliare ufficiale in molti paesi del Terzo Mondo raramente fornisce più del venti per cento di nuove abitazioni, per cui le città crescono ma non crescono le case e la gente ripiega sulle lottizzazioni abusive o sulle baracche. Oppure sul niente. Le città del futuro, annota Davis, «lungi dall’esser fatte di vetro e acciaio, secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero». Gli slum sorgono in aree pericolose perché soggette a frane o perché incapaci di assorbire alluvioni. Subiscono un impressionante inquinamento da gas di scarico delle macchine. Le condizioni igieniche sono drammatiche.

Le Nazioni Unite, pur usando criteri molto restrittivi, calcolano che più del 99 per cento della popolazione urbana etiope viva negli slum. La stessa percentuale affligge il Ciad. A Bombay dodici dei diciannove milioni di abitanti occupano baracche o palazzi abusivi. Dietro Bombay, troviamo Città del Messico e Dhaka (tra nove e dieci milioni di abitanti), poi Lagos, il Cairo, Karachi, Kinshasa, San Paolo, Shangai e Delhi (tra i sei e gli otto milioni). Gli slum non sono tutti uguali, molti di essi sono il prodotto della degradazione di antichi quartieri residenziali (accade ad Algeri, per esempio), altri hanno origini diverse. Al Cairo circa un milione di persone vive in un vecchio cimitero di mamelucchi, adattando ad abitazione le tombe. Cenotafi e lapidi sono usati come testiere di letto, tavoli, scansie. A Bombay domina il chawl, un fatiscente monolocale di quindici metri quadrati, dove dormono in sei, con in media un bagno ogni cinque famiglie. A Lima le collejones sono case con intelaiatura di legno e coperture di paglia e fango, costruite in un’area di proprietà del principale immobiliarista della capitale peruviana, la Chiesa cattolica. Quasi i due terzi della popolazione di Caracas è ospitata su colline franose o in profonde gole pericolosissime perché sismiche.

In queste aree in continua dilatazione si accumulano conflitti acuti. E crescono le diseguaglianze. «È la zona d’impatto in cui le forze centrifughe della città collidono con l’implosione della campagna», scrive Davis. Il margine urbano è il luogo dove si installano le industrie inquinanti e tossiche, o quelle che prosperano nell’illegalità. Ma è anche il luogo in cui prospera una sfacciata speculazione edilizia. Due ricercatori tedeschi, Hans-Dieter Evers e Rudiger Korff, hanno accertato che in sedici città del sud-est asiatico più della metà dei terreni che ospitano slum appartiene a una manciata di proprietari. Solo novanta persone controllano la maggior parte di tutti i suoli liberi di Bombay.

Entrate in crisi molte delle politiche di sostegno guidate negli anni Ottanta dalla Banca mondiale e fondate sul criterio di trasformare i disperati degli slum in piccoli proprietari fondiari, su questi immensi agglomerati si è fiondata la speculazione, che ritiene le misere abitazioni e gli affitti che si possono ricavare un succoso affare. In Egitto l’acquisto di suoli da edificare o già edificati «è diventato il terzo maggior settore di investimento non petrolifero dopo l’industria manifatturiera e il turismo», scrive Davis. Ma lo stesso succede a Lagos o a Karachi o nei sobborghi di San Paolo, in Brasile.

«La causa prima dello slumming urbano», ha scritto la studiosa indiana Gita Verma, «sembra essere non la povertà urbana, ma la ricchezza urbana». E così, da Dhaka a Bombay, una massa di poveri che arriva al settanta, ottanta per cento della popolazione totale si ammassa su poco più del dieci per cento del suolo urbano. «In tutto il Terzo mondo», annota Davis, «le élite postcoloniali hanno ereditato, riproducendolo avidamente, il modello fisico della città coloniale segregata». E se l’area di uno slum serve a soddisfare qualche interesse, ci si fa pochi scrupoli e lo si smantella. L’antico villaggio di Maroko, a Lagos, occupato da poveri sfollati alla fine degli anni Cinquanta, e ingrossatosi nei decenni, venne distrutto dal regime nigeriano perché doveva espandersi un quartiere di lusso. Ma le ragioni per "bonificare" possono essere altre. Sei anni dopo il massacro di piazza Tienanmen, furono abbattute le case di Zhejiang, uno slum a sud di Pechino: era fonte di insicurezza per la capitale cinese.

Gli scenari futuri, agli occhi di Mike Davis, non sono consolanti. Il Millennium Development Goals, l’obiettivo fissato dall’Onu di dimezzare la povertà estrema entro il 2015, gli appare «l’ultimo rantolo dell’idealismo legato allo sviluppo». Nel frattempo la popolazione degli slum cresce a un ritmo di venticinque milioni di persone all’anno. E la povertà periurbana, quel disperato mondo escluso dalla città tradizionale, è zona di esilio, in cui gli atti di resistenza prendono molte forme: dalle chiese carismatiche ai culti profetici, dal fanatismo religioso e jihadista alle bande di strada che godono nel distruggere «i simboli più protervi di una modernità aliena».

Nota: sul libro di Mike Davis, qui anche la recensione di B.Vecchi dal manifesto, e quella all'edizione americana di Joy Press, con alcuni brani scaricabili in PDF (f.b.)

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