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Giorgio Ruffolo
Una "finanziaria" mondiale per l’emergenza del pianeta
3 Dicembre 2007
Scritti su cui riflettere
C’è chi si sforza di indurre la politica a sollevare lo sguardo dai piccoli giochi: Un altro appello nel vuoto? Da la Repubblica del 30 ottobre 2006

"Il secondo pianeta" era il titolo di un bel libro di Umberto Colombo e Giuseppe Turani pubblicato quattordici anni fa. Allora la popolazione mondiale era di 4 miliardi circa e si prevedeva che sarebbe raddoppiata entro il 2030. In effetti, una volta tanto le previsioni sono state confermate. Siamo oggi sei miliardi e mezzo sulla Terra, supereremo gli 8 previsti nel 2030 e raggiungeremo probabilmente 9-10 miliardi a metà del secolo. Insomma, quel secondo pianeta è qui, con noi.

Certo: non è la «bomba della popolazione» che Paul Erlich vaticinò nel 1986 (20 miliardi di uomini) ma è sempre un bel po’ di gente. E pesa sempre più sulle risorse del pianeta. Anche il recentissimo rapporto del Wwf (vedi Repubblica del 25 ottobre) parla di un altro pianeta in corso di allestimento, gettando un ennesimo allarme.

Ma quanto peserà quel «peso»? Lo si può calcolare all’incrocio di due curve: quella della domanda e quella dell’offerta di Natura. L’offerta è misurata dalla biocapacità: e cioè la produzione della terra in termini di specie, terrestri e marine. La domanda è rappresentata dalla quantità totale di natura: e cioè di terre e di acque utilizzate dall’Uomo. Che provvedono ai suoi bisogni e assorbono i suoi rifiuti.

Il rapporto tra domanda e offerta si chiama impronta ecologica. Se calcoliamo le due curve, ci accorgiamo che dal 1960 ad oggi l’indice della biocapacità è sceso del 30 per cento e l’impronta ecologica ha superato l’offerta del 25%. In altri termini stiamo intaccando rapidamente il capitale su cui viviamo. Ed aumentiamo quello che potremmo definire il nostro debito con la natura. Ma è un debito non rimborsabile. Forse ci sono i banchieri di Dio. Ma non c’è una Banca dell’Universo cui rivolgerci, se il capitale si azzera. E il capitale sta diminuendo al ritmo dell’1% all’anno.

L’imperativo dovrebbe essere chiaro. Promuovere un piano di «rientro» del debito. Proprio come noi italiani con la finanziaria, si licet. Il Wwf ne traccia tre, riguardanti la ripresa di controllo sui cinque fattori di squilibrio dell’impronta ecologica: la popolazione, il consumo pro capite, l’intensità produttiva in materie ed energia, l’estensione dell’area bioproduttiva, l’aumento della bioproduttività per ettaro. C’è un piano business as usual, il quale porterebbe entro il 2050 il debito con la natura dall’attuale 25 al 34%, con conseguenze disastrose in termini di riscaldamento del pianeta e di distruzione delle altre specie. C’è uno scenario di cambiamento lento, che prevede l’estinzione del debito per il 2100, e uno eroico che prevede la chiusura dei conti con la Natura entro il 2050. Basterà dire che questi due ultimi scenari comportano non soltanto un rallentamento decisivo della crescita dei paesi ricchi, che contribuiscono per l’80 per cento circa all’impronta ecologica; ma anche una formidabile redistribuzione di risorse (di conoscenze, soprattutto) verso i paesi poveri.

Qui non si tratta di ecologia. Ma di economia. E di economia molto politica.

Qualche breve osservazione.

Questi allarmi, sempre più frequenti, suscitano nei saggi di Salamanca i soliti sorrisi di scherno.

Il rapporto del Wwf ci dice che stiamo consumando risorse a un ritmo superiore a quello della loro produzione? La risposta convenzionale è semplicissima. Le sostituiremo con altre risorse. I prezzi di mercato ci segnaleranno la loro scarsità. Qualcuno alla fine del Settecento prevedeva che Londra sarebbe stata sommersa nei cinquanta anni successivi dallo sterco dei cavalli. Ma lo sterco fu sostituito dal vapore e il vapore dalla benzina. Elementare. La sostituzione, però, non è infinita. Non può sostituire la terza legge della termodinamica. E costa sempre di più. Qui i prezzi, però, non servono. I prezzi di mercato, gli economisti lo sanno bene, sono prezzi relativi (di una "merce" rispetto a un’altra) mentre il prezzo della natura, è assoluto (di una "merce" non rinnovabile). Se la progressione della "scala" rimane quella attuale, di un raddoppio della produzione ogni 7 anni, in 50 anni la produzione mondiale aumenterebbe di 32 volte: e davvero non basterebbero neppure due pianeti (viene in mente la storiella del Faraone che mette un chicco di grano sul primo scacco e poi raddoppia i chicchi in quelli successivi svuotando i suoi granai già alla quarta fila della scacchiera). Quel limite di scala, nessun mercato può definirlo, è necessaria una decisione consapevole, politica. E mondiale.

Molto prima del limite dell’esaurimento incontriamo comunque il limite del riscaldamento. Oggi le emissioni di energia di origine umana sono trascurabili rispetto a quella che riceviamo dal sole (un quindicimillesimo). Ma nei prossimi 150 anni, al ritmo attuale, provocherebbero un aumento del calore di tre gradi: già catastrofico. Non si dice dopo. Qui però la risposta c’è. Se riuscissimo a utilizzare una anche minima parte dell’energia del sole, senza aggiungervi la nostra, saremmo, per così, dire, a cavallo. Non è facile. Però non è impossibile. Ma quando? In ogni caso, le trasformazioni sociali necessarie per un utilizzo dell’energia solare sono rivoluzionarie e non compatibili con un’economia in crescita continua e squilibrata.

Sarebbe dunque necessario raggiungere, prima o poi, uno stadio stabilizzato (steady state) di crescita zero, anche se continuamente rinnovata nella sua composizione; e soprattutto un grado di consumi equilibrati nell’intero pianeta: il che comporterebbe una restrizione dei consumi (e degli sprechi) nei paesi ricchi e un aumento nei paesi poveri, ma con un tipo di sviluppo diverso da quello attuale dei paesi ricchi.

A chi obietta che i paesi poveri pretenderanno comunque di adottare le abitudini di consumo dei paesi ricchi, e che è impossibile negarglielo, bisogna rispondere che è impossibile raggiungerlo. Al tasso automobilistico americano, indiani e cinesi dovrebbero disporre di circa due miliardi di automobili. E così via per gli altri «beni». Piuttosto si pone, per tutto il mondo, un problema formidabile di redistribuzione dei beni (e dei mali) e di mutamenti fondamentali dei valori (dalla crescita quantitativa al progresso qualitativo).

Non si tratta dunque, soltanto, di un problema di sostenibilità fisica ed ecologica. Si tratta di un gigantesco problema di ristrutturazione sociale, di riorganizzazione politica e di ripensamento etico della civiltà umana. Purtroppo, è probabile che dopo qualche brusìo, ce ne occuperemo (per quanto mi riguarda se ne occuperanno) tra altri quattordici anni. In un altro pianeta.

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