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Un’ introduzione all’ Agenda 21 locale
7 Luglio 2004
Gli attrezzi dell'urbanista
a cura di Gabriele Bollini, Gianfranco Bologna, Andrea Calori e Michele Merola.

1. Introduzione

1.1. Quello che vorremmo fosse realtà: il progetto locale

La costruzione complessa dell’ambiente

Per molte persone l’ambiente viene spesso associato o ad un settore dell’azione pubblica - per il quale vengono attivate politiche specifiche come la realizzazione di parchi, la raccolta differenziata dei rifiuti o altro ancora - o a qualcosa che ci ricorda alcuni dei momenti migliori della nostra vita, a contatto con l’aria aperta e il verde di qualche luogo “incontaminato”.

In aggiunta a questa percezione immediata, l’idea diffusa di ambiente risente anche di fattori maggiormente di lungo periodo derivanti dalla nostra cultura, che è fortemente segnata da un approccio che ha relegato l’ambiente ad una funzione sostanzialmente di cornice rispetto ai fattori fondamentali dello sviluppo. In questo senso, a fronte di alcuni elementi considerati come sintomo di progresso “buono” e che andavano lasciati liberi di espandersi (gli insediamenti, le infrastrutture, ecc.), l’ambiente ha assunto in maniera evidente il ruolo marginale di un elemento che va semplicemente preservato e va tutelato, possibilmente confinandolo ad aree specifiche alle quali affidare il compito ingrato – e, in realtà, impossibile – di compensare i danni progressivamente creati nella altre aree dove la società produce le sue ricchezze.

Non è un caso che, passato il primo periodo di industrializzazione - che si localizzava nei territori fluviali che fornivano la risorsa acqua per produrre vapore – lo sviluppo moderno abbia privilegiato soprattutto i territori che presentavano pochi ostacoli naturali: l’idea del territorio come tabula rasa sul quale collocare grandi estensioni urbane è una metafora della modernità, che si percepisce come processo che libera l’uomo dai legami e dalle costrizioni dell’ambiente per espandersi sull’intero globo, isolando alcune aree nelle quali mantenere degli elementi naturali o da dedicare prevalentemente alla ricreazione o utilizzati al massimo come compensazione e contenimento delle espansioni degli insediamenti.

Questa concezione riduttiva è uno dei tanti frutti di un approccio culturale che percepisce lo sviluppo come un processo sempre in crescita che viene misurato solo in termini di performance economica astratta, che viene prodotta in modo sostanzialmente slegato dai caratteri del luogo e dell’ambiente.

Il ragionamento sotteso è che, quello che conta, è riuscire a produrre sempre di più; costi quello costi, anche – e soprattutto - sotto il profilo ambientale. Questo approccio può anche non risultare particolarmente dannoso se la quantità di produzione è relativamente bassa, ma è evidente che la produzione – e il relativo consumo - non può aumentare all’infinito, se non producendo infiniti rifiuti e consumando quantità sempre maggiori di energia, fino all’esaurimento delle fonti e delle risorse da cui trae origine questo tipo di sviluppo. Quando si parla di critica alla globalizzazione si critica anche questo modello di sviluppo; che è misurato solo in termini di ricchezza economica diretta; che viene descritto da indicatori estremamente semplificati e impropri come il PIL (Prodotto Interno Lordo) e che – in sostanza – non considera i fattori ambientali come elementi in gioco nel processo di costruzione sociale ed economica dell’evoluzione della civiltà.

L’ambiente, più che “semplicemente naturale”, è il frutto di una serie complessa di caratteri naturali che sono essi stessi costantemente in evoluzione e che, sotto l’azione dell’uomo, vengono percepiti e ulteriormente trasformati assumendo conformazioni diverse e sempre in evoluzione. Queste conformazioni dell'ambiente dipendono quindi molto dal modo in cui l’uomo si pone in relazione con esse attraverso la propria organizzazione sociale, economica e istituzionale e per mezzo delle proprie capacità tecnologiche.

L’ambiente che noi viviamo qui ed ora è il frutto dei diversi modi attraverso i quali le generazioni che ci hanno preceduto si sono poste in relazione con esso: coltivandolo, trasformandolo, danneggiandolo o contribuendo alla sua riproduzione. L’ambiente – la sua forma, la sua qualità - dipende da un processo culturale che coinvolge fattori sociali, istituzionali, economici e istituzionali che sono strettamente connessi con i caratteri “naturali” dell’ambiente. E’ questo, sostanzialmente, l’approccio che anima il concetto di sostenibilità: con il quale si mettono in relazione l’ambiente con l’economia e la società che sono ad esso connesse.

Il concetto di sostenibilità - che, con diverse sfumature, è diventato oramai patrimonio comune a livello mondiale - verrà spiegato meglio nei paragrafi successivi anche per considerare i risvolti concreti e operativi che esso produce. Prima di addentrarsi in questa trattazione, è utile però capire perché il tema ambientale è fra i più centrali all’interno della critica al modello di sviluppo che, sinteticamente definiamo globalizzazione e quali possono essere le strategie e gli strumenti di cui possiamo dotarci per costruire modelli diversi di sviluppo.

L’ambiente e la dimensione “locale”

Elaborando quanto è stato detto sopra, risulta abbastanza evidente che l’idea di sviluppo crescente e illimitato che caratterizza la cultura occidentale moderna, contiene in sé i geni di quegli aspetti negativi della globalizzazione che da più parti si cerca di contrastare proponendo approcci diversi. L’elemento che più critichiamo nella “globalizzazione selvaggia” è, appunto, il suo essere indifferente ai caratteri delle culture, delle società e delle economie locali; così come lo sviluppo moderno dell’occidente è stato sostanzialmente indifferente ai caratteri dell’ambiente, come se l’ambiente e il territorio fossero una tabula rasa sulla quale collocare funzioni produttive, abitative e infrastrutturali libere da ostacoli di sorta.

Pensare a modelli di sviluppo diverso, quindi, significa anche pensare a come ricucire il legame tra sviluppo economico sociale e ambientale; verificando luogo per luogo come la combinazione di questi tre elementi possa essere riarticolata a partire dalle caratteristiche dell’economia, della società e dell’ambiente locale.

In quest’ottica, oramai anche i documenti ufficiali di tutti i principali organismi internazionali e sovranazionali, l’ambiente non viene più considerato come un settore specifico delle politiche pubbliche, ma come una dimensione che attraversa tutte le politiche; come un punto di vista a partire dal quale osservare, valutare e orientare l’intero arco delle azioni pubbliche. Una volta assunti questi principi generali, essi vanno però declinati operativamente per capire come modificare quelle regole genetiche dello sviluppo “globale” che inducono la cancellazione delle differenze ambientali, sociali ed economiche. Occorre un'inversione dello sguardo proprio a partire dal territorio e dall’ambiente perchè, da puri supporti di un modello di sviluppo omologato, diventino l’occasione e il motore di una differenziazione locale degli "stili di sviluppo" in grado di generare ricchezza durevole al di là dei semplici parametri del profitto misurati dal PIL. Il primo passo da fare è quello di comprendere se, a fronte dei disastri causati da un globale cieco rispetto ad ogni differenza di cultura e di luogo, la risposta sia un semplice ritorno ad una dimensione locale in cui ci si richiami agli slogan consolatori del “piccolo è bello”. In realtà, più che pensare ad una dimensione locale limitata geograficamente (il paese, la piccola città, la porzione di ambiente-territorio), è molto più fecondo pensare alla metafora della rete, in cui diversi luoghi densi, costruiscono relazioni di scambio non gerarchico. Una rete in cui ogni nodo trova al proprio interno le risorse necessarie per la propria evoluzione, riarticolando il rapporto con gli altri nodi in funzione delle proprie capacità di costruire legami fecondi che valorizzino le proprie peculiarità e, quindi, garantendo nel lungo periodo il mantenimento e la riproduzione delle risorse locali: siano esse di tipo sociali, economiche o ambientali.

Parallelamente a questa riflessione più di tipo culturale e “politico”, il pensiero scientifico ha elaborato il concetto della “chiusura dei cicli”, che indica la necessità di limitare gli impatti delle attività umane cercando di limitare il più possibile a livello locale il consumo delle risorse, in favore di processi che favoriscano e sostengano la loro riproduzione (vedi anche il punto 2.4 relativo all’”impronta ecologica”).

Cambiare l’attuale modello di sviluppo avendo in mente queste prospettive è un’operazione delicata che richiede la collaborazione di tutti: l’approccio dei “locali in rete” è quello per cui si trovano le modalità più opportune di mettere tra loro in relazione soggetti diversi che individuano la possibilità di collaborare insieme, facendo progressivamente germinare relazioni sempre più complesse fino a coinvolgere l’intera società. Così, a partire da alcune delle forme più avanzate e radicali di costruzione di reti locali (i gruppi di acquisto solidali, i commerci equi, l’autogestione di beni e servizi primari, ecc.), può essere progressivamente riconvertita tutta la gamma delle relazioni che muovono le economie e le società senza porsi improbabili obiettivi di rifondazione del mondo e di nuove palingenesi calate dall’alto.

Avere cura dell’ambiente al di là delle sole politiche di tutela implica quindi l’impegno a trovare forme di comunicazione differenziate tra soggetti che si pongono in rete in modo diretto con lo scopo di cambiare le regole genetiche del rapporto tra società, economia e ambiente. Ciò significa anche ripensare all’abitante come produttore di società e di ambiente; come ad un soggetto che dialoga con altri abitanti per trovare alternative all'eterodirezione generata dalla logica del mercato. Significa anche contrastare la dinamica per la quale sono le regole globali a regolare le società, le economie e le istituzioni locali inducendo implicitamente la distruzione non solo dell'ambiente, ma anche del capitale economico e sociale che costituisce fonte delle ricchezze basate sulla qualità della vita, sulla giustizia sociale, sull'identità culturale e sulla relazione armonica con l'ambiente. In questo processo si situa anche il radicale cambiamento di ruolo dei governi locali e dei municipi. Trasformare le regole genetiche del rapporto società-economia-ambiente significa anche sperimentare e dare forma ad istituti intermedi di democrazia, di rappresentanza e di co-decisione. In questi anni, da parte dalle istituzioni di livello superiore (ONU, UE, governi nazionali) si assiste ad una forte promozione dei processi di partecipazione e di progetti di sviluppo locale in cui la costruzione di istituti di concertazione fra attori locali è associata a criteri di verifica ambientale (Valutazione Ambientale Strategica, inserimento di variabili ambientali, ecc.) e costituisce il prerequisito per l’ottenimento di finanziamenti.

Dunque le condizioni di un incontro fra “cantieri» di società locali in costruzione” e istituzioni sono date, anche se l’attivazione di questo tipo di iniziative “dall’alto” non significa necessariamente far crescere società locale, se gli attori che siedono al tavolo della concertazione sono sempre gli stessi - pochi e forti – e se le regole dello sviluppo locale rimangono quelle “globali”. E’ necessario che a questi strumenti di finanziamento e di costruzione di politiche di sviluppo locale possano accedere anche attori differenti; riconoscendo, valorizzando e sostenendo soggetti singoli e collettivi che hanno come obiettivo la trasformazione della società locale e la valorizzazione dei beni pubblici; primi fra tutti quelli connessi con la riproduzione delle risorse territoriali e ambientali.

In questo orizzonte, la società sostenibile richiede processi complessi e integrati, che rendano compatibili e coerenti la sostenibilità culturale (i processi di ridefinizione delle forme di cittadinanza, il municipio, l'autogoverno), economica (la conversione ecologica dell'economia, l'affermazione dell'economia della natura), geografica (le reti non gerarchiche e solidali di città, la democrazia territoriale), ambientale (la coerenza degli insediamenti umani con la riproducibilità dei sistemi ambientali).

Diversamente, l’ insostenibilità della società globale ha il suo orizzonte più drammatico nelle megalopoli del terzo mondo, nelle quali è palese lo sradicamento degli individui dalla società, dall’economia e da un ambiente riproducibile che costituisce realmente una fonte di vita. Per questo è urgente conoscere e utilizzare tutti gli strumenti istituzionali ed extraistituzionali che ci permettono di sperimentare nuove forme di dialogo sociale in cui emergano e si consolidino nuove solidarietà, stili di vita, pratiche e soluzioni tecniche innovative.

Scopo ultimo è quello di costruire patti tra soggetti che si impegnano a giocare ruoli differenti all’interno di un unico quadro concertato e condiviso, tenendo ancora una volta conto che i patti sono tanto più efficaci quanto c’è un impegno a verificarsi reciprocamente. Per questo, ancora una volta, è la dimensione locale a presentarsi come la più adatta a garantire la costruzione e il mantenimento di questi patti, in quanto è a questo livello che le reti di solidarietà e di scambio non mercificato riescono ad essere più efficaci. Il patto locale è costituito dalla serie di impegni che una società locale prende pubblicamente per darsi degli orizzonti condivisi di azione: per ri-costruirsi partendo da un progetto.

In questa direzione, lo strumento più conosciuto a livello mondiale che può essere utilizzato per attivare processi di dialogo e di concertazione locale in stretta connessione con le tematiche ambientali è quello dell’Agenda 21. Come verrà spiegato meglio nei capitoli successivi, si tratta di uno strumento codificato a livello mondiale nel corso della Conferenza ONU tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 che è stato esplicitamente pensato per facilitare il dialogo tra tutte le componenti della società, affinchè trasformino le loro attività e la loro economia considerando l’ambiente come una variabile strutturale delle decisioni e delle azioni.

Agenda 21 pone una forte enfasi sulla dimensione locale della comunicazione e dell’azione, proprio per la possibilità che questa dimensione offre in termine di dialogo, di costruzione di patti condivisi e di verifica del mantenimento e dell’attuazione di questi stessi patti. Se non viene utilizzata come l’ennesimo strumento da applicare con freddezza manualistica – come spesso si verifica osservando diverse delle esperienze in corso - essa può sostenere efficacemente la costruzione di politiche ambientali basate su un progetto locale, cioè sulla capacità di una società di darsi regole autonome e condivise e di sottoscrivere patti e solidarietà nel quadro di un orizzonte comune.

Prima di addentrarci nelle pagine seguenti per conoscere l’Agenda 21 ed altri strumenti di costruzione di politiche per la sostenibilità ambientale, possiamo concludere queste riflessioni iniziali, da un lato, pensando all’ambiente come ad un’occasione per rivedere e trasformare l’economia e la società e, dall’altro, riflettendo sulle implicazioni che le attività umane hanno sull’ambiente e sulle risorse vitali dell’umanità.

Comprendere la nostra “impronta ecologica” sul mondo significa quindi fare un altro passo verso una trasformazione della società e degli stili di vita in senso equo e solidale.

1.2 Il concetto di sostenibilità

Il tema centrale per il nostro presente e futuro è come riuscire a vivere su questo nostro pianeta con un numero di esseri umani che ha già superato i 6 miliardi e che potrà superare i 10 miliardi in questo secolo, in maniera dignitosa ed equa per tutti senza distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali da cui traiamo le risorse per vivere e senza oltrepassare la capacità di questi stessi sistemi di supportare gli scarti ed i rifiuti dovuti alle nostre attività produttive. Non vi è dubbio che questo costituisce il tema centrale per tutte le società umane ormai completamente interconnesse da una globalizzazione evidente ma invece, i politici, gli economisti, gli imprenditori continuano a concentrare la loro attenzione e la loro priorità operativa sul perseguimento di una continua ed inarrestabile crescita economica che, nonostante i perfezionamenti importantissimi della tecnologia, continua ad erodere i sistemi naturali, a distruggerli e ad inquinarli e ad aggravare le differenze sociali ed economiche tra i ricchi ed i poveri del pianeta. Sulla necessità che sia necessario un profondo cambiamento nelle relazioni tra la nostra specie ed i sistemi naturali che ci supportano ormai non vi è più dubbio. Si sono moltiplicati i vertici internazionali, si sta creando una vera e propria normativa sovranazionale di carattere ambientale con convenzioni internazionali, trattati, protocolli e direttive, ma manca ancora, drammaticamente, la consapevolezza, sia teorica che pratica, che questi problemi possono essere risolti solo con una vera e propria “Rivoluzione culturale” rispetto ai nostri modi obsoleti di concepire i sistemi economici, quelli sociali e quelli naturali. Una rivoluzione che dovrebbe avere i connotati delle due grandi precedenti rivoluzioni della storia umana, quella agricola e quella industriale.

Lo sviluppo sostenibile

Oggi abbiamo una sorta di parola d’ordine che, al solo utilizzarla verbalmente, sembra poter fornire la soluzione ai tanti e gravi problemi esistenti nel rapporto tra i sistemi naturali e la nostra specie: si tratta dello “sviluppo sostenibile”. È un’espressione abbondantemente abusata in ogni contesto, soprattutto di tipo politico ed economico. Sembra che parlare di sviluppo sostenibile o applicare il termine sostenibilità al solo livello parlato o scritto, per qualsiasi attività umana nei sistemi naturali, divenga automaticamente una sorta di giustificazione di tutti gli effetti negativi prodotti dalle stesse. È evidente che i sistemi produttivi e di consumo di una società futura, la cui necessità e desiderabilità si impone alla luce dell’oggettiva situazione ambientale, economica e sociale attuale, saranno diversi da quelli che sino ad oggi abbiamo conosciuto. La prospettiva della sostenibilità mette in seria discussione il nostro modello di sviluppo socio-economico. Nei prossimi decenni dovremo essere capaci di passare da una società in cui il benessere e la salute economica sono misurati in termini di crescita della produzione e dei consumi materiali ad una società in cui si sia capaci di vivere meglio consumando molto meno, evitando la dilapidazione dei sistemi naturali e quindi del capitale naturale e sviluppando l’economia riducendone gli attuali input di energia e materie prime.

Il concetto di sostenibilità deriva dal verbo “sostenere” che vuol dire supportare, sopportare, mantenere, mantenere il peso di, dare forza a, ecc. Si tratta di un concetto apparentemente molto chiaro: sembra infatti facile potere pensare al fatto che una nostra determinata azione o attività possa essere sostenuta dalle capacità presenti nel sistema in cui si opera, si agisce, si interviene e ad una prima considerazione, sembra facile poter conoscere o calcolare tale capacità. In realtà ciò che è difficilissimo chiarire, per mancanza di nostre conoscenze e per l’oggettiva complessità dei meccanismi di funzionamento dei sistemi naturali, è proprio la certezza che una nostra attività, una nostra azione, un nostro intervento, possa essere adeguatamente sostenuto dal sistema naturale su cui si interviene. Non siamo in grado di avere alcuna certezza della sua sostenibilità, se non allo stato attuale delle nostre scarse conoscenze. Il termine sostenibilità e, soprattutto, quello di sviluppo sostenibile, si è andato diffondendo nel decennio Ottanta perchè nell’ambito della comunità internazionale, in particolare delle Nazioni Unite, appariva sempre più evidente che il classico concetto di sviluppo cosi’ strettamente legato a quello di crescita (soprattutto crescita economica, intesa come incremento del prodotto pro capite), aveva causato una situazione di profonda insostenibilità dei rapporti con i sistemi naturali. Lo sviluppo economico è insostenibile perchè ha profondamente minato i processi ecologici essenziali, distruggendo di fatto, la base stessa fondamentale per la sopravvivenza della popolazione umana. La crescita economica aveva promesso di creare abbondanza, benessere e rimozione dei fattori di povertà. Purtroppo agendo fortemente sui sistemi naturali e sui servizi offerti dagli ecosistemi alla nostra sopravvivenza, ne ha profondamente minato le basi rigenerative e le capacità assimilative e, soprattutto nei paesi poveri, è diventata sempre più causa di povertà e scarsità.

Lo sviluppo sostenibile da Stoccolma ad oggi

Sin dalla preparazione della prima conferenza internazionale delle Nazioni Unite sull’ “Ambiente umano” di Stoccolma nel giugno 1972 si è iniziato a parlare e a scrivere di “ecosviluppo” e cioè di uno sviluppo sociale ed economico che tenesse finalmente conto dell’importanza basilare della tutela e razionale gestione del “capitale naturale” come base essenziale per lo stesso sviluppo umano.

La “Strategia Mondiale per la Conservazione” prodotta nel 1980 dall’IUCN (World Conservation Union – un’organizzazione costituita da autorità governative dei diversi paesi e da tante organizzazioni non governative -), dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP – struttura voluta proprio dalla Conferenza di Stoccolma -) e dal Fondo Mondiale per la Natura (WWF) è stato il primo documento ufficiale internazionale che ha riportato chiaramente nel suo titolo il concetto di sviluppo sostenibile (“World Conservation Strategy of the Living Natural Resources for a Sustainable Development”).

Nel 1987 la Commissione Indipendente sull’Ambiente e lo Sviluppo, nata in ambito ONU e presieduta dall’allora primo ministro norvegese, signora Gro Harlem Brundtland,, pubblica il suo rapporto “Il futuro di noi tutti” (“Our Common Future”) che definisce lo sviluppo sostenibile la soddisfazione dei bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro.

Esistono numerosissimi definizioni di sviluppo sostenibile; tra le tante quella proposta dal rapporto del 1991 “Caring for the Earth, Strategy for a Sustainable Living” (“Prendersi cura della Terra, una Strategia per il vivere sostenibile”), realizzata, ancora una volta, da IUCN, UNEP e WWF, è oggi quella più riconosciuta negli ambienti specializzati, soprattutto dell’economia ecologica, la disciplina più ricca di elaborazione sulla concezione della sostenibilità. La definizione dice che lo sviluppo sostenibile è il miglioramento della qualità della vita pur rimanendo nei limiti della capacità di carico degli ecosistemi che la sostengono.

1.3 La Conferenza di Rio de Janeiro e l’Agenda 21

Nel giugno del 1992 il grande Summit della Terra delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), ufficializza definitivamente la concezione dello sviluppo sostenibile a livello internazionale, sottoscrivendo un ampio documento definito “Agenda 21” (un Agenda di azioni per il 21° secolo) dove, in 40 capitoli, vengono tratteggiati gli elementi essenziali per far imboccare a tutte le società umane la strada di una sostenibilità del proprio sviluppo economico e sociale (un interessantissimo volume sulla conferenza di Rio è quello curato da Giulio Garaguso e Sergio Marchisio, pubblicato nel 1993 da Franco Angeli con il titolo “Rio 1992: Vertice per la Terra”).

Alla Conferenza partecipano delegazioni di 183 nazioni, dopo due anni e mezzo di lavori preparatori, con la presenza di moltissimi capi di Stato e di Governo e con la simultanea presenza di un Global Forum alternativo predisposto dalle Organizzazioni Non Governative che ha visto la presenza di oltre 2.900 ONG e circa 17.000 persone (gli Atti del Global Forum sono stati pubblicati in italiano da ISEDI nel 1993 con il titolo “La Carta della Terra”).

Lo spirito dell’Agenda 21

L’Agenda 21 è quindi un vasto programma d’azione per tutta la comunità internazionale che però non contiene obblighi giuridici. È un testo di natura programmatica ed operativa che riflette il consenso globale raggiunto nel Summit di Rio (confermato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite).

L’Agenda 21 è ispirata al principio di integrazione delle politiche ambientali con quelle economiche e sociali e tende a tradurli in pratica in più di un centinaio di aree di programma che spaziano dall’atmosfera ai suoli, alle montagne, alle acque del pianeta ed in numerosi altri campi quali la scienza, la tecnologia, l’informazione ecc. È suddivisa in 4 grandi sezioni che inquadrano nel complesso i 40 capitoli particolari, ognuno dedicato ad un insieme di programmi ed iniziative o alla trattazione di un problema intersettoriale (come quelli della popolazione, dei modelli di consumo, delle risorse finanziarie, dei trasferimenti tecnologici, del debito estero, delle spese militari, dei rifiuti, delle foreste ecc.). Di ogni area di programma sono identificati le basi di azione, gli obiettivi da perseguire, le attività da realizzare e gli strumenti di attuazione. Nell’insieme l’Agenda 21 presenta le priorità di sviluppo della comunità internazionale per un periodo che entra nel 21° secolo e costituisce il più importante “master plan” o documento programmatico sinora avutosi nella storia della comunità internazionale,

La Conferenza di Rio ha approvato anche la nascita di un’apposita Commissione per lo Sviluppo Sostenibile in sede Nazioni Unite, costituita dalle delegazioni di numerose nazioni, membri della Commissione a rotazione, che si è riunita regolarmente, ogni anno, a partire dal 1993, e che ha discusso ed ampliato con apposite ricerche ed approfondimenti, l’attuazione e la concretizzazione dei contenuti dell’Agenda 21 in tutto il mondo.

Dal 26 agosto al 4 settembre 2002 a Johannesburg le Nazioni Unite hanno convocato il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile (World Summit on Sustainable Development) che vedra’ le delegazioni di tutti i paesi del mondo, i capi di Stato e di Governo, fare il bilancio di cosa e’ stato fatto in questi dieci anni nell’applicazione dell’Agenda 21 e di tutta la normativa internazionale in essere e rilanciare l’azione con ulteriori iniziative da intraprendere.

2. L’Agenda 21 Locale

2.1 Che cos’è un’Agenda 21 Locale?

Il documento Agenda 21 è un ampio catalogo delle politiche-azioni (intese nel senso di un percorso o metodo d’azione ben definito che serve per guidare e determinare le decisioni presenti e future) da mettere in atto in tutti i Paesi per avviarsi sulla strada di uno sviluppo sostenibile.

L’Agenda 21, proprio in considerazione delle peculiarità di ogni situazione locale, invita (nel Cap. 28) le autorità locali di tutto il mondo a dotarsi di una propria Agenda:

“Ogni autorità locale, dovrebbe dialogare con i cittadini, le organizzazioni locali e le impreseprivate ed adottare una propria Agenda 21 locale. Attraverso la consultazione e la costruzione delconsenso, le autorità locali dovrebbero apprendere ed acquisire dalla comunità locale e dal settoreindustriale, le informazioni necessarie per formulare le migliori strategie”. L'Agenda 21 Locale è il processo di partnership attraverso il quale gli Enti Locali (Comuni, Province, Regioni) operano in collaborazione con tutti i settori della comunità locale per definire piani di azione per perseguire la sostenibilità a livello locale.

Perseguire la sostenibilità locale presuppone la definizione di strategie oculate delineate caso per caso. È impossibile infatti adottare politiche identiche in tutte le realtà locali. Ogni realtà è diversa per dimensione, cultura, risorse e deve quindi trovare da sé la propria migliore vocazione ambientale, attingendo alla propria storia e dotandosi di strumenti adeguati a risolvere i problemi specifici del proprio contesto.

L’Agenda 21 Locale è in genere uno strumento difficilmente codificabile, considerata la diversa natura dei problemi affrontati e le differenti priorità che contraddistinguono le autorità locali nella loro articolazione gerarchica e nella loro distribuzione territoriale. Un processo, dunque, e non (solo) un prodotto. Non ha senso pensare ad un’Agenda 21 Locale come un Piano d’azione predisposto da un referente esterno all’Amministrazione, senza un confronto con la comunità locale. Non si tratta neanche di un semplice processo di animazione sociale al cui termine si tratti solo di scrivere una carta o un documento di buone intenzioni, senza aver definito, anche dal punto di vista tecnico, gli strumenti per la sua attuazione.

Non esistono quindi regole fisse, ma esistono requisiti minimi e alcune componenti chiave per poter definire come Agenda 21 Locale un processo di programmazione partecipata, capace di avviare strategie di sviluppo sostenibile, rispondenti alle caratteristiche locali, capaci di guardare al medio- lungo periodo e strutturate in modo integrato. Un percorso che nasce da una scelta volontaria e condivisa tra più attori locali, che deve servire a esplicitare e condividere obiettivi, verificare la loro credibilità e desiderabilità, e, quindi, tradurli in una strategia integrata, a sua volta articolata in linee d’azione concrete, che consentano di conseguire gli obiettivi (di livello globale e locale) assunti con il coinvolgimento attivo e volontario di tutti i soggetti interessati (attori economici e sociali, cittadini singoli, associazioni no profit, ecc.).

Il risultato atteso è l’avvio di un percorso “consapevole” di miglioramento della qualità dell'ambiente e dello sviluppo, dove ad azioni promosse e direttamente attivate dall'autorità locale si affiancano azioni e programmi avviati su base volontaria da attori sociali ed economici, secondo principi di cooperazione e di integrazione.

Che cosa ha di speciale?

L’Agenda 21 Locale è speciale per le seguenti ragioni:

• viene adottata su mandato delle Nazioni Unite e gli Enti locali in tutto il mondo sono impegnati in questo processo;

• riconosce il ruolo chiave degli Enti locali nel perseguimento della sostenibilità;

• mette in risalto la responsabilità globale di ciascuno, sia attraverso la riduzione del proprio impatto ambientale e dei propri effetti sulle comunità più lontane che condividendo idee ed esperienze con altri;

• chiama alla partecipazione tutti i settori della comunità locale e rafforza la democrazia locale;

• è molto più di un “piano verde” perché riguarda l’integrazione degli aspetti ambientali, sociali, economici e culturali nonché la qualità della vita della popolazione locale.

2.2. Come si fa un’Agenda 21 Locale

Requisiti minimi e fattori di successo del processo di costruzione di un’Agenda 21 Locale

È di importanza cruciale assicurare che il concetto di sviluppo sostenibile pervada l’intero modo di operare della comunità locale e dell’Ente locale che promuove l’Agenda 21 Locale. L’Agenda 21 Locale deve essere un’iniziativa coerente, volta alla messa in opera dei concetti e dei principi dello sviluppo sostenibile e della qualità della vita; non può essere solo una rassegna di progetti belli ma settoriali.

Non ci sono modi rigidi e prefissati di adozione dell’Agenda 21 Locale così come non esistono regole fisse ma esistono requisiti minimi e alcune componenti chiave del processo. Quelli che seguono costituiscono i “requisiti minimi” e i “fattori di successo” del processo di costruzione di un’Agenda 21 Locale.

Il coinvolgimento dei diversi attori: il processo si avvia effettivamente nel momento in cui si promuove e si raccoglie la disponibilità e l'interesse di tutti gli interessati e i poteri coinvolti a livello locale.

La volontà e motivazione del governo e delle strutture pubbliche locali: la volontà politica del governo locale e la motivazione a collaborare da parte delle agenzie e dei servizi coinvolti rappresenta un requisito fondamentale.

La strutturazione di forme di progettazione partecipata: il Forum (o altre forme di coordinamento di rappresentanti della comunità locale, strutturato e mirato allo scopo) ha il compito di essere soggetto attivo e di orientamento nel processo di elaborazione del Piano d'azione locale. Il Forum serve quindi a definire le risorse che ogni parte può mettere in gioco, individuando anche gli eventuali conflitti tra interessi diversi.

La consultazione permanente: il mantenimento durante tutto il percorso di forme di informazione e consultazione mirata al vasto pubblico dei cittadini ha lo scopo di individuare le domande e le disponibilità e di creare le migliori condizioni per l'attuazione del Piano d'azione locale.

La disponibilità di informazione e l'attività di diagnosi: l'audit e la redazione del Rapporto sullo Stato dell'Ambiente e della sostenibilità, servono a costruire, attraverso indicatori appropriati, la base su cui sviluppare la costruzione delle strategie.

La visione strategica e i Target: la costruzione di un'idea di "sostenibilità locale", il più possibile condivisa, e la definizione di obiettivi, quanto più concreti o addirittura quantificabili, da associare a precise scadenze temporali, sono il passaggio chiave per la predisposizione del Piano d'azione locale.

La costruzione di un Piano d'azione integrato, da attuarsi sulla base del principio disussidiarietà: la capacità di trasformare la visione strategica in un programma di azioni concrete e integrate tra loro, adatte a raggiungere gli obiettivi individuati, da attuarsi da parte del governo locale e del Forum, attraverso una diretta responsabilizzazione dei diversi "attori" che saranno i protagonisti della loro attuazione.

La capacità di attuazione e di monitoraggio: la capacità di sostenere il Piano d'azione locale definendo scadenze e responsabilità, dotandole di risorse finanziarie e strumenti di supporto, integrandolo nel sistema della programmazione locale. La comunicazione verso l'esterno e il mantenimento di procedure di controllo permanente sull'attuazione e sull'efficacia del Piano d'azione locale si possono realizzare mediante la redazione periodica di rapporti che individuino i miglioramenti e i peggioramenti della situazione ambientale e che servono a suggerire eventuali aggiustamenti del Piano d'azione.

Articolazione del processo e fasi funzionali

Il processo di attivazione di un’Agenda 21 locale si costituisce di alcune fasi:

Attivazione di un Forum: è costituito da istituzioni, soggetti economici, associazioni dicittadini, cioè da tutti quei soggetti rilevanti a livello locale ai fini di una strategia ambientale, che devono essere coordinati all’interno del Forum per orientare il processo di elaborazione dell’Agenda 21, nonché di monitorarne l’applicazione.

Consultazione permanente: la consultazione della comunità locale ha lo scopo diriconoscerne i bisogni, definire le risorse che ogni parte può mettere in gioco, individuare ed istruire gli eventuali conflitti tra interessi diversi.

Audit territoriale e redazione di un Rapporto sullo Stato dell’Ambiente: consiste nellaraccolta di tutti i dati di base sull’ambiente fisico, sociale ed economico; un vero audit urbano che serva a costruire, attraverso indicatori ambientali, il Rapporto sullo stato dell’ambiente, su cui si svilupperà la discussione per la redazione dell’Agenda 21 locale con l’aiuto del Forum.

Obiettivi e priorità (Target): nella costituzione di un’Agenda 21 locale, la definizione diobiettivi (concreti e quantificabili) deve essere integrata con la formulazione di un ordine di priorità. Gli obiettivi generali e le priorità si devono tradurre in programmi indirizzati ad obiettivi specifici associati a precise scadenze temporali.

Piano di Azione Ambientale: con questa definizione si intende un programma di azioniconcrete necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati, con la definizione degli attori che saranno responsabili dell’attuazione, delle risorse finanziarie e degli strumenti di supporto.

Monitoraggio, valutazione e aggiornamento del Piano di Azione : devono essere attivateprocedure di controllo sull’attuazione e sull’efficacia del Piano di Azione, con rapporti periodici che individuino i miglioramenti ed i peggioramenti della situazione ambientale.

Lo schema che segue intende fornire un riferimento di ordine generale, desunto dalle esperienze più consolidate all'estero e in Italia, delle principali fasi del processo e delle attività che, nell'ambito di ogni fase, possono essere sviluppate. Dallo schema emerge con evidenza la natura complessa del processo, dove ad attività di ordine conoscitivo ed analitico si affiancano azioni di coinvolgimento e stimolo della partecipazione, scenari di previsione, indirizzi di pianificazione e linee di intervento per il conseguimento degli obiettivi assunti.

Attivazione del processo di Agenda 21 Locale

Iniziative di sensibilizzazione e promozione

Adesione ad accordi e network internazionali

Impegno formale dell’Amministrazione locale

Coinvolgimento dei settori interessati

Individuazione e coinvolgimentodel pubblico

Creazione del gruppo tecnico

Attivazione del Forum civico

Rapporto sullo Stato dell’Ambiente

Predisposizione delquadro diagnostico

Audit della struttura e della gestione

Valutazione delle politiche

Selezione di obiettivi strategici e locali

Individuazione delle prioritàe definizione degli obiettivi

Discussione e validazione degli obiettivi

Definizione delle strategie di intervento

Predisposizione di scenari

Costruzione delPiano d’Azione Locale

Definizione di linee di intervento

Individuazione di strumenti d’azione

Confronto sulla proposta preliminare

Adozione del Piano d’Azione Locale

Individuazione degli attori

Adozione formale e indirizzi per la gestione

Individuazione della struttura e delle procedure

Implementazione, monitoraggio,valutazione e feedback

Attivazione di verifiche periodiche

Aggiornamento e adeguamento del Piano

Schema di riferimento di ordine generale sulle principali fasi del processo e sulle attività che,nell’ambito di ogni fase, possono essere sviluppate (tratto da ANPA, Linee guida per le Agende 21 Locali, 2000)

2.3. L’Agenda 21 Locale come linea guida dei piani di settore (dai PER ai PRG, dai PTC ai PUT)

In Italia molti terreni di intervento locale sono governati attraverso piani e programmi. Il sistema delle competenze locali prevede l’attivazione di piani comunali, provinciali e o regionali per gran parte dei temi di interesse per una Agenda 21 locale. In linea generale, si può ricordare l’esistenza dei vari livelli amministrativi riferibili a:

• la programmazione socio economica e la programmazione finanziariaa livello locale(Piani regionali di Sviluppo, Piani di sviluppo delle Comunità Montane, Documenti di Programmazione economico – finanziaria, Relazioni e bilanci revisionali, etc.)

• la pianificazione territoriale e paesistica (Piani regionali, provinciali, delle Comunita’Montane e Piani regolatori generali, ai sensi delle Leggi urbanistiche regionali e della L 142/90, Piani territoriali paesistici e Piani urbanistico territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e Piani urbanistico territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali ai sensi L. 431/85, 1497/39 e DLgs 112/98);

• la pianificazione ambientale locale “di settore ” (Piani di bacino e difesa del suolo, Piani diambito per le risorse idriche, Piani dei parchi e delle aree protette, Piani di risanamento atmosferico e acustico, Piani faunistici);

• la pianificazione locale “di settore” che incide su diversi “fattori di pressione” (Piani rifiuti,Piani cave, Piani del Traffico e della viabilità, Piani energetici, Piani di sviluppo rurale, Piani del turismo, etc.).

Altri strumenti di carattere più contingente, ma che negli ultimi anni hanno assunto un ruolo sempre più rilevante (per le risorse mobilitate e le trasformazione indotte) sono quelli riferiti a:

• i Programmi di riqualificazione urbana (PRU, PRIU, PRUSST e Contratti Quartiere);

• la programmazione regionale per la destinazione dei Fondi Strutturali Europei (i cosiddettiDocumenti Unici di Programmazione - DOCUP - con i Programmi Operativi Regionali – POR -);

• la programmazione concernente come definita con Delibera CIPE 21.3.97 (Patti territoriali,Contratti d’area e Accordi di programma).

Per alcuni di questi strumenti e in alcuni contesti regionali, questo sistema di pianificazione locale contiene alcuni elementi di “simmetria” con l’A21L: riferimento al principio di sostenibilità, utilizzo di indagini preliminari o di strumenti di valutazione ambientale, forme di concertazione. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di simmetrie molto deboli, più nominali che sostanziali.

Tra le debolezze maggiormente registrate si ritrovano:

• i diversi strumenti mantengono un carattere “settoriale” e parziale e raramente ricercano epraticano le opportunità di integrazione e di potenziamento reciproco;

• le analisi ambientali preliminari sono scarsamente sviluppate e limitate dalle carenze nei datidisponibili;

• gli strumenti metodologici per l’analisi ambientale (gli indicatori, i metodi di elaborazione) eper la valutazione (tecniche previsionali, obiettivi di riferimento) sono poco noti e applicati;

• il coinvolgimento degli uffici e dei servizi incaricati della protezione ambientale è spessomarginale o attuato solo nella fase finale di approvazione dei piani;

• il coinvolgimento di soggetti sociali è limitato ai soggetti più tradizionalmente riconosciuti enon coinvolge in modo allargato il mondo più vasto delle associazioni no-profit e dei comitati locali;

• la partecipazione è praticata più come ricerca di consenso che non come coinvolgimento “allapari”, nella determinazione di obiettivi e nella assunzione di responsabilità;

• i piani hanno speso carattere scarsamente operativo ed è poco sperimentata la pratica dellacostruzione di partenariati e di affidamento a soggetti non istituzionali (no-profit) con procedure basate sul principio di sussidiarietà;

• non è ancora consolidata la capacità di progettare soluzioni innovative e azioni positive,l’ambiente è considerato essenzialmente come vincolo da rispettare e non come opportunità di sviluppo;

• manca tuttora un approccio di lungo termine nella pianificazione.

Queste difficoltà di integrazione della sostenibilità nella pianificazione locale in Italia, possono, almeno in parte, essere affrontate proprio attraverso l’Agenda 21 locale che può cioè cercare di colmare gli spazi ancora vuoti e di innovare questo sistema, interagendo direttamente con esso.

In particolare l’Agenda 21 Locale può essere considerata come:

“Sostitutiva” o “integrativa” della programmazione: Si configura come strumento che colma un vuoto oggettivo di progettazione sostenibile e, grazie al suo modello di progettazione partecipata, può riuscire a mettere in circolazione le migliori risorse locali.

“Starter” della programmazione: Si configura come il percorso attraverso cui si creano le condizioni ottimali per attuare effettivamente il sistema locale (regionale, provinciale, comunale) della programmazione.

“Contenuto ed indirizzo” per la programmazione: Si configura come l’occasione per mettere a punto sistemi di obiettivi e Piani di Azioni in grado di trasformarsi, anche sul piano formale, nei Piani previsti dalle legislazioni nazionali e regionali o comunque in grado di orientare in senso sostenibile i loro contenuti e strumenti.

“Strumento di valutazione” della programmazione: Si configura come il sistema di obiettivi e indicatori da utilizzare a supporto delle procedure di valutazione ambientali dei vari piani.

Connessioni e sinergie tra pianificazione territoriale e urbanistica e processo di Agenda 21 Locale

Le più recenti normative, sia a livello nazionale che regionale, indicano il Piano Territoriale di Coordinamento a livello provinciale (PTCP) e il Piano Strutturale o Regolatore Generale a livello comunale (PSC/PRG) come i quadri di riferimento entro cui stabilire le direttive strategiche per il coordinamento del territorio su tutti i temi di carattere di area vasta e comunale: dall’uso del suolo, alle infrastrutture, ai trasporti, al paesaggi e all’ambiente.

Sia il PTCP che il PSC/PRG si occupano delle principali scelte di medio-lungo termine: quindi non solo quelle relative alla gestione delle risorse naturali e alla tutela dell’ambiente in senso stretto, ma anche quelle relative alla tutela del patrimonio culturale, storico e paesaggistico, oltre alla mobilità, alle infrastrutture e servizi per le imprese e per i poli di sviluppo terziario e residenziale. In definitiva in entrambi convergono le problematiche di medio-lungo termine in campo economico, sociale e ambientale.

Non a caso questi tre campi sono anche quelli che interagiscono l’uno con l’altro nell’Agenda 21 Locale nella ricerca di un difficile ma necessario equilibrio. Equilibrio che prende il nome di “sviluppo sostenibile” e che vede appunto nell’Agenda 21 e nel relativo Piano di Azione Locale, lo strumento cardine per la risoluzione di questa difficile equazione.

Nasce così, più che la possibilità, la necessità di far colloquiare due processi, quello della pianificazione territoriale e urbanistica e energetica ecc. e l’Agenda 21 Locale. Necessità in quanto i due processi non devono e non possono essere vissuti come uno predominante sull’altro ma, al contrario, devono interloquire ed integrarsi. Non solo ma le indicazioni contenute nell’Agenda 21 dovrebbero, in qualche modo, diventare linee guida per TUTTI GLI ALTRI PIANI DI SETTORE, basandosi sull’intersettorialita’ insita nel concetto di sviluppo sostenibile.

Se PTCP e PSC/PRG hanno una valenza normativa forte, che ne fa strumenti cardine di governo del territorio, l’Agenda 21 Locale è uno strumento che basa la sua forza su una capacità di coinvolgimento molto più ampia di strumenti istituzionali come i piani urbanistici e territoriali. L’Agenda 21 può dare un contributo forte sia nel momento formativo che in quello esecutivo degli strumenti attuativi della pianificazione urbanistica e territoriale, potendo contare su un’adesione allargata, volontaria e responsabile, sia di soggetti istituzionali che di associazioni, del mondo imprenditoriale e di altre organizzazioni.

Inoltre l’A21 ha alcune valenze uniche che ne fanno anche strumento di coinvolgimento, di formazione, di conoscenza, di sviluppo tecnologico ed economico, o meglio, di “sviluppo eco- trainato”.

Evidentemente la correlazione PTCP-PSC/PRG e Agenda 21 Locale crea forti sinergie, da utilizzare al fine della buona riuscita di entrambi gli strumenti e processi.

Rispetto ai PTCP-PSC/PRG i punti di convergenza sono vari:

• ci si basa su un sistema di conoscenza che presuppone il riconoscimento delle risorse presenti, del loro valore relativo, dei principali punti di criticità del sistema;

• si assume come obiettivo generale la realizzazione di uno scenario ambientale sostenibile per quanto riguarda la realtà governata ;

• si assume che il processo per il raggiungimento di tale scenario sia di tipo partecipato, ottenuto anche attraverso il confronto con i principali soggetti economici e sociali.

Rispetto ai PTCP-PSC/PRG l’Agenda 21 Locale mostra peraltro le seguenti specificità:

• l’Agenda 21 è un processo volontario, attuabile da amministrazioni di differente livello (Comuni, Province, Regioni) non previsto da leggi specifiche; al contrario del PTCP e del PSC/PRG che invece sono atto obbligatorio a livello provinciale e comunale;

• gli impegni che ne seguiranno (in particolare quelli contenuti nel piano d’azione locale) dovranno utilizzare strumenti giuridici d’altra natura (ad esempio patti territoriali, accordi di programma, ecc.) rispetto al PTCP e al PSC/PRG che invece potranno prevederne di specifici e cogenti;

• ha pertanto un margine di flessibilità operativa maggiore rispetto al PTCP e al PSC/PRG, può scegliersi con libertà i tempi e i modi più efficaci per il raggiungimento degli obiettivi;

• rischia peraltro, se non sono ben definite le modalità di rispetto degli impegni presi dai soggetti che sottoscriveranno il piano d’azione, di non essere sufficientemente garantita nel suo sviluppo futuro.

Appare necessario un coordinamento tra i due processi che ne sfrutti al meglio le caratteristiche complementari. A tal fine è necessario:

• verificare la coerenza degli obiettivi adottati; a tal fine il lavoro del Forum per l’Agenda 21 ha prodotto il Piano d’azione locale che definisce una serie di obiettivi generali e specifici nonché le azioni per raggiungerli per il territorio provinciale; è opportuno che questo lavoro sia assunto dal PTCP-PSC/PRG come base da cui partire per la definizione degli obiettivi strategici e di sostenibilità da considerare nella VALSAT del piano stesso; inoltre si potrebbe pensare ad un ruolo del Forum come soggetto plurale e momento di verifica e consultazione nella fase delle Conferenze di pianificazione;

• verifica che non vi sia incoerenza tra gli scenari di sostenibilità prefigurati dai due processi/strumenti e di conseguenza anche i sistemi di indicatori previsti in entrambi gli strumenti dovranno essere tra loro coordinati. In estrema sintesi, e forse in modo anche un po’ semplificato, si può affermare che il coordinamento tra i due processi/strumenti può portare vantaggi consistenti ad entrambi nei seguenti termini:

• le potenzialità di coinvolgimento dell’Agenda 21 può aiutare l’allargamento del processo diPTCP-PSC/PRG anche a soggetti non strettamente istituzionali e di solito non coinvolti;

• la valenza normativa del PTCP e del PSC/PRG può fornire un appoggio concreto all’attuazionedegli obiettivi di sostenibilità emersi dal Piano d’azione locale di Agenda 21.

Ragionamenti analoghi valgono anche in riferimento al rapporto tra Agenda 21 e tutti gli altri piani di settore previsti dalla normativa vigente.

IL NOSTRO RUOLO DEVE ESSERE PROPRIO QUELLO DI FAR SI’ CHE I PRINCIPI ED I CONTENUTI DELL’AGENDA 21 COSTITUISCANO LA BASE PER L’ELABORAZIONE DI TUTTI GLI ALTRI PIANI DI SETTORE PREVISTI, AFFINCHE’ SI REALIZZINO EFFETTIVAMENTE POLITICHE DI SOSTENIBILITA’.

2.4. Misurare la sostenibilità: gli indicatori

Da Rio ad oggi è diventata sempre più evidente l’importanza dell’utilizzo degli indicatori che ci consentono di misurare e valutare meglio una determinata situazione e, analizzandone il trend, di misurarne e valutarne l’andamento per capire se vi va verso un progresso o meno. Gli indicatori si dimostrano guide cruciali per prendere decisioni in un’ampia varietà di modi; essi infatti possono tradurre le conoscenze scientifiche in campo fisico e sociale in unità di informazioni gestibili che facilitano i processi di decisione. Possono aiutare a misurare e calibrare i progressi verso obiettivi di sostenibilità. Infatti già nel capitolo 40 dell’Agenda 21 si invitano le varie nazioni, gli organismi internazionali, le organizzazioni non governative, a sviluppare ed identificare indicatori di sviluppo sostenibile per consentire una solida base decisionale ad ogni livello. Un indicatore puo’ essere considerato di sviluppo sostenibile se contempla l’indicazione di un target da raggiungere e di un tempo entro il quale raggiungerlo.

Tra gli altri proprio la Commissione sullo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite ha lavorato a fondo su questa tematica ed ha approvato nel 1995 un programma di lavoro sugli indicatori dello sviluppo sostenibile. In questo ambito, dopo una serie di riunioni tra esperti di livello internazionale (e’ infatti stato coinvolto l’ICSU -International Council for Science-), nel 1996 è stato prodotto dall’ONU un ponderoso volume dal titolo “Indicators of Sustainable Development: Framework and Methodologies” definito il “Libro Blu” (“Blue Book”) , ed inviato a tutti i governi con l’invito ad usare e testare gli indicatori presenti nel testo, per poi diffondere i feedback ed i risultati di queste applicazioni. Il volume contiene schede dettagliate di ben 134 indicatori applicabili ai vari capitoli dell’Agenda 21.

Successivamente sono state selezionate 22 nazioni, su base volontaria, per procedere a processi di test di applicazione di questi indicatori che si sono ufficialmente conclusi alla fine del 1999. Queste nazioni sono, per l’Africa, Ghana, Kenya, Marocco, Sud Africa e Tunisia, per l’Asia e l’area pacifica, Cina, Maldive, Pakistan e Filippine, per l’Europa, Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Regno Unito, per le Americhe ed i Caraibi, Barbados, Bolivia, Brasile, Costa Rica, Messico e Venezuela. Contestualmente si è proceduto ad una revisione della lista e dell’efficienza degli indicatori individuati. Si è cosi’ seguito un quadro che, tenendo conto delle quattro dimensioni che, notoriamente, vengono riconosciute allo sviluppo sostenibile e cioè sociale, economica, ambientale ed istituzionale , ha classificato gli indicatori nel modello classico, di indicatori delle cause primarie (driving forces – e cioè le attività umane, i processi, i modelli che impattano sulla sostenibilità dello sviluppo, sia negativamente che positivamente), indicatori di stato ed indicatori di risposta. Il lavoro sugli indicatori è stato seguito in tutte le riunioni annuali della Commissione sullo Sviluppo Sostenibile, oltre ai lavori specifici svolti dai gruppi di esperti che si sono riuniti indipendentemente numerose volte. Infine, come indicato dall’ultimo rapporto sugli indicatori predisposto per la 9° Riunione della Commissione che ha avuto luogo a New York dal 16 al 27 aprile 2001, è stato individuato un set di 57 indicatori che deriva da 15 temi e 38 sottotemi che toccano appunto gli aspetti sociali, ambientali, economici ed istituzionali dello sviluppo sostenibile. Credo sia utile elencare qui gli indicatori individuati perchè si tratta dello sforzo più autorevole svolto su questo fronte a livello internazionale, in sede ONU, e da conto di come il lavoro degli indicatori sia andato avanti in maniera molto significativa e ci può veramente aiutare per cominciare ad affiancare seriamente agli indicatori economici, che oggi dominano completamente la politica internazionale, indicatori di altro tipo modificando la cultura dominante che vede la ricchezza ed il benessere di una popolazione, di una nazione, solo nella crescita economica.

I 57 indicatori proposti sono:

percentuale della popolazione che vive sotto la linea di povertà, - indice di Gini di ineguaglianza del reddito, - tasso di disoccupazione, - rapporto delle paghe femminili rispetto a quelle maschili, - stato nutrizionale dei bambini, - tasso di mortalità sotto i 5 anni di età, - aspettativa di vita alla nascita, - percentuale della popolazione con adeguate facilitazioni di gestione dei rifiuti, - popolazione con accesso ad acqua potabile, - percentuale di popolazione con accesso a facilitazioni per le cure primarie di base, - immunizzazione contro le infezioni delle malattie infantili, - tasso di presenza dei contraccettivi, - rapporto del completamento delle scuole primarie o secondarie, - tasso di alfabetizzazione degli adulti, - area di abitazione disponibile per persona, - numero di crimini registrati per 100.000 persone ,- tasso di crescita della popolazione ,- popolazione vivente in abitazioni urbane formali ed informali, - emissione di gas serra ,- consumo di sostanze dannose alla fascia di ozono, - concentrazione di inquinanti dell’aria nelle zone urbane , - area agricola arabile, - utilizzo di fertilizzanti, - utilizzo di pesticidi in agricoltura , - area forestale come percentuale della superficie di terra, - intensità di sfruttamento del legno , - superficie affetta da desertificazione, - area di insediamenti urbani formali ed informali, - concentrazione di alghe nelle acque costiere, - percentuale della popolazione totale vivente in zone costiere, - cattura delle maggiori specie alieutiche, - sottrazione annuale delle acque sotterranee e di superficie come percentuale sull’acqua totale disponibile, - BOD nei corpi d’acqua, - concentrazione di coliformi fecali nelle acque dolci , - area di ecosistemi chiave , - percentuale di aree protette sulla superficie totale, - abbondanza di specie chiave, - prodotto interno lordo pro capite, - parte di investimento rispetto al prodotto interno lordo, - bilancio del commercio in beni e servizi, - rapporto del debito rispetto al prodotto interno lordo, - totale di assistenza ufficiale allo sviluppo data o ricevuta come percentuale del prodotto interno lordo, - intensità dell’uso dei materiali, - consumo di energia annuale pro capite, - consumo di risorse energetiche rinnovabili, - intensità dell’uso di energia, - generazione di rifiuti solidi industriali ed urbani, - generazione di rifiuti pericolosi, - generazione di rifiuti radioattivi, - riciclaggio e riutilizzo dei rifiuti, - distanza percorsa pro capite per modo di trasporto, - strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, - implementazione della ratifica degli accordi globali, - numero di abbonati internet per 1.000 abitanti, - linee telefoniche per 1.000 abitanti, - spese per ricerca e sviluppo come percentuale del prodotto interno lordo, - perdite economiche ed umane dovute ai disastri naturali.

(la lista è tratta da Commission on Sustainable Development, 2001 “Indicators of Sustainable Development: Framework and Methodologies” Background Paper no.3).

Nell’ampio lavoro svolto dalla Commissione diverse nazioni hanno suggerito altri indicatori (ad esempio, la presenza di spazi urbani verdi, la densità del traffico, la proprietà della terra agricola, il rilascio di organismi geneticamente modificati ecc.). Si tratta di suggerimenti molto utili ma per cercare di dare un quadro generale all’utilizzo degli indicatori sono stati individuati alcuni criteri guida che aiutano la selezione degli indicatori stessi; infatti gli indicatori devono essere, tra l’altro, dipendenti da basi conoscitive di qualità, devono essere il più possibile, chiari, non ambigui e comprensibili, limitati nel numero ma aperti ed adattabili alle necessità future, dovrebbero cercare di coprire i temi dell’Agenda 21 e tutti gli aspetti dello sviluppo sostenibile, e dovrebbero rappresentare il più possibile un consenso internazionale.

Indicatori aggregati: impronta ecologica e flusso totale dei materiali

È utile, infine, menzionare l’utilizzo di due interessantissimi indicatori aggregati: l’impronta ecologica (Ecological Footoprint – EF -) e la richiesta o il flusso totale di materiali (Total Material Requirements – TMR -). Il primo, elaborato da William Rees e Mathis Wackernagel, cerca di rendere conto dell’area necessaria di ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le risorse che una determinata popolazione consuma e per assimilare i rifiuti che essa produce. L’impronta ecologica viene data dalla somma di sei diverse componenti: la superficie di terra coltivata necessaria per produrre gli alimenti, l’area di pascolo necessaria per fornire i prodotti animali, la superficie di foreste necessaria per produrre legname e carta, la superficie marina necessaria per produrre pesci e frutti di mare, la superficie di terra necessaria per ospitare infrastrutture e la superficie forestale necessaria per assorbire le emissioni di anidride carbonica derivante dal nostro stile di consumo. L’impronta ecologica è misurata in “unità di superficie” che equivale ad un ettaro della produttività media del pianeta. Dal 1961 al 1996 l’impronta ecologica globale è aumentata di circa il 50%. Secondo i dati presentati nel rapporto “Living Planet Report 2000” la crescita dell’impronta ecologica umana intorno alla metà degli anni Settanta è stata tale che l’umanità ha superato il punto in cui viveva entro i limiti della capacità rigenerativa globale degli ambienti del pianeta. L’Italia presenta un’impronta ecologica di 5,51 unità di superficie pro capite a fronte di una sua capacità biologica di 1,92 unità di superficie a persona, il che significa che abbiamo un deficit ecologico di 3,59 unità di superficie a persona (in pratica per mantenere la nostra popolazione agli attuali livelli di consumo ci vogliono altre due Italie). L’impronta ecologica più alta è quella degli Emirati Arabi Uniti di 15,99 unità di superficie, seguiti da Singapore con 12,35 unità di superficie e gli Stati Uniti con 12,22 unità di superficie. Alla fine della lista, ultima, è l’Eritrea con 0,35 unità di superficie, preceduta, nell’ordine, da Afghanistan con 0,58 unità di superficie e Bangladesh con 0,60 unità di superficie.

Il flusso totale dei materiali, sul quale ha lavorato molto il Wuppertal Institut tedesco, è un indicatore aggregato dei flussi dei materiali dell’economia che misura l’uso totale delle risorse naturali richiesto dall’attività economica di un paese o una regione.

Include i consumi diretti di produzione interna o importati, relativamente ai combustibili fossili, metalli, minerali (industriali e da costruzione), materiali e prodotti rinnovabili (agricoli, forestali e animali), prodotti intermedi e finiti (solo come importazione) la cui somma costituisce quello che viene definito Input Diretto di Materiali (Direct Material Input) nonchè i consumi indiretti di materiali (definiti Hidden Material Flows, flussi nascosti dei materiali) costituiti da materiali rimossi dall’ambiente naturale o escavati per la produzione delle materie prime (ad esempio nelle attività minerarie, nell’estrazione e processamento dei combustibili, nella produzione forestale) o per la costruzione di infrastrutture o per effetto di processi di erosione. Questo indicatore aggregato sta diventando un elemento importante di valutazione del peso materiale delle varie economie e, dopo alcuni lavori pionieristici sul flusso dei materiali delle economie statunitense, olandese, tedesca e giapponese, (Adriaanse et al., 1997) sta divenendo un indicatore sempre più studiato. È da segnalare con favore l’attenzione ad esso dedicato dall’Agenzia Europea per l’Ambiente che recentemente ha inserito il TMR nel proprio rapporto sugli indicatori (EEA, 2000) ed ha elaborato un rapporto per verificare il trend del TMR nell’Unione Europea (Bringezu e Schutz, 2001). Da quest’ultimo rapporto appare che l’estrazione di risorse nell’ambito dei 15 paesi dell’Unione è declinato dal 1985 al 1997 del 13%, ma la richiesta di risorse provenienti dall’estero è incrementata dal 1995 al 1997, in soli tre anni, dell’11% .

È necessario continuare a perfezionare il lavoro sugli indicatori ma è fondamentale che, da subito, tutti i paesi si dotino di contabilità ambientali che affianchino quelle economiche; in questo modo si dovrebbe cominciare a limitare i danni della visione economica dominante basata sulla crescita materiale e quantitativa e sull’ignoranza dei chiari limiti biofisici dei sistemi naturali.

2.5. Cosa non funziona nel processo di Agenda 21 (i punti deboli, le criticità)

Il processo di Agenda 21 Locale è per l’Italia ancora un argomento ancora relativamente nuovo. Sebbene negli ultimi due anni molte amministrazioni si sono interessate all’A21L e vi hanno formalmente aderito, sono ancora poche quelle che sono in una fase avanzate del processo e dalla cui esperienza quindi si possono ricavare elementi utili per capire le criticità e i punti deboli di questo processo. Tuttavia si possono riscontrare una serie di problematiche comuni.

L’A21L è ancora uno strumento settoriale: è necessario passare da strumento ambientale a strumento per la sostenibilità.

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6 Dicembre 2004

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