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Gianfranco Capitta
La penisola del tesoro in cerca di «new deal»
6 Aprile 2006
Beni culturali
Ampia intervista all'ex ministro Melandri su un'idea di "valorizzazione" alternativa a quella del centrodestra. Il manifesto, 6 aprile 2006 (f.b.)

ROMA - Il campo della cultura è rimasto molto oscurato nella campagna elettorale tutta gridata di queste settimane. É stato un argomento quasi assente nei dibattiti e nei «faccia a faccia» ma anche negli stessi programmi elettorali. Cosa naturale per la destra, molto meno ovvia per la sinistra. La parte riguardante la cultura del programma dell'Unione, preparata da un gruppo ristretto attorno alla responsabile ds Vittoria Franco, dedica un paio di pagine allo spettacolo dal vivo e poche di più ai beni culturali.

Questo nonostante negli ultimi anni la situazione si sia molto deteriorata, e la vera politica culturale l'abbia fatta Tremonti con i suoi tagli e le sue proposte di svendita del patrimonio culturale ai privati, piuttosto che i ministri Urbani e Buttiglione, che si sono limitati alle nomine amichevoli.

L'esempio di questi giorni della svendita di parte di palazzo Altemps a Roma (destinato a completare la sede del Museo nazionale romano), mostra ancora una volta quanto sia pericolosa la legge del silenzio/assenso introdotta dai «nuovi» regolamenti del settore.

L'unica voce politica che abbia elaborato un progetto riguardate questo campo, resta a pochi giorni dal voto quella di Giovanna Melandri, che è stata ministro dei beni culturali nel governo D'Alema, non senza molte critiche all'epoca. Poche settimane fa, mentre conduceva una campagna elettorale intensa e capillare, discutendo con gli autori cinematografici, dall .Anac a Ring, ma anche con il sindacato ferrovieri di Ostiense e con Patti Smith, ha pubblicato un libro, Cultura paesaggio turismo (Gremese, 10 euro, con prefazione di Romano Prodi), dove delinea un progetto inusuale e «scientifico» per la sinistra: puntare sul turismo come industria principale del sistema Italia, ma legandolo e «incastrandolo» al patrimonio artistico, anzi sottomettendolo alle sue regole ed esigenze.



Un progetto che nasce dal «senso di colpa » per la sua precedente esperienza di governo, o per avanzare di nuovo la sua candidatura a quel ministero, oggi molto appetito? Né l'uno né l'altro. Penso che rispetto agli anni in cui sono stata ministro, bisogna ricordare alcune cose del campo culturale nel suo insieme, patrimonio e produzione: ci sono state difficoltà economiche di bilancio complessivo, e la situazione si è complicata con i cambiamenti del titolo V della costituzione circa i rapporti tra stato centrale e enti periferici, che hanno fatto impantanare le leggi sulla musica e sul teatro (e sono convinta che noi sinistra avremmo dovuto essere difensori di una maggiore funzione centrale dello stato, anche se fra noi c'era chi avrebbe voluto direttamente cancellarlo, il ministero dei beni culturali). In quel contesto, io penso di aver ottenuto il più ricco Fondo per lo spettacolo della storia della repubblica. Rimango scontenta di non esser riuscita a fare le riforme strutturali sui meccanismi di erogazione di quei fondi, devo dire anche per colpa di certe resistenze «corporative» presenti nel mondo della cultura. Quanto poi al patrimonio culturale, mi sento perfino orgogliosa di quanto abbiamo fatto.



É da questo orgoglio che nasce l'idea di trasformare il patrimonio culturale in un investimento? Se si condivide l'idea che lo sviluppo del nostro paese si debba qualificare soprattutto attorno all'investimento su queste risorse (è chiaro che non mi limito allo spettacolo, c'è anche il patrimonio artistico e ambientale, e anche l'audiovisivo e il paesaggio.), questo settore diviene il terreno di un «new deal», parte di un progetto di crescita e riqualificazione che va al di là delle competenze di un singolo ministro, ma che riguarda tutto il paese e tutti coloro che lo amministrano: dall'ambiente alle comunicazioni, dalle infrastrutture all'economia. É un pezzo importante della risposta che il paese deve dare alla sua ricerca di quale sarà il suo posto nel mondo.



Quando però si parla di «trasformazione» in industria turistica, si tocca un campo minato dal rischio degli appalti, e quindi in prospettiva delle tangenti o peggio. Cominciamo col premettere che in Italia il turismo non è governato, offre servizi di livello medio-basso contro prezzi assai elevati rispetto alla media europea, è uno dei settori dove più forte è la percentuale di lavoro nero e di precariato, in cambio di margini di profitto altissimo per pochi rispetto ai servizi offerti ai cittadini. Che per di più concentra tutto il suo impegno in una stagione molto breve mentre da noi le attività potrebbero essere molto più estese nel tempo. Non casualmente abbiamo perso in quattro anni quattro milioni di turisti (mi piacerebbe chiamarli viaggiatori, piuttosto che turisti): quattro milioni di persone che tra il 2001 e il 2006 se ne sono andati in Spagna o in Croazia piuttosto che da noi. E su questi argomento la sinistra dovrebbe essere un po' meno «schizzinosa», fare meno «spallucce ». Ho una sorta di allergia alla concezione molto diffusa rispetto ai beni culturali, di pura conservazione e preservazione, quasi di sottrazione del loro godimento, a favore di pochi per paura delle fatidiche «masse». É una concezione elitaria che ho trovato molto radicata e diffusa al ministero, e anche tra gli intellettuali di sinistra che mi hanno fatto le bucce. Mi hanno rimproverato di aprire i musei anche il sabato sera, mentre io ho fatto anche la delibera per poter far entrare nei musei le carrozzine. Ci sono nodi antichi da sciogliere: siamo legati al passato in quanto la stessa sinistra si duole perché non abbiamo più fabbriche dove lavorino gli operai, ma non gradisce affatto la prospettiva che facciamo i camerieri o i giardinieri.

Era un dibattito che qualche decennio fa aveva altre ragioni di essere, oggi è quasi banale notare che nella globalizzazione avanzata e nel carattere immateriale dei processi di sviluppo, queste sono le risorse che abbiamo, e con cui fare i conti. Certo un processo del genere è difficile da progettare, evidentemente, tra i condoni, le sanatorie, il silenzio/ assenso per la vendita del patrimonio, il Fus quasi dimezzato. Se si desertificano i valori che possono costituire la qualità di quello sviluppo, poi non ci si può costruire una politica sopra. Ristabilendo regole e precauzioni, si può pensare a processi finanziari limpidi, e a anche a premunirci contro un turismo che minacciasse di usurare i beni che promuove. É una sfida che vale la pena raccogliere, avendo lungo tutta la filiera l'ossessione della qualità. E non mi riferisco agli alberghi a cinque stelle,ma agli ostelli della giovent ù, ai campeggi, all'impatto ambientale delle infrastrutture, e al problema connesso della mobilità. Sono consapevole di aver toccato solo di sfuggita tanti temi, altrimenti ci sarebbe voluto un saggio chilometrico.

L'idea di fondo è che bisogna costruire un sistema, e anche senza scomodare Roosevelt, c'è proprio bisogno di un «new deal». L'Italia attraversa una crisi e un declino non dissimili da quelli dell'America degli anni venti, un declino economico, sociale e perfino morale.



Proviamo a restringere il campo allo spettacolo: il cinema è fermo, il teatro allo sbando (almeno quello istituzionale), la musica taglia produzioni. A quanto bisogna riportare la percentuale di ricchezza per la cultura? Quali potrebbero essere le cose immediate da fare subito da parte di un governo di centrosinistra, chiunque siaministro. Per lo spettacolo ci sono tre priorità. La prima è riportare il livello del Fus a quello del 2001, il suo punto più alto, di cui resto orgogliosa, e che non mi fu affatto facile ottenere, pure da persone di valore come Visco. Per il cinema, bisogna subito impostare la riforma, basata su una quota di trasferimento pubblico, perché l'intervento pubblico nel cinema è ancora necessario, come nel teatro, nella musica o nelle biblioteche. I tre pilastri dovrebbero essere il trasferimento diretto, destinato principalmente a opere prime (e forse anche seconde), cortometraggi e documentari. Bisogna promuovere una palestra possibile per nuovi talenti. Per decidere tutto questo, senza cadere nell'arbitrio, non si sfugge a commissioni autorevoli e indipendenti che decidano. Il parlamento può al massimo valutare lo spessore scientifico dei loro componenti.

Poi c'è tutto da costruire un meccanismo che il cinema faccia crescere, che non è quello scelto da Urbani che indeboliva i deboli e arricchiva i ricchi. Si deve ricorrere al tax shelter, un meccanismo di favore fiscale a tutti i produttori e a tutta l'industria del cinema, e poi la creazione di un fondo che possa essere alimentato non solo dal bilancio dello stato, ma legato a tutta la filiera della produzione culturale. Che vuol dire prelievo sulla pubblicità, sui biglietti, e anche un prelievo, magari anche bassissimo, sul costo delle telefonate da cellulari. L'ho scritto nel mio libro, e già ha sollevato discussioni. Ma noi ci dobbiamo necessariamente inventare un modo per redistribuire le risorse. Del resto, già oggi ma molto di più in prospettiva, i grandi gestori stanno unificando il circuito della comunicazione, magari propugnando i film sul display del cellulare o dando le agenzie per sms.

Non sarebbe ingiusto che cominciassero a raccogliere fondi per questo circuito cui essi stessi sono interessati, senza lasciare tutto in balìa del puro mercato. L'alternativa, più pericolosa, è che gli stessi gestori diventino produttori di «contenuti».

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