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Piero Bevilacqua
Introduzione al libro di De Lucia
22 Febbraio 2006
Recensioni e segnalazioni
Uno storico dell'ambiente presenta il libro di un urbanista: la nuova edizione (2005) del libro di Vezio De Lucia, “Se questa è una città”, prefazione di A. Cederna, editore Donzelli

Pubblicato per la prima volta nel 1989 e riedito, nel 1992, con una lucida e civilmente appassionata prefazione di Antonio Cederna, questo libro possiede ancora oggi la freschezza di un classico.Lo si potrebbe leggere come la dolente cronaca delle vicende in cui si è consumato il più vandalico sfiguramento del paesaggio urbano dell’intera storia d’Italia. La testimonianza solitaria, non rassegnata, ma pur sempre impietosa e dolorosa, di fronte all’opera di distruzione del cuore delle nostre città e di tanta parte del territorio nazionale nella seconda metà del XX secolo. Oppure lo si può leggere per quello che sostanzialmente è stato e continua a essere: un libro di storia.Un equilibrato, riccamente documentato saggio di ricerca storica. Fosse stata una semplice opera di denuncia, Se questa è una città mostrerebbe oggi irrimediabilmente i segni del tempo. Nessuna opera scritta per pura passione, e quindi intensamente legata alla congiuntura particolare che l’ha generata, si sottrae a questa regola.Essa invecchia rapidamente con lo stesso trascorrere e mutare delle circostanze e della temperie che l’hanno ispirato.

Tale definizione di opera storica non si fonda soltanto sulla valutazione del metodo e delle procedure di documentazione che sostengono il testo. Ma anche e più decisamente sul fatto che il libro di De Lucia, mentre dà conto dei processi di trasformazione delle città e del territorio, colloca i fenomeni esaminati nel loro contesto storico.Un contesto - ambito che è per eccellenza affare dello storico, come voleva Edward P.. Thompson - in cui protagonisti non sono solo i manufatti urbani, le istituzioni e le leggi, ma anche le forze sociali, i partiti, gli uomini di governo, i gruppi politici e intellettuali, la temperie culturale del Paese nelle varie fasi e congiunture..Una fitta folla di personaggi e di gruppi popola lo scenario di quasi mezzo solo di vicende nazionali. De Lucia è lontanissimo da ogni descrittivismo cronachistico,ed è invece animato costantemente da una insopprimibile vis interpretativa propria dello storico. Non solo illustra quanto è avvenuto. Ma vuol costantemente comprendere perché è avvenuto, chi sono stati i protagonisti e i responsabili, in che modo si sono svolti i processi e gli eventi. Ne risulta dunque un quadro assai ricco in cui sono scandite fasi e stagioni diverse della vita civile del dopoguerra, che in una certa misura compongono una sorta di storia dell’ Italia repubblicana sotto il profilo delle trasformazioni urbane e territoriali.

In tale carattere, dunque, io credo che occorra cercare uno dei motivi fondamentali della freschezza di questo testo..Ma l’altra e civilmente importante ragione della sua attualità è che il suo racconto - che si conclude con le vicende urbanistiche italiane dei primi anni Novanta - rimane come un testo drammaticamente aperto sul nostro presente. Ci mostra il come siamo arrivati fin qui e al tempo stesso ci comunica la sua incompiutezza di testimonianza di fronte a una realtà che appare come proseguire nei fatti, con immutata gravità, la vicenda storica che esso ha raccontato e analizzato per i precedenti decenni. Assistere come accade oggi, anno 2004 dell’Era Cristiana, tramite condoni annunciati e reiterati, alla incentivazione dell’abusivismo edilizio da parte dello stesso Governo della Repubblica rappresenta un esito di clamorosa e inaudita continuità con il passato. E in questo caso in una forma stupefacente per gravità politica e morale, senza precedenti e senza possibilità di comparazione con le scelte di nessuno Stato di diritto. E tale situazione, com’è facile immaginare, rende il saggio di De Lucia non solo dolorosamente attuale, ma in qualche misura inevitabilmente profetico.

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Il racconto delle vicende delle città italiane nella seconda metà del XX secolo incomincia con l’analisi della legge del 1942. Per paradossale che possa sembrare, il quadro normativo che precede la devastazione urbanistica del dopoguerra è quanto di meglio si possa desiderare sul piano delle prescrizioni formali.Tra le altre cose, quella legge, ricorda De Lucia, tramite l’articolo 18, conferiva ai comuni il potere di espropriare - dopo l’approvazione del Piano regolatore generale - i terreni destinati all’edificazione ad un prezzo che non tenesse conto degli incrementi di valore previsti dallo stesso piano. Si trattava, dunque, di uno strumento normativo avanzato, il quale consentiva ai municipi di essere protagonisti nella fase di espansione urbana che inevitabilmente si apriva dopo la guerra e di difendere l’interesse collettivo e del territorio contro le pretese, spesso assai poco moderate, della rendita fondiaria.

Ma la legge urbanistica viene letteralmente travolta appena comincia l’opera della ricostruzione.Gli organi di Governo, ricorda De Lucia, ritardano colpevolmente l’approvazione dei Piani regolatori redatti dai comuni. Il primo di essi è approvato soltanto nel 1950. Mentre l’attività di edificazione riprende a un ritmo che si fa crescente di anno in anno, senza ubbidire ad alcuna norma o prescrizione che non sia ispirata dagli interessi dei costruttori e dei proprietari dei suoli..Le città italiane diventano in quegli anni teatro di una attività edilizia che non ha precedenti nella storia del Paese. Allora in molti centri, danneggiati dalla guerra, occorreva ricostruire abitazioni e talora interi quartieri . Le dinamiche demografiche che in quella fase attraversavano l’Italia erano d’altra parte di proporzioni inedite. Alla crescita naturale della popolazione si sommavano i processi di migrazione interna - dalle campagne alle città e dal Sud al Nord - e i bisogni abitativi della popolazione creavano una domanda poderosa di abitazioni: anche se di fatto - come ripetutamente documenta e denuncia l’autore - le costruzioni di case hanno spesso, e di gran lunga, sopravanzato i bisogni e la domanda reale.

Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, dunque, il territorio cittadino e delle aree contermini viene sottoposto a un’opera gigantesca di occupazione e di manipolazione per trasformare il suolo in edifici, palazzine, case.. In questa, per tanti aspetti inedita, situazione sociale non c’è, si può dire, città del Paese che si sottragga alla febbre costruttiva che accompagna la ricostruzione postbellica e poi lo sviluppo economico da primato proprio di quel ventennio.Ma in alcune di esse, quella vera e propria furia edilizia, ha fatto, in un certo senso epoca. E’ il caso, ad esempio, di Napoli. Qui, ricorda De Lucia, l’amministrazione comunale guidata da Achille Lauro compie le operazioni urbanisticamente più gravi e irreparabili di sfiguramento urbano. Sui quattro lotti del centro storico della città, sopravvissuti all’opera di sventramento realizzata nel periodo fascista, il comune autorizza la costruzione di un nuovo quartiere, che riempie di cemento il cuore di Napoli. E’ « il più raccapricciante esempio in Europa e forse nel mondo di edilizia speculativa in un centro storico » non esita a definirlo De Lucia. Un’operazione realizzata a dispetto del fatto che Napoli disponesse di un ottimo piano regolatore, quello del 1939. Secondo l’autore « il migliore strumento urbanistico che Napoli abbia avuto ». Ma le norme del piano vennero aggirate grazie a due sentenze del Consiglio di Stato che nel 1953 diedero il via libera ai costruttori.Tuttavia, questo episodio che ha interessato l’area contigua a piazza Carità, non è stato che l’inizio di un’opera di devastazione che De Lucia ricostruisce con lucida amarezza sin negli aspetti più incredibilmente truffaldini di quella vicenda.Il lettore di oggi può trovare in quel racconto non poche delle ragioni che danno conto dell’attuale congestione e asfissia urbana di cui soffre Napoli.

Allo stesso modo Roma. Anche nella Capitale, soprattutto per iniziativa della Società generale immobiliare, propietaria di vaste aree urbane, la manomissione fu particolarmente vasta e grave, anche in ragione del patrimonio archeologico ingente disseminato sul suo territorio. Come l’autore ricorda, grazie anche alle analisi e alle denuncie di Italo Insolera e di Antonio Cederna, in quel ventennio edificatorio furono investiti da costruzioni e spesso gravemente alterate aree di pregio dell’Urbe, da Monte Mario all’Appia antica, dalla Tuscolana alla Cassia.Edifici enormi, che spesso hanno cancellato per sempre aree verdi e paesaggi, costruiti in genere senza alcuna preoccupazione della densità volumetrica dei manufatti in rapporto allo spazio, senza alcuna cura della qualità urbana e civile dei quartieri che si creavano, imponendo alla collettività il pagamento degli oneri di urbanizzazione e di creazione dei servizi richiesti dai nuovi abitati. Dunque una ingiusta sottrazione di reddito ai cittadini, una alterazione grave della bellezza del paesaggio romano, della qualità dell’abitare singolo e collettivo, del modo stesso di vivere di milioni di cittadini, segregati in immensi e desolati dormitori. Tutto questo a fronte dei guadagni ingenti di ristretti gruppi di costruttori.

Il terzo caso esemplare della tendenza di fondo che domina la vita urbana e l’uso del territorio nel primo ventennio dopo la seconda guerra mondiale riguarda la vicenda di Agrigento.Il 19 luglio 1966, ricorda De Lucia, una frana imponente che trascinò case e suolo in un crollo rovinoso, e fortunatamente incruento, svelò all’ ignara opinione pubblica nazionale, attraverso l’emozione dell’evento catastrofico, di che cosa era fatta l’espansione urbana recente di quella città. Ben 8500 vani erano stati costruiti al di fuori di ogni norma, e spesso su territori fragili, inadatti a sostenere il gravame dell’edificazione. Come scrisse Michele Martuscelli, direttore generale dell’urbanistica del Ministero del lavori pubblici, nella relazione voluta dall’allora ministro Giacomo Mancini, e ripresa da De Lucia,«Gli uomini, di Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori.Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile ed umano ».

Dunque, una condanna istituzionale severa e generale, senza distinzioni e senza riserve. Ebbene, come ricorda l’autore, le 27 persone tra sindaci, funzionari del genio civile, amministratori, ecc allora chiamati in tribunale a rispondere delle proprie responsabilità furono in seguito tutte assolte. Dopo quasi 8 anni dai fatti, nel febbraio del 1974, vennero prosciolte da ogni accusa con la formula più favorevole «Per non aver commesso il fatto». Nessuno aveva costruito, nessuno aveva violato la legge, nessuno aveva distrutto un esteso tratto di territorio pubblico.Nel pensiero giuridico di certa magistratura di allora il territorio esisteva ed andava tutelato solo allorquando si configurava come proprietà privata di qualcuno e diventava oggetto di finalità edificatorie.

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Ho voluto ricordare succintamente questi tre casi - su cui De Lucia si diffonde in maniera circostanziata - per una ragione argomentativa molto precisa. Nel loro insieme, anche assumendoli solo come l’emersione estrema di un fenomeno generale, essi compongono una vicenda complessiva che senza dubbio distingue l’urbanizzazione italiana della seconda metà del XX secolo dagli altri Paesi dell’Europa. E’ pur vero che manca, per quel che io sappia, una vera e propria storia comparata europea dei modi in cui si è ricostruito e costruito in quella fase storica. Ricerca vivamente auspicabile. Ma le informazioni sparse in tanta letteratura urbanistica, la conoscenza diretta di varie città importanti d’Europa, sono di per sé sufficienti a renderci scarsamente comparabili i casi di Napoli e Roma, per non dire di Agrigento o di Palermo con quelli di Londra o di Manchester, di Parigi o Lione, per non dire delle medie città dell’Olanda, della Germania o del Portogallo..La singolarità dell’ Italia, unico paese in Europa - come denunciava Antonio Cederna nella Prefazione del 1992 - ad essere « ancora privo della legge fondamentale sui suoli, che consente ai comuni di espropriare le aree necessarie senza svenarsi » è certamente significativa di una profonda particolarità italiana.

Ora, io credo che quanto è avvenuto e continua ad avvenire dentro il territorio della Penisola sia il frutto di un percorso storico originale, un Sonderweg negativo che affonda nella storia di lungo periodo del nostro Paese e che nella seconda metà del XX secolo si manifesta in tutta la sua dirompente ampiezza. Senza dubbio, come mostra nelle sue analisi circostanziate De Lucia, la devastazione urbanistica e la speculazione sui suoli trova la sua piena spiegazione storica in un insieme di fenomeni che si combinano perversamente in quella lunga stagione.La necessità di ricostruire un Paese che aveva subito pesanti distruzioni - ma non comparabili, ricorda l’autore, a quelle della Germania o della Polonia - la fame di case e la spinta ideologica alla crescita economica ad od ogni costo portano ben presto vasti settori della società italiana a considerare il territorio come un mezzo, uno strumento qualsiasi su cui far leva per pervenire allo sviluppo e al benessere. Nell’immaginario collettivo, il progresso stesso della nazione a un certo punto si identifica con l’attività edificatoria, con la cancellazione di campi e colline e l’avanzare del cemento, la crescita veloce di edifici e quartieri. D’altra parte, c’è una ragione politica generale che favorisce anche il fenomeno.Costruire case genera consenso politico: è una attività che crea occupazione, favorisce la crescita economica generale attraverso l’indotto, fa arricchire le potenti famiglie dei costruttori e dei detentori di suoli in grado di movimentare consistenti pacchetti di voti nelle campagne elettorali. La Democrazia Cristiana, che si trova a detenere un potere sovrastante nell’esecutivo, non guarda certo per il sottile nella raccolta del consenso tanto al centro che in periferia.E la minaccia dell’alternativa comunista aveva già allora una particolare forza aggregante, in grado di tacitare dubbi e riserve di tanti cittadini pur non insensibili ai problemi delle città..

D’altra parte, occorre rammentare che l’opera più grave di manipolazione del territorio si verifica in quegli anni soprattutto da Roma in giù. Nel Mezzogiorno l’attività edilizia si pone come l’industria principale per gran parte di quelle regioni.Essa appare agli imprenditori meridionali, per almeno tre o quattro decenni, la più vantaggiosa forma di attività produttiva.L’impresa edile, infatti, aveva un mercato sicuro e lucroso: i suoi prodotti finali erano infatti le case, che venivano immancabilmente vendute con profitti quasi sempre eccezionali. Nessuna concorrenza esterna veniva a minacciare un simile settore di industria che non necessitava peraltro di tecnologia innovativa, e aveva a disposizione in abbondanza la manodopera generica di cui necessitava. Ciò di cui l’imprenditore edile aveva realmente bisogno era quello che oggi si chiamerebbe un fattore extraeconomico: la benevolenza dei politici di turno per la concessione di una licenza edilizia che consentisse l’attività edificatoria. Tale situazione, ha spinto tanti imprenditori e amministratori a valutare il territorio come puro oggetto di lucro, la materia prima su cui fondare un rapido arricchimento individuale e familiare. Per decenni l’industria meridionale più diffusa si è realizzata tramite il saccheggio del suolo urbano e periurbano. Una simile tendenza ha avuto l’esito ben noto dello sfiguramento di gran parte delle città e delle coste del Sud. Ma essa, come ha ricordato un economista, Gianfranco Viesti, ha anche spinto l’imprenditoria meridionale in un cul de sac. Adagiata per decenni nella sua situazione di monopolio di fatto essa ha finito col rinchiudersi in un settore merceologico vecchio, che non spingeva a nessuna innovazione e a nessuna ricerca sul terreno specificamente industriale.

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D’altra parte, la vicenda raccontata da De Lucia in Se questa è una città non si limita a questo. Non solo, come vedremo brevemente, egli ci da conto, con equanimità ed equilibrio, anche delle conquiste e dei successi, pochi in verità, a favore di una urbanistica rispettosa degli interessi collettivi e dei beni territoriali. Ma ricostruisce persuasivamente soprattutto i passaggi storici fondamentali che hanno dato la curvatura, per così dire, politica, culturale e legale alle vicende urbanistiche italiane dell’ultimo cinquantennio. E sono questi passaggi che inducono lo storico a scorgere i percorsi sotterranei di lungo periodo che segnano la vita profonda del nostro Paese.Uno dei pregi già rilevato di questo saggio di De Lucia è che egli ricostruisce i fatti dell’urbanistica come una vicenda di movimenti, di posizioni intellettuali e politiche, di conflitti che coinvolgono un gran numero di protagonisti: urbanisti, magistrati, uomini politici, partiti. Ebbene, è difficile non riconoscere una tendenza profonda della vita e della cultura italiana nella sequenza di eventi che spezzano drammaticamente i tentativi ripetuti di assoggettare la rendita fondiaria e in generale il bene collettivo territorio ai progetti di un uso ispirato agli interessi collettivi.

E’ stata ricordata la sentenza del tribunale di Agrigento, che non ha individuato nessun responsabile per i danni inferti al territorio di quel comune: ridotto così perfettamente a res nullius.Ma ben più grave nelle sue conseguenze fu la sentenza della Corte costituzionale del maggio 1968, che accoglieva il rilievo di incostituzionalità mosso ad alcuni articoli della legge urbanistica del 1942 a proposito di esproprio e indennizzo dei suoli destinati all’edificazione. Quella sentenza creò un vuoto legislativo che fu variamente tamponato ma che alla fine non è stato mai colmato. Nello stesso solco giuridico e politico, benché su piani istituzionali profondamente diversi, si inserisce la vicenda politica che vede protagonista il ministro dei Lavori Pubblici, il democristiano Sullo. Tra il 1962 e il 1963 Fiorentino Sullo aveva elaborato una coraggiosa legge urbanistica che prevedeva una chiara separazione della proprietà dei suoli dal diritto di edificazione. Accusato di «voler togliere la casa agli italiani » da una ben orchestrata campagna di stampa, il ministro non fu più sostenuto dal proprio partito e dovette così dimettersi. Al vuoto legislativo creato dalla sentenza del 1968 si era provveduto provvisoriamente con la legge tampone, ma in maniera più stabile con la nota legge Bucalossi, che in materia di regime dei suoi aveva provveduto ad operare, in termini nuovi, la distinzione fra proprietà e diritto edificatorio. Ebbene, con una sentenza del 25 gennaio 1980 la Corte costituzionale rimise in discussione proprio questa recente conquista.L’Italia - non può fare a meno di constatare Vezio De Lucia - « è l’unico paese al mondo - dopo la rivoluzione francese - privo di certezza del diritto in materia di uso del suolo».

Ora, questa continua rimessa in discussione di quella che si potrebbe definire una soglia irrinunciabile della modernità urbana, vale a dire la costruzione sul territorio secondo regole che tutelino l’interese generale, non costituisce un insieme di fatti casuali. Essa rivela, con la sua continua iterazione, una corrente sotterranea profonda, politica e culturale, che percorre la vita dell’Italia contemporanea.In questo continuo riemergere, nelle prese di posizione degli organismi dello Stato, nelle sentenze della magistratura, nelle scelte dei governi e dei singoli politici in difesa della rendita fondiaria, affiora tutta la forza del conservatorismo sociale e culturale che ha accompagnato la trasformazione dell’Italia in senso moderno.Le città d’Italia e il loro territorio non sono i soli ad avere avuto nemici «armati» nei gruppi dominanti, nelle istituzioni e spesso nell’indifferenza dei ceti intellettuali. Anche le campagne hanno sofferto a lungo e storicamente oltre ogni misura il peso della rendita fondiaria e della cultura giuridica che l’ha tenacemente difeso. Ricordo che l’Italia ha a lungo detenuto un primato abnorme di preminenza del latifondo e della concentrazione giuridica della proprietà terriera.E non solo nel Mezzogiorno e in Sicilia, che ci accomunavano all’ Andalusia, o all’Alentejo portoghese, ma anche nel Lazio e perfino -aspetto meno noto- nella coltivatissima Toscana. Solo nel 1950, con l’avvio della riforma agraria, lo scandalo sociale del latifondo viene colpito fra non poche resistenze e contromisure messe in atto dai gruppi colpiti.Ma la forza politica e culturale del fronte della rendita riuscirà a manifestarsi ancora a lungo con particolare tenacia nelle campagne italiane, attraverso una resistenza strenua per impedire la riforma dei patti agrari, per ostacolare l’affermazione delle ragioni del lavoro contro quelle della proprietà.I mezzadri,occorre ricordare, la spina dorsale delle campagne dell’« Italia di mezzo», sono stati costretti ad abbandonare la terra prima di potere assistere alla trasformazione del loro patto secolare in un fitto. Trasformazione tenacemente avversata da forze molteplici e variamente dislocate.

Ora, in un Paese come l’Italia, profondamente attraversato dalla modernizzazione industriale, proiettato verso primati mondiali di collocazione economica, una così pervicace difesa degli interessi della rendita costituisce indubbiamente, per la sua durata, una evidente e clamorosa contraddizione. Le ragioni della percezione passiva di lucro, la difesa delle posizioni ereditate finiscono col contrastare e talora con l’ avere la meglio sulle ragioni non solo del lavoro e dell’interesse collettivo, ma spesso anche su quelle dell’impresa, dell’investimento produttivo, dell’efficienza, della mobilità.

Ma ancora più clamorosa e più grave appare tuttavia la contraddizione con tutta la precedente, originalissima storia d’Italia. Se si fa eccezione per ristrette ed isolate èlites intellettuali, nessuno in Italia, nella seconda metà del Novecento, sembra avere avuto consapevolezza che l’elemento più profondamente distintivo della nostra storia, rispetto al resto dell’Europa e del mondo, è la nostra civiltà urbana. La città considerata come principio ideale delle historie italiane (1858) di Carlo Cattaneo vanamente ci ha mostrato come l’intero territorio della Penisola sia stato plasmato nei secoli dai criteri ordinatori espressi dai centri cittadini. Cattaneo soleva dire, con gusto del paradosso, che in Italia «l’agricoltura nasce dalle città» volendo intendere che erano stati gli innumerevoli centri urbani disseminati nel territorio ad avere organizzato i vicini contadi, trasformandoli con i propri investimenti agricoli e secondo i dettami della propria cultura cittadina.Ma nell’Italia della seconda metà del XX secolo questa storia plurisecolare è stata spezzata drammaticamente. Le città hanno cessato di essere centri ordinatori del territorio circostante secondo progetti, di essere produttori di funzioni spaziali, di forme e anche di bellezza.. Al contrario esse sono diventate, come in una malattia autoimmunitaria, agenti di aggressione contro se stesse e contro il proprio passato.

Occorre infine abbozzare un’altra considerazione. Nei ripetuti successi dell’interesse proprietario - di cui la storia raccontata da De Lucia è fittamente costellata - si riflette anche pienamente e drammaticamente la fragilità dell’Italia come compagine unitaria. Le ripetute sconfitte subite dalla edificazione urbana, e in generale dall’uso del territorio, secondo una pianificazione che pensasse lo spazio come risorsa pubblica, da plasmare secondo i dettami e gli scopi dell’interesse generale, rivela la cronica debolezza della «nazione» italiana. Vale a dire la sua faticosa difficoltà a pensarsi e governarsi come comunità, per via della riottosità sistematica e ricorrente di gran parte dei suoi gruppi dirigenti, così pronti e decisi a far valere ad ogni costo le proprie ragioni particolari su quelle nazionali.La devastazione subita dal territorio italiano nell’ultimo mezzo secolo costituisce, sotto tale profilo, la testimonianza più eloquente della violazione riputata e sistematica cui è stato sottoposto quel patto che con il linguaggio moderno viene appunto definito nazione. Nel nostro territorio, nelle tante città sfigurate, nelle coste ricoperte di cemento, nelle colline deturpate è come stampata l’impronta anarcoide, violenta e votata all’illegalità dello spirito pubblico italiano. Coloro i quali oggi accusano di fallimento e rovesciano le responsabilità di quanto accaduto sui tentativi messi in atto dalla pianificazione urbanistica - in quanto inefficace e paralizzante - possono farlo per una condizione storica vantaggiosa:nessuno infatti è in grado oggi di mostrare che cosa sarebbe accaduto in Italia senza lo sforzo pianificatorio dei Piani Regolatori e degli altri strumenti urbanistici. Nessuno è in grado di mostrarlo, ma ogni persona di buon senso può senza sforzo immaginare che cosa sarebbe accaduto al nostro territorio se anche quei vincoli e quelle norme fossero stati rimossi.

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Proprio perchè il libro di Vezio De Lucia non è un pamhlet di denuncia, ma, come abbiamo detto, un libro di storia non sarebbe equanime né nei confronti dell’autore, né nei confronti dei lettori, limitare il quadro della rappresentazione di questo lavoro alla sua sola pars destruens. Non sono poche né meno appassionate le pagine che l’autore dedica alle elaborazioni intellettuali, ai progetti, alle battaglie politiche in favore di uno sviluppo urbano capace di contemperare la crescita degli abitati con il rispetto dell’ambiente e quello della qualità del vivere cittadino.La ricostruzione degli anni in cui si avvia la politica del centro-sinistra è insieme esemplare tanto per l’equilibrio del quadro dei fatti e dei protagonisti quanto per la contenuta passione con cui sono tratteggiati i passaggi e alla fine registrata la delusione per i pochi successi quando non per le sconfitte.Nel capitolo su Le iIllusioni del centrosinistra si possono ad esempio leggere brani delle dichiarazioni programmatiche di Aldo Moro all’ atto dell’insediamento del governo da lui presieduto, il 12 dicembre 1963: « Il ritmo disordinato che ha assunto negli ultimi anni lo sviluppo degli insediamenti urbani è stato accompagnato da una sostanziale sopraffazione dell’interesse privato sulle esigenze della comunità, da una irrazionalità e disumanità degli sviluppi delle nostre città, con la conseguenza di una diffusa e crescente distorsione del vivere civile. Tale situazione manifesta le manchevolezze e le insufficienze delle norme vigenti in materia, perciò il governo s’ impegna di prendere l’iniziativa per una radicale riforma della legislazione urbanistica».

Dunque, anche uno dei maggiori leader della DC, del partito che - sul piano politico - portava le più gravi responsabilità di quanto era avvenuto, appariva acutamente consapevole della necessità di un mutamento radicale di condotta. Ma i fatti, com’è noto, avranno un altro corso. Tuttavia l’autore dà conto della nuova ventata culturale che investe l’Italia in quella fase. Il territorio viene inserito nei progetti di programmazione economica e torna ad essere pensato come un bene collettivo che va utilizzato secondo progetti e regole condivisi.Molte delle idee e delle inziative che si elaborano in quel decennio troveranno applicazioni parziali, successi o netti abbandoni nel corso dei due decenni successivi. Essi si svolgeranno peraltro in un quadro istituzionale che dopo il 1970 muta profondamente con l’istituzione di quell’inedito soggetto istituzionale che sono le regioni. Il lettore troverà ricostruite nel testo di De Lucia le pagine più importanti di questa storia, tentata o effettivamente realizzata, in controcorrente: dal recupero del centro storico di Bologna ad opera di Pier Luigi Cervellati - solitario esempio di restaurazione di un nucleo cittadino restituito ai ceti popolari che lo abitavano - al tentato recupero dei Sassi di Matera, al grandioso progetto dei Fori a Roma, che vedrà nel sindaco Luigi Petroselli il suo ultimo e appassionato assertore politico.Certo molte battaglie rimangono senza esito. Alcune hanno tuttavia un successo di rilievo. E’ il caso ad esempio della legge per la casa del 1971: una normativa complessa, che imponeva ai comuni di acquisire le aree destinate all’edilizia popolare, e che segnerà senza dubbio « un risoluto passo in avanti nel controllo dei meccanismi di formazione della rendita fondiaria». Essa riaggiornava la famosa legge per la casa del 1962 la 167, e verrà poi completata e arricchita dal piano decennale per lacasa del 1978.

Queste ed altre conquiste normative - come ad esempio la legge Galasso del 1984, pensata in difesa del paesaggio e del territorio e variamente trasformata- fanno parte di quel « filo reciso», come lo chiama De Lucia, che le diverse e sparse forze riformatrici italiane hanno tentato e tentano continuamente di riannodare. Ma anche nei pochi successi e nelle tante sconfitte di questo insieme di forze va ritrovata oggi il filo rosso di una grande storia, da riportare alla luce, da mostrare con orgoglio e capacità di incoraggiamento alle nuove generazioni.E’ necessario riprendere o continuare le battaglie. Oggi il rispetto e la tutela di quel bene sempre più scarso che è il territorio appaiono come una necessità ben più drammatica e cogente di quanto potesse apparire solo cinquant’anni fa. La consapevolezza dei limiti ambientali entro cui è costretto il nostro agire rende sempre più obbligate le scelte che la corrente riformatrice italiana, con le sue molteplici voci, ha cercato strenuamente di promuovere nei passati decenni. La diffusa coscienza ambientalista che oggi attraversa tanti ceti sociali e gruppi intellettuali rende possibile quel vero e proprio salto di civiltà che comporta un progetto e un atteggiamento di tutela e conservazione del patrimonio cittadino. Conservazione - ricordava Leonardo Benevolo nel 1985, citato da De Lucia - il cui oggetto « non è un insieme di manufatti fisici - monumenti e opere d’arte tutelati in nome di un interesse specializzato, storico o artistico - ma un organismo abitato - quel che resta della città preindustriale, con la sua popolazione tradizionale - caratterizzato dalla qualità che manca nella città contemporanea, e che è richiesto nuovamente dalla ricerca moderna: la stabilità del rapporto fra popolazione e quadro edilizio, cioè la riconciliazione tra l’uomo e il suo ambiente». Ma anche nei confronti dell’insieme del territorio italiano, così densamente intessuto di manufatti storici, così intensamente plasmato nei millenni secondo forme estetiche consapevoli, la linea da percorre non appare oggi meno obbligata e necessaria. Tanto più se si ricorda che questo stesso territorio costituisce uno degli habitat più fragili d’Europa, luogo diffusamente sismico e sottoposto a estesi e diffusi fenomeni di erosione del suolo e di franamento. Quasi la metà dei comuni italiani sono soggetti a simili fenomeni, secondo una scala varia per intensità e gravità. Mentre la marcata concentrazione demografica e di attività produttive lungo le coste e i fondovalle rende la vita civile del Paese singolarmente esposta ai grandi eventi alluvionali. Per tale insieme di ragioni, nella fase storica in cui i grandi processi di industrializzazione sono esauriti, si rende necessario ripensare l’intero habitat nazionale secondo un progetto complessivo di protezione e di governo. Anche se forze disordinate e potenti sono ancora diuturnamente intenti nell’opera di accaparramento e di distruzione, la lunga notte di questi ultimi anni non potrà durare ancora a lungo.

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