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Maria Pia Guermandi
L’anno che verrà
21 Gennaio 2006
Maria Pia Guermandi
Un altro Natale è appena trascorso. Da qualche ...

Un altro Natale è appena trascorso. Da qualche anno non appartengo più alla schiera sempre più folta e depressa dei suoi denigratori. Certo non ne disconosco alcuni caratteri deleteri che ha accentuato a partire dagli ultimi lustri, assumendo sempre più il tono di sagra della retorica intimista e forzata anestesia collettiva e coniugandolo alla frenesia dei consumi. Nei giorni scorsi, come ormai scontato, lo schermo televisivo ci ha bombardato di immagini vicarie di armonie parentali ribadendo il successo ormai dilagante della carol philosophy di importazione d’oltre manica. Al contrario, nell’artefatto binomio Natale-famiglia, il rinnovarsi implacabile della festa si scontra in modo sempre più violento con l’altrettanto implacabile tramonto della famiglia tradizionale, finendo soprattutto con il materializzare i fantasmi e i fallimenti di quest’ultima (esemplare, dal punto di vista iconico, la sequenza del party natalizio inserita dall’ultimo spietato Kubrik di Eyes Wide Shut).

Certo tutto questo e altro ancora, e quindi soprattutto, come scriveva Sherwood Anderson, ‘banco di prova per la capacità di uomini e donne di vivere insieme’. Appunto: tanto vale provarci al meglio.

Del Natale, nel tempo, ho rivalutato alcuni riti, riconoscendo loro soprattutto quel valore propiziatorio di cui tutti noi, in fondo, continuiamo pur sempre ad avere bisogno. I presepi e gli alberi di casa Guermandi si arricchiscono e si complicano di anno in anno (come le nostre vite); da ogni viaggio ciascuno di noi riporta, per implicito compito, qualcosa da appendere all’albero del prossimo Natale, quasi a riassunto dell’anno trascorso. E provo una piacevole, divertita sensazione di familiarità preparando per la loro recita, il 13 dicembre, gli autistici attori del mio presepe, sempre più anarchico per dimensioni, materiali, scuole artigiane (da Betlemme ad Innsbruck, via Napoli).

E poi, amo fare i regali (non solo a Natale, per la verità), e anche se so in partenza che saranno ‘doni a perdere’, senza contropartita. Come sfida dello spirito nel riconoscimento dell’altro, dei suoi desideri, per il piacere dello stupore che leggo negli occhi al momento dello svelamento, come segnale di interesse, di complicità, di affinità, ammiccamento a voglie (o paure) nascoste, ma intuite, come carezza materiale e signum di me, lontana, all’altro.

Riti ancestrali, questi, di paganissima genesi, creati da un’umanità impaurita e succube di fronte al mistero della natura (ma lo tsunami di un anno fa ci ha di colpo ripiegati nello stesso ruolo), per immunizzare i fantasmi del buio e della morte evocati dalle lunghe notti del solstizio invernale: e cos’altro è il Natale - una nascita nel pieno dell’inverno -se non la più folle e irrazionale delle sfide alla morte.

E riti propiziatori, dicevo, che introducono, in modo più favorevole e indulgente, alle meditazioni e ai bilanci di fine anno. Con questo spirito, appunto, provo a raccogliere per eddyburg, in poche righe e molte lacune, alcune considerazioni a commento, parzialissimo e arruffato, di luci ed ombre che come sempre hanno caratterizzato l’anno trascorso e di promesse e dubbi che, come sempre, accompagnano il prossimo che subentra. A livello nazionale le promesse di un cambiamento politico appaiono fondate. Forse non altrettanto la certezza che tale cambiamento dia avvio ad una mutazione profonda, perseguita con radicalità di intenti, solidità d’impianto, ampiezza di visione e strategia di largo respiro. Chè tali elementi e niente di meno richiedono le sfide che ci attendono e che ci ha consegnato, insolute e semmai incancrenite, l’anno appena concluso. Questo tempo appare segnato ancora dai perduranti effetti della catastrofe dell’equilibrio precedente, coi motivi emergenti della biopolitica, del declino quasi inarrestabile degli stati nazionali, del conflitto di classe, delle strutture storiche della rappresentanza che paiono prefigurare un destino triste delle democrazie in un’epoca di disincanto svuotata di passioni.

In Italia, questo governo e il berlusconismo qualche duro colpo l’hanno pur ricevuto a partire dalle urne regionali, ma la lotta sul piano delle regole, dei contenuti, della comunicazione politica è ancora apertissima e al centrosinistra toccherà, semmai, la gestione di una situazione difficile, compromessa, alla quale non si potrà rimediare con semplici misure legislative (che pure occorrono) poiché troppe delle disposizioni varate in questa legislatura (la Bossi-Fini, la Biagi) hanno già modificato la costituzione materiale e formale del paese. E la lotta contro la riforma della nostra Costituzione sarà una delle prime da sostenere, ripartendo, come 60 anni fa, dalla Carta di tutti. Non si tratta, però, solo di procedere all’azzeramento di una riforma subito apparsa come ‘perversa miscela di autoritarismo e caos’ (Ida Dentamaro), perché è forse auspicabile che, per taluni aspetti, si provino a riscrivere, quando inadeguati, i contorni delle norme e a spostare i confini della legalità (detto con veleno felsineo) e degli equilibri sociali che essa crea.

Gli elementi positivi non mancano: la vittoria di Vendola, quella, seppur in cammino, di Rita Borsellino, le battaglie spesso vittoriose di Soru in Sardegna, il popolo composto e motivatissimo quant’altri mai delle primarie del 16 ottobre sono traguardi di ottimismo sui quali costruire. Praticamente affossata la Lupi più per oggettività del calendario che per insorgere delle coscienze politiche (ma eddyburg qualche sassolino negli ingranaggi del meccanismo si può vantare di averlo infilato), anche se sul piano del governo del territorio se è quasi vinta una battaglia, la guerra è ancora tutta da combattere. A partire dallo stravolgimento operato dalla legge di delega ambientale, passando per il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio nelle sue evoluzioni e involuzioni. Grande attenzione e sforzo di analisi dovrà essere perciò posto (da eddyburg, in primis) soprattutto ai meccanismi che l’interrelazione di questi dispositivi legislativi e altri ancora (a partire dalla finanziaria) giustapponendosi l’uno all’altro, contraddicendosi e creando spazi di ambiguità e arretramento normativo possono innescare.

La questione della casa, inesistente fino a pochi mesi fa nelle agende politiche e nelle ribalte mediatiche, è esplosa in tutta la sua violenza tanto da essere inserita nei leit-motiv del nostro demagogo principe, ma soprattutto (speriamo durevolmente) nei ponderosi programmi del centro sinistra. Qualche osservazione critica nei confronti di questi recenti, dottissimi documenti sfornati nelle ultime settimane da autorevolissimi think tanks all’uopo costituiti dalle molte anime del centro-sinistra, magari si potrà tentare: su gran parte di quello che dicono come non essere d’accordo, per lo più? Largamente condivisibili le analisi, più scivolosamente vaghe le soluzioni proposte. Per ora solo una nota marginale, più da feticista del linguaggio che da cittadino politicamente scafato: carattere comune di questi testi è l’attenzione quasi spasmodica alle ‘infrastrutture’ che però, etimologicamente parlando, dovrebbero costituire il di sotto, l’accanto, il dopo, di una struttura sovrastante e altra il cui disegno, a tutt’oggi, appare ancora piuttosto incompleto. Anche in questa direzione di critica e pungolo nei confronti dei nostri rappresentanti molto ci sarà da fare, da domani, per costringerli a promesse ed asserzioni non ambigue pur se su pochi irrinunciabili snodi.

Avvolto da veleni e strascichi, ma necessario, si è profilato, in questo scorcio d’anno, il crollo inglorioso, come di un castello di carte mal costruito, delle imprese e dei progetti dei ‘furbetti del quartierino’. Così vincenti ed inarrestabili nelle cronache estive e ora confinati nel ruolo di pessimi attori di una pochade di serie B che sta scoperchiando, fra le altre miserie, le ipocrisie della sinistra perbene e della sua voglia troppo frettolosa di partecipare al salotto buono dei poteri forti e che forti sono, almeno per quello che riguarda il panorama italiano, solo in relazione alla debolezza altrui, del nostro sgangherato sistema di garanzie e delle smagliature evidenti del tessuto democratico.

Infine la battaglia del popolo NO-TAV è riuscita a trasformarsi, nelle ultime settimane, da localistica querelle da annoverare fra i soprassalti della sindrome NIMBY a emblema di una lotta contro l’arroganza di uno sviluppo privo di accreditamento teorico non solo dal punto di vista ambientale, ma anche, in questo caso, strettamente economico. Ancor più dei risultati operativi raggiunti (sospensione dei lavori, programmazione della VIA, ecc.), straordinario mi pare proprio questo ribaltamento provocato nella nostra percezione della questione, ottenuto certo con le armi della tenacia, della coesione di un gruppo, ma soprattutto attraverso l’acquisizione democraticamente allargata e la comunicazione efficace di una conoscenza approfondita e quindi di una cultura vera e propria nei confronti dei problemi dibattuti.

Traversando il Tevere, invece, ciò che è successo nello scorso anno, non incoraggia a sperare: la più longeva e sicuramente una delle più lungimiranti diplomazie politiche del mondo, con le decisioni del conclave, si è rifugiata in una scelta di difesa, al grido di ‘serrate i ranghi’, e in questi mesi ha perfezionato, man mano, questo atteggiamento rinunciatario e difensivo nei confronti di qualsiasi apertura al diverso, all’altro: cittadella sempre più asserragliata nella difesa delle proprie posizioni, contro e non accanto, i non cristiani, i barbari. Le ingerenze sempre più articolate e frequenti nel dibattito politico italiano, non sono, in fondo, che l’altro lato della medaglia di una auctoritas tanto più virulenta, quanto più limitata a giocare nel cortile di casa. Interpreto questa involuzione come un signum veramente funesto: non riesco a rallegrarmene come di un segnale propizio, a medio-lungo termine, ad un allargamento dello spazio laico (ma ben venga quest’ultimo come antidoto ai recenti, impropri sbracamenti misticheggianti di tanti dei nostri rappresentanti politici). Perchè anche noi laici – atei e non – continuiamo ad avere bisogno del numero più ampio possibile di compagni di strada per le molte battaglie che ci attendono: prima fra tutte, quella della decostruzione dell’unico modello rimasto, che, come ci ostiniamo a credere, non è l’unico possibile, ma solo quello che la nostra mediocrità è stata sinora in grado di permettere.

In Europa appaiono inevitabilmente destinate a riproporsi le esplosioni di rabbia metropolitana: frettolosamente archiviate, dai più, come jacqueries ‘impolitiche’ (ma ogni rivolta è ‘politica’ in quanto cerca di rompere una condizione sociale di oppressione), esse rimandano, in primo luogo, ai conti mai pagati del colonialismo e postcolonialismo, origine prima, anche se non esclusiva, dei conflitti che caratterizzano le nostre società multiculturali. In questa direzione il cammino della comunità europea appare del tutto incerto. Ancora da interpretare il trauma delle bocciature alla Costituzione: tentativo troppo algido e meccanico di costruzione di una nuova entità sovrastatuale e nata già inadeguata rispetto agli scenari odierni. Anche su questo fronte le battaglie che ci vedranno impegnati iniziano da domani, prima fra tutte, quella contro la direttiva Bolkestein con la quale si cerca di rinchiudere l’agire collettivo dei lavoratori nelle gabbie di ferro dei diritti nazionali, che si tratti di diritti sindacali o di sciopero. Ma anche e soprattutto per il rilancio di una concezione di comunità basata su un’idea di cittadinanza inclusiva e non su valori “originari” e tradizionalisti; per la costruzione di un’Europa aperta alla differenza invece che arroccata sull’identità e che assuma la diplomazia infinita come metodo di confronto sullo scenario mondiale.

Sul piano internazionale, alle ancora troppo numerose crisi umanitarie quasi sempre determinate da situazioni di conflitto endemico in Africa, in Asia e che ci parlano di una situazione di catastrofe sempre più vicina e come sempre negletta quando non incentivata, nelle sue cause, dalle logiche del mondo occidentale, poco di positivo si può davvero credibilmente contrapporre. Ancora misconosciuto, per larga parte, ma vagamente minaccioso, continua ad essere il continente cinese: laboratorio (forse incubo) anche sul piano urbanistico, museografico, della politica culturale. Lontanissima appare, infine, la prosopopea dei portatori di civiltà che ispirava le cronache di un anno fa e va riprendendo fiato e logica il dissenso interno al popolo statunitense, acuito a dismisura dopo l’incresciosa gestione del disastro di New Orléans. Di qualche giorno fa è l’ammissione del comandante in capo delle truppe americane in Iraq: “Qui non vedono l’ora che ce ne andiamo”: pietra tombale tardiva, ma definitiva sulla spazzatura mediatica che ha retto il gioco della volontà di dominio dell’amministrazione U.S.A., della sua brutalità e della sua approssimazione.

Di tutto questo e di molto altro ancora eddyburg è stato osservatore attento e schieratissimo - comme d’habitude – e, in qualche caso, attore, come è immediatamente percepibile a chi riavvolga il ‘nastro’ dei documenti pubblicati nella colonna centrale (centinaia solo in quest’ultimo anno). Quello trascorso è stato un anno importante per eddyburg: si è costituita una redazione (un po’ discontinua per impegno, forse, ma è lo scotto da pagare al volontariato), e attorno sta crescendo l’Associazione degli Amici di Eddyburg. È stata varata la nuova versione del sito, frutto di animate discussioni, più ricca, più razionale, più fruibile (ci auguriamo). E, impresa di non scarso impegno organizzativo, si è tenuta la scuola estiva di eddyburg in Val di Cornia. A eddyburg e ai suoi materiali on-line si rifanno alcune pubblicazioni a stampa quali il testo sulla Controriforma urbanistica e il volume di Lodo Meneghetti. Tante le campagne promosse e sostenute e le iniziative organizzate in giro per l’Italia. Insomma il ‘drappello di urbanisti in solitaria rivolta’ e i loro sodali hanno provocato più di un frisson al dibattito politico in generale e ad una sonnacchiosa quando non indulgente opposizione: come ci ha insegnato Rossana Rossanda ‘affilare la ragione, invece che le spade, resta il nostro mestiere’.

Idee e progetti non mancano e molto si potrebbe ancora fare sul piano di una migliore comunicazione e trasmissione dei contenuti del sito stesso, costruendo per i nostri lettori e amici, una rete di connessioni e rimandi che consentano di sfruttare meglio la vocazione cooperativa dell’ipertesto elettronico e ne dilatino, come direbbe Barthes, le aperture di senso. Anche per questo indispensabili, più che utili, sono i consigli, le critiche, i commenti in genere della comunità che si riconosce attorno ad eddyburg e alle sue battaglie.Uno dei risultati più importanti di questo progetto è forse proprio da leggere nella costituzione di questa comunità reale e virtuale (ma vitalissima pur nei suoi sfuggenti contorni), comunità schieratissima e che pur nella sostanziale condivisione degli elementi di fondo conosce anche contrasti come in ogni relazione vitale.

Artefice assolutamente prioritario (siamo ai ringraziamenti di fine recita…) di ciò che eddyburg è stato anche quest’anno ed ha rappresentato per questa comunità è, nel nostro caso più che mai, il suo direttore. I primi auguri vanno a lui, a eddy e alla sua costante ed inesausta voglia di continuare ad esserci, a discutere, testimoniare, documentare, alla sua capacità di indignarsi, ma anche di stupirsi, propria di chi è giovane nel cuore e grande nel cervello, alla sua saggezza così poco noiosa perchè conquista dell’intelligenza e non acquietarsi anagrafico, e, perché no, alla sua vanità così temperata dall’autoironia (e così giustificata nei contenuti).

Fra gli ultimi e beneauguranti eventi del 2005 vi è stata la nuova sistemazione, all’interno di uno spazio finalmente adeguato per dimensioni e luminosità, della statua di Marco Aurelio, nell’hortus romano riallestito ad ampliamento dei Musei Capitolini. Il 22 dicembre, entrando nell’esedra vetrata che la ospita, comune a tutti noi è stata la meraviglia, il compiacimento per il ritrovarci di fronte a tanta bellezza, così conosciuta eppure nuovamente riconosciuta con autentica emozione. L’imperatore era là, nella sua majestas irraggiungibile, ma completamente addolcita da una serenitas della quale vorremmo che ci facesse partecipi, almeno ad intermittenze. Con un velo di ironia (ma neanche tanta) e con molto affetto, dedico al Marco Aurelio di eddyburg questa opinione auspicabilmente porte-bonheur.

E, subito dopo, a tutti noi, ai nostri furori, alle nostre passioni, alle nostre speranze.

“La speranza ha due bellissimi figli: sdegno per le cose come sono, coraggio per cambiarle”. Sant’Agostino.

Prosit!

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