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Eugenio Scalfari
Un partito di democratici ma non di moderati
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Il consueto panorama settimanale del fondatore de la Repubblica, il 4 dicembre 2005

ADESSO dunque il programma c’è. Sia quello lungo sia quello breve, i primi cento giorni collocati nello sfondo d’una intera legislatura. I provvedimenti e gli interventi da effettuare per recuperare l’unità del paese nel solco di principi e di convinzioni morali condivise da tutta l’Italia democratica e riformista. E c’è anche la squadra che dovrà guidare la campagna elettorale e – se il risultato sarà quello atteso – la nuova maggioranza parlamentare e il nuovo governo.

Chi vorrà analizzare i contenuti di quanto è emerso dalle due assemblee, della Margherita a Milano e dei Ds a Firenze, potrà consentire o dissentire nel merito ma dovrà ammettere che il quadro d’insieme è chiaro, la direzione di marcia è stata nettamente indicata e l’appuntamento con il futuro partito democratico ne rappresenta lo sbocco finale realizzabile entro un termine ragionevolmente prossimo.

Ho, purtroppo per la mia anagrafe, un’esperienza di campagne elettorali di oltre mezzo secolo, quasi sempre come osservatore, talvolta come partecipante. Posso dunque testimoniare che l’Italia riformatrice non si è mai presentata ai nastri di partenza così preparata e matura come questa volta.

Comunque vada la sorte elettorale, questo è già un primo obiettivo raggiunto; lo si deve, secondo me, a due cause: l’uscita definitiva delle forze riformiste dagli involucri che le hanno trattenute per molto tempo, le hanno soffocate all’ombra di pregiudizi e interessi, e le hanno contrapposte.

L’involucro democristiano da un lato e quello comunista dall’altro. Le ingessature ideologiche e i bendaggi mummificati sono durati lungamente sotto la forma degli ex e dei post, ma ora finalmente sono stati rotti. Ne è uscita una vitalità nuova, una convergenza di propositi e un’alacrità di proposte da mettere in opera per i cittadini e con i cittadini. Non l’arcaico politichese degli apparati e neppure il distillato pseudo-modernista dei tecnocrati, ma il senso compiuto della «polis», una comunità partecipe senza la quale è diventato impossibile governare un mondo sempre più complesso e più variegato di interessi e di idee.

L’avanguardia di questa nuova stagione l’abbiamo scoperta e vista all’opera due mesi fa: quei quattro milioni e mezzo di italiani che hanno affollato i gazebo delle primarie dando vita ad un evento mai verificatosi prima di allora. Romano Prodi, ricordando quell’eccezionale fenomeno, ha detto a Firenze che in quella giornata del 6 ottobre scorso è stato costruito un ponte che collega la classe politica alla società. E D’Alema ha aggiunto che quel giorno è stata chiusa la fase dell’antipolitica e del politichese.

La penso anch’io allo stesso modo. Il potere degli apparati crolla quando i cittadini rivendicano la loro sovranità ed esercitano attivamente il loro diritto di partecipare; nello stesso momento e per le stesse ragioni crolla il qualunquismo che è l’altra faccia del politichese e degli apparati.

Gli stimoli venuti da Firenze e da Milano sono il primo risultato di forze liberate. Dovranno costruire il futuro prendendo nelle loro mani il presente. Le premesse finalmente ci sono.

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Guardiamole più da vicino queste premesse.

All’assemblea diessina di Firenze ha preso la parola, portando il saluto della Margherita, Dario Franceschini, uno dei dirigenti di maggior rilievo del suo partito. Il suo intervento è stato centrato su una parola-chiave, ripresa subito dopo da Fassino: la laicità. Se ne è fatto fin troppo abuso di quella parola, fino ad annacquarne e addirittura a stravolgerne l’essenza, sicché Franceschini ha dovuto chiarirne l’autentico significato. La laicità costituisce l’essenza della democrazia moderna ed è il diritto di ogni individuo, gruppo, comunità, insomma soggetto singolo o collettivo, di sostenere i propri diritti e di essere ascoltato con attenzione e rispetto.

Reciproci. Senza imposizioni e sopraffazioni. Senza imporre la propria verità a chi non la condivide.

La democrazia è il contenitore di queste parziali verità e parziali interessi. La volontà della maggioranza si costruisce attorno alla sintesi delle diverse tesi. Le istituzioni della democrazia hanno il compito di attuare quella volontà garantendo che essa non potrà trasformarsi in un sistema chiuso ma ampliare lo spazio pubblico che include e non esclude.

Questa è la laicità ed è ai nostri occhi della massima importanza che un concetto così alto sia stato posto dai principali rappresentanti dei due partiti riformisti costituendo perciò stesso il fondamento del costruendo partito democratico.

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Dalla laicità discende la politica dei diritti. Lo Stato di diritto. Il rispetto delle garanzie. L’eguaglianza delle posizioni di partenza e quindi la massima attenzione verso i deboli affinché non siano esclusi.

Il punto nevralgico dell’esclusione o dell’inclusione è collocato nel mercato del lavoro, nella disoccupazione duratura, nel precariato permanente.

Anche su questo punto l’approdo cui sono arrivati i due partiti dell’alleanza riformista è comune: flessibilità mirata a costruire processi professionali stabili e sorretta da una solida rete di ammortizzatori sociali.

I critici osserveranno (hanno già osservato) che flessibilità e occupazione duratura sono affermazioni contraddittorie, un ossimoro se vogliamo usare il lessico della retorica. Per certi aspetti anche libertà ed eguaglianza raffigurano un ossimoro. La vita sociale è costellata di ossimori, la modernità ne ha accresciuto il numero, la globalizzazione l’ha moltiplicato. Il più celebre che aprì appunto l’era moderna lo pronunciò Colombo quando salpò dal molo di Siviglia per le Americhe: «Buscar el levante por el ponente», raggiungere il levante facendo rotta a ponente. Non fu questo il più felice degli ossimori? Diventò un risultato perché la terra era rotonda. Così molte contraddizioni si risolvono quando si scopre che i percorsi sociali non sono mai rettilinei ma circolari, circostanza troppo spesso ignorata dai qualunquisti e dai tecnocrati. La democrazia non può che avere un impianto circolare nel quale tutti i valori e gli interessi legittimi sono collocati sulla linea della circonferenza sentendosi ciascuno il centro della propria circonferenza.

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Noi - è stato detto da Prodi - non diremo come Berlusconi che il fisco è un nemico, proprio mentre il suo governo quinquennale si conclude con l’aumento della pressione fiscale, la decurtazione del potere d’acquisto, la stagnazione del reddito e la crescita esponenziale del deficit e del debito pubblico. Noi diciamo invece che un fisco amico deve servire a sostenere le fasce deboli della società, a premiare le imprese innovatrici, a migliorare la competitività, a penalizzare le rendite e i profitti di speculazione e a stanare l’evasione e l’elusione.

Questi aspetti della questione fiscale sono stati ampiamente descritti nella relazione programmatica di Bersani e ripresi nella conclusione di Fassino. Specifici provvedimenti in materia sono stati indicati da un lavoro di équipe cui Vincenzo Visco ha fornito il contributo d’una lunga esperienza alle Finanze e al Tesoro. Analoghe proposte erano state illustrate a Milano da Enrico Letta per la Margherita.

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Non sembri idilliaca questa sintesi dello schieramento di battaglia con il quale la «lista grande» del centrosinistra ha aperto la sua campagna elettorale. D’Alema ha detto che la vera lotta, lo sforzo più arduo, comincerà dopo la vittoria, quando le parole dovranno cedere il posto ai fatti concreti.

Esattamente, la vera lotta comincerà allora. Né sarà idilliaca la nascita del partito democratico proprio perché le resistenze degli apparati non mancheranno, le legittime ambizioni all’interno dei gruppi dirigenti neppure, le vie di fuga, le tentazioni, le antipatie stratificate si faranno sentire per un pezzo.

Di qui una fretta eccessiva da un lato, una lentezza altrettanto eccessiva dall’altro, due difetti simmetricamente opposti ai quali non bisogna cedere. Chi dice che per tenere a battesimo il nuovo partito ci vorranno cinque o addirittura dieci anni in realtà non lo vuole. E chi afferma (ce ne sono) facciamo subito prima delle elezioni, neppure lui lo vuole.

L’esempio di Sharon, che ha creato il suo nuovo partito in poche settimane ed è accreditato della vittoria, non calza affatto perché l’incubazione di quell’iniziativa è durata anni, l’evoluzione dell’opinione pubblica israeliana in favore della pace è cominciata solo nel momento in cui fu varato il progetto di sgombero degli insediamenti di Gaza e della Cisgiordania, la morte di Arafat ha sgomberato il campo e spento la seconda Intifada.

Non poche settimane, ma anni di logoramento del Likud e di esaurimento dei laburisti.

Un elemento importante per quanto riguarda il caso italiano sarà l’esito elettorale della «lista grande» e, al Senato, i risultati del voto ai partiti in lizza. Se la «lista grande» arriverà al 35 per cento o addirittura lo supererà, sarà stato compiuto un passo decisivo verso il partito democratico e la sua formazione potrà procedere in fretta. Il propulsore di questa spinta è inevitabilmente Romano Prodi. Prese più del 70 per cento dei voti alle primarie, in un campione rappresentativo di metà del corpo elettorale. Quel 70 per cento equivale appunto al 35 cui può aspirare la «lista grande» da lui capeggiata.

Gli elettori che gli hanno dato il voto sanno che Prodi sarà il propulsore d’un riformismo forte come egli stesso ha detto più volte. Forte non è un aggettivo generico.

Significa un più su tutti gli elementi dei vari ossimori: più libertà e più eguaglianza, più sviluppo e più rigore, più flessibilità e più sicurezza di lavoro, più tecnologia e più ecologia, più rispetto per la Chiesa e più autonomia delle coscienze e rispetto delle loro singole decisioni, più indipendenza della magistratura e più responsabilità dei magistrati, più scuola di formazione e più preparazione del corpo docente, più autonomia degli enti locali e più responsabilità dei loro amministratori.

Infine più cultura, più politica, meno politichese.

Si tratta come si vede di compiti che richiedono l’impegno di una squadra di talenti numerosa e, come ora si usa dire, coesa. La squadra c’è e sarà arricchita da più giovani leve che per fortuna non mancano. La coesione è ancora, almeno in parte, un dover essere.

Una cosa è certa: il partito democratico non sarà un partito di moderati.

La moderazione è un concetto positivo e valido per tutti, i moderati invece sono una parte con connotati specifici. Hanno sicuramente altri strumenti per esprimersi, specie se l’anomalia berlusconiana sarà spazzata via dal corpo elettorale.

Certo l’alternativa Casini è deboluccia. Comincia ad effondere un sentore polveroso di vecchie sacrestie. Il passato non depone molto a suo favore, cinque anni di fedeltà alla causa berlusconiana non sono un «atout».

Diciamo che Casini guida la cavalleria leggera. Un punto di partenza, sapendo però che poi ci vorrà la fanteria.

Cercherà un ticket, ma con chi? Quali sono le divisioni di fanteria disposte a battersi per l’ex presidente della Camera? Il cardinale? I cardinali lanciano messaggi di pace e chiedono appoggio in nome della fede.

L’appoggio è benvenuto da qualsiasi provenienza. Lo accettarono perfino da Mussolini e per undici anni sembrò incrollabile. Finché sarà utile blandiranno Casini, se non servirà più lo lasceranno a godersi un po’ di vacanza.

Noi laici queste cose le conosciamo. Proprio per questo ci piace la laicità: piena libertà a tutti di parlare e proporre, rispetto per tutti e ognuno faccia da solo la sua strada. Nel rispetto della legge e, nel caso della Chiesa, dei Trattati stipulati con lo Stato. Non più né meno di questo.

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