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Luciano Gallino
Chi ha paura dello Stato sociale? L’economia del benessere e i suoi critici
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
“La Finanziaria, attualmente in discussione, vuole tagliare una serie di servizi sociali”. Molti dimenticano che il mercato non è tutto. Da la Repubblica del 4 ottobre 2005

Produrre e riprodurre l’essere umano, quale entità biologica, sociale e culturale, comporta molti tipi di costi. Vi sono i costi necessari per ridurre gli aggravi della malattia, degli incidenti sul lavoro, della vecchiaia vissuta in solitudine. I costi per far fronte alla disoccupazione involontaria, alle traversie familiari, a improvvise crisi economiche e sociali. Ma anche i costi per poter godere di un tempo libero non solo marginale, e di poter scegliere liberamente se e quanto studiare, nonché il tipo di professione che si preferisce, indipendentemente dalle limitazioni dovute al fatto di esser nati in un determinato strato sociale.

Lo stato sociale (stato del benessere, welfare state) può quindi essere definito come lo stato che si assume la responsabilità di coprire nella maggior misura possibile, per il maggior numero di persone possibile, i suddetti costi di riproduzione e riproduzione dell’essere umano. Chiedendo a ciascuno, beninteso, un congruo contributo. E ponendo speciale attenzione ai costi che non è nemmeno pensabile di poter coprire mediante comportamenti individuali virtuosi, poiché essi superano qualsiasi possibilità di risparmio o di spesa o di acquisizione di informazioni disponibili alla persona.

Un giovane non può scegliere la professione che più gradirebbe se fa parte di una famiglia povera, che ha un estremo bisogno di mandarlo a lavorare al più presto per integrare il proprio reddito. Una lavoratrice che per molti anni guadagna in media sei, settecento euro al mese, perché non riesce a trovare un’occupazione stabile, non è nella condizione di investire il 30 per cento di quel salario per farsi una pensione integrativa.

Una famiglia, anche se di classe media, che perda di colpo il maggior produttore di reddito, si tratti del padre o della madre, avrà serie difficoltà a sostenere il costo degli studi dei figli.

Così inteso, lo stato sociale è stata una grande conquista civile della seconda metà del XX secolo, anche se le sue radici son partite nell’Ottocento. Conquista ottenuta in gran parte con le lotte dei sindacati e l’azione dei governi socialdemocratici, laburisti, di centrosinistra dell’epoca. Ma anche con il contributo non irrilevante di forze politiche conservatrici.

Colui che si può definire l’inventore del moderno stato sociale, William Henry Beveridge, lui stesso un moderato, pubblicò il suo primo rapporto - Social Insurance and Allied Services - in piena guerra, nel 1942, su richiesta del governo conservatore di Winston Churchill, che poi ne adottò appieno i suggerimenti. In un secondo rapporto, del 1944 (ne ha parlato Lucio Villari su Republica) proponeva un piano per favorire l’occupazione e una più equa distribuzione del reddito.

Né Beveridge né Churchill erano mossi solamente da intenti umanitari. Intendevano contrastare l’influenza ideologica e politica dell’Urss, che essi prevedevano si sarebbe estesa in Europa dopo la guerra, come in effetti avvenne. Ciò significa che nelle fondamenta dello stato sociale quale abbiamo conosciuto, non c’è stata soltanto una ispirazione "comunista", come oggi qualcuno direbbe, ma anche una discreta dose di timore che le idee della sinistra avessero presa sulle masse lavoratrici.

Oggi lo stato sociale appare in difficoltà per ragioni al tempo stesso ideologiche e materiali. Tra le prime va collocata la vittoriosa offensiva in Europa e nel mondo dell’ideologia neo-liberale, più recentemente neo-cons, il cui nucleo costitutivo è l’idea che ciascuno deve far fronte validamente, con le proprie sole forze, alle vicende della vita. Se non ci riesce, tanto peggio per lui o per lei: finirà nella vasta schiera dei perdenti, ai quali i vincitori, certi di aver meritato la propria vittoria quanto i primi hanno meritato la sconfitta, destineranno compassionevolmente qualche modesto sussidio.

In questa prospettiva spietata, lo stato sociale viene naturalmente presentato come un costoso aiuto prestato a individui che di fatto non ne avrebbero diritto.

I fattori materiali della crisi dello stato sociale vanno visti anzitutto nell’aumento dei costi di produzione e riproduzione - biologica, sociale e culturale - dell’essere umano al livello di civiltà che abbiamo raggiunto. Far studiare i figli per vent’anni, dalla materna all’università, costa molto di più che non metterli al lavoro appena finita la scuola dell’obbligo. I progressi della medicina e della chirurgia continuano a migliorare la durata e la qualità della nostra vita, ma richiedono infrastrutture e tecnologie sempre più costose.

Le persone non muoiono opportunamente poco dopo essere andate in pensione, come accadeva quando Bismarck - altro antenato di destra dello stato sociale - introdusse uno dei primi sistemi previdenziali obbligatori. Vivono in media circa vent’anni dopo il collocamento a riposo, e le casse degli enti pensionistici ne soffrono. Anche se non affatto nella misura che i neo-conservatori sono usi denunciare, al fine di forzare riforme delle pensioni di fatto ben poco attinenti ai problemi reali del sistema previdenziale, com’è appena avvenuto in Italia.

Un altro fattore che pesa sulla struttura tradizionale dello stato sociale è la diffusione del lavoro discontinuo, flessibile, precario, che si osserva nel nostro come in altri paesi. Da ciò nasce una preoccupante forbice: i bisogni di protezione e di tutele di vario ordine che lo stato sociale ha per vocazione di assicurare aumentano, mentre diminuiscono i contributi che i lavoratori versano per alimentare il suo bilancio.

Questi diversi fattori portano a dire che la copertura dei costi dell’uomo assicurata dallo stato sociale va oggi cercata anche per altre vie. Se, ad esempio, il reddito da lavoro è discontinuo, e quindi minore, per un numero crescente di persone, bisognerà trovare nuovi modi per integrare il finanziamento dei costi della sanità, della maternità, della previdenza, del sostegno economico da erogare alle persone nei periodi di non lavoro.

Quel che occorre in ogni caso difendere è la concezione stessa alla base dello stato sociale: i costi dell’essere umano sono così elevati, così imprevedibili per ogni persona, così negativi per le famiglie e per la società quando non si riesce a coprirli, da richiedere che la responsabilità di sopportarli sia assunta dalla collettività, ovvero dallo stato, come uno degli scopi più alti della politica, anziché essere accollata senza remore né mediazioni al singolo individuo.

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