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Lucia Tozzi
Il futuro dello spazio condiviso
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
L’urbanistica vista dagli artisti: i risultati di una ricerca della Fondazione Olivetti sull’arte nello spazio pubblico in Europa. Dal il manifesto del 14 luglio 2005 (l.t.)

Dall’inizio degli anni Novanta l’interesse per lo spazio pubblico ha cominciato a trascendere il campo dell’urbanistica e dell’architettura coinvolgendo filosofi, sociologi, storici, artisti. Benché in questi anni molti piani di rinnovamento urbano siano stati impostati sulla creazione di nuovi spazi pubblici, in generale l’evoluzione della città contemporanea è caratterizzata dal fenomeno opposto: espansionismo delle strutture commerciali e politiche di sicurezza urbana sempre più invadenti.

Ma esiste un’idea comune di spazio pubblico da difendere? A giudicare dai risultati di Trans:it. Moving Culture through Europe, un’indagine triennale sulle pratiche artistiche europee legate al territorio che Bartolomeo Pietromarchi ha condotto per la fondazione Olivetti, si direbbe proprio di no. La documentazione di questa ricerca, esposta fino al 10 luglio a Venezia nella mostra Nowhere Europe (nella sede del Laboratorio Scientifico della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Veneziano alla Misericordia) e pubblicata nel catalogo Il luogo [non] comune. Arte, spazio pubblico ed estetica urbana (Fondazione Adriano Olivetti e Actar, 2005), rivela come lo stesso termine pubblico ispiri diffidenza agli artisti e intellettuali coinvolti, specialmente se provenienti dai paesi mediterranei o ex-socialisti. Secondo Iara Boubnova, direttrice dell’Istituto per l’Arte Contemporanea di Sofia, «pubblico spesso si riferisce a proprietà statale o a urbano piuttosto che a condiviso», mentre il critico Erdan Kosova sostiene che in Turchia «non si può dividere lo spazio sociale nelle due categorie astratte di spazio pubblico e privato», perché i luoghi pubblici vengono percepiti come rigidamente normati, e quelli privati appartengono alla famiglia – e quindi ancora a una dimensione comunitaria.

L’oggetto della ricognizione europea di Pietromarchi, organizzata in tre itinerari (Parigi-Rotterdam-Amsterdam-Roma; Berlino-Bucarest-Sofia-Belgrado; Istanbul-Cipro-Atene), è dunque uno «spazio delle relazioni» che non ha più nessuna connotazione fisica definita: non si tratta necessariamente della strada o della piazza, ma di un luogo condiviso che può essere istituito nelle case private, nei caffè o nei campi nomadi, a seconda del senso che una determinata cultura gli attribuisce. In quest’ottica relativista il progetto del collettivo Oda Projesi – che nel 1997 ha affittato un appartamento a Istanbul nel quartiere Galata per offrire alla gente uno spazio flessibile, privato e pubblico allo stesso tempo, in cui mangiare, ritrovarsi o svolgere attività artistiche – sta sullo stesso piano dell’«architettura oppositiva» teorizzata dalla rivista berlinese An Architektur-Production and Use of the Built Environment, che si ispira al pensiero di Henri Lefebvre e che elabora interventi politici diretti contro l’uso capitalistico dello spazio urbano.

Corviale, Roma

Tra gli artisti coinvolti molti sono architetti o lo sono stati – come Socrates Stratis di Cipro, il gruppo Škart di Belgrado, Osservatorio Nomade di Roma nato dal gruppo Stalker, il collettivo Urban Void di Atene – ma tutti nutrono una completa sfiducia nella possibilità che delle soluzioni spaziali a scala urbana possano contribuire a migliorare la vita delle persone. L’idea di un’urbanistica democratica, generalmente liquidata frettolosamente come un patetico revival di utopie urbane fallite quarant’anni fa, viene qui considerata improponibile perché ritenuta troppo «istituzionale» e «universalistica». Gli obbiettivi della loro ricerca sono, invece, la documentazione delle istanze identitarie legate al territorio delle comunità nomadi o stanziali e l’individuazione dei desideri e delle esigenze dei membri di questi gruppi. Se alcuni si limitano all’analisi o al racconto delle storie e delle situazioni con cui sono venuti a contatto, altri producono delle «utopie realizzabili», fornendo servizi – come la cisterna dell’acqua costruita nel 2003 da Matej Bejenaru nel centro di Tirana, dove metà della popolazione non aveva accesso all’acqua – oppure progettando la trasformazione dei luoghi a stretto contatto con gli abitanti. Un esempio di questa tipologia di intervento è l’operazione imbastita dalla Fondazione Olivetti insieme a Osservatorio Nomade al Corviale, il lunghissimo edificio costruito negli anni Settanta da Mario Fiorentino alla periferia di Roma, che ha mirato non solo a riqualificare la struttura fisica del quartiere, ma anche a ribaltarne l’immagine di archetipo del degrado urbano che opprime i suoi abitanti.

Il desiderio di agire «dal basso», comune alla quasi totalità dell’arte politica contemporanea dall’America del Sud alla Russia, è in parte l’effetto di una diffusione in questo ambiente di quello che ormai potrebbe essere definito il pensiero unico (e soprattutto il lessico unico) deleuziano: non si fa che parlare di rizoma, nomadismo, micropolitica, Corpo senza Organi. Al di là del rischio di trasformare un pensiero critico in un dizionario dei luoghi comuni, il limite più evidente di questo genere di attivismo artistico è che i suoi interventi appaiono esoterici a chiunque non ne sia capillarmente informato, circostanza che nuoce non poco proprio alla sua dimensione pubblica.

D’altra parte è stato lo stesso lunghissimo dibattito teorico sull’arte pubblica e la site-specificity, che ha avuto come epicentro soprattutto gli Stati Uniti, a fare evolvere le cose in questo modo. Una volta posto il problema della legittimità politica, per l’artista e i committenti istituzionali, di situare un oggetto in un luogo pubblico, o di modificare lo spazio a fini estetici senza consultare la gente che avrebbe dovuto subirne le conseguenze, l’arte pubblica si è trovata nella necessità di orientare le sue pratiche nella direzione dei suoi veri committenti: i cittadini.

In realtà l’estetica urbana continua per lo più a essere alimentata dall’arte pubblica tradizionale e, nei casi migliori, sono le amministrazioni con una buona politica urbanistica a difendere lo spazio pubblico.

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