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Carla Ravaioli
Una lingua al femminile
3 Giugno 2005
Carla Ravaioli
Nella sua plasticità di organismo vivo...

Nella sua plasticità di organismo vivo, il linguaggio via via recepisce il mutamento culturale e sociale, e più o meno rapidamente e felicemente vi si adegua. Ma quando il mutamento si verifica con dirompente celerità, con una magnitudo da investire mezza umanità e indirettamente l’altra mezza, e con una forza d’urto da rimettere in causa la storia intera, come è stato ed è il caso della rivoluzione femminile, spesso nascono dei mostri.

Penso a “vigilessa”, “soldatessa”, “presidentessa”, “deputatessa” (e così via all’infinito, essendo la desinenza “essa” una delle modalità più diffuse nella nostra lingua per la femminilizzazione di un sostantivo maschile). Parole che non sono soltanto degli orrendi neologismi, ma rispondono poco e male a quella valorizzazione del femminile che vorrebbero significare. E in più sono anche dei veri e propri errori di grammatica.

I linguaggi – lo sappiamo benissimo – sono materia che i femminismi di tutto il mondo hanno fatto oggetto di ampie e approfondite analisi, sovente assai pregevoli. Sottolineandone forme modi snodi per cui tutti si pongono come infallibili evidenziatori dello storico prevalere del maschile sul femminile. Non dico nulla di nuovo dunque se noto che: 1) le quattro parole prese ad esempio riguardano tutte una funzione di qualche autorità e potere tradizionalmente esercitata solo da uomini; 2) che la stessa modifica verbale non si applica ad attività fin dall’antico praticate anche da donne: e infatti si dice “sarta” e non “sartessa”, “maestra” e non “maestressa”, mentre si dice “professoressa” e non “professora”, appena si va oltre l’insegnamento elementare; 3) che dunque mediante la desinenza “essa” la funzione in versione femminile viene sottolineata nel suo derivare dal maschile, in un venir dopo che è anche una diminuzione.

Ma, dicevo, tutte le parole in questione sono degli errori. Dunque, “vigilessa” è una donna che svolge attività di soveglianza urbana, quale è appunto affidata al corpo dei vigili. Ma “vigile”, nel senso di incaricato di “vigilare” sulla vita cittadina, è un aggettivo sostantivato, che pertanto come un aggettivo si declina, e come tutti gli aggettivi terminanti in “e” è uguale al maschile e al femminile. Nessuno direbbe infatti “la vigilessa madre”, “la vigilessa infermiera”, o che altro. Perché dunque non dire “la vigile”, “una vigile”, anche quando la parola non si riferisce a una qualità ma a una funzione, applicandosi a una donna che indossa una divisa e dirige il traffico? Perché accettare una forma che recepisce il fatto nuovo (ci sono donne-vigili che in passato non ‘erano) ma, nel senso implicito e nello stesso suono, ne suggerisce una valutazione per lo meno ambigua? Oltre tutto commettendo un errore di grammatica?

E perché inventarsi una “presidentessa”, quando “presidente” non è (con le piccole varianti che quasi sempre la parola subisce nell’uso di secoli) che un participio presente del verbo “presiedere”, e come ogni participio presente è uguale al maschile e al femminile, per cui l’articolo “il” o “la” basta a precisare il genere? Analoga considerazione vale per “soldatessa”, “soldato” essendo participio passato del verbo “assoldare”, che in quanto tale si declina come un aggettivo e perciò, secondo grammatica, al femminile diventa “soldata”. Così come “deputato”, participio passato di “deputare”, non può che femminilizzarsi in “deputata”: forma che per la verità si va facendo strada, ancora però tra una gran folla di “deputatesse”, spesso così nominate anche dalle bocche più colte e dai migliori giornali.

Ma c’è un altro aspetto della materia che forse merita qualche riflessione. Tutti i femminismi si sono impegnati con rabbia e determinazione a denunciare nei linguaggi le forme più vistosamente offensive e discriminanti per le donne, e possibilmente a cancellarle. Ma non sempre uguale coerenza ha sostenuto la politica di “sessualizzazione” della lingua, che a volte nel desiderio di sottolineare la “differenza” ha indotto, o accettato, l’uso di morfologie con tutta evidenza indicative del femminile come sesso “secondo”.

Mi dicono che in un recente convegno alla Casa delle donne si sono sollevate domande sull’utilità di sessualizzare la lingua. La questione non è gratuita. Perché indubbiamente la denuncia del sessimo dei linguaggi ha avuto senso e funzione nella battaglia femminista, per la più perspicua messa a fuoco di una cultura tutta e da sempre segnata dalla disparità del rapporto tra i sessi. Non so però quanto serva l’impegno a incidere programmaticamente sulle forme verbali, e quanto positiva ne sia la ricaduta sul loro uso quotidiano, dove in realtà la confusione è massima. Basta dare uno sguardo ai giornali, sui quali da un lato abbondano vigilesse soldatesse ecc, dall’altro puntualmente si legge “dal nostro inviato Maria Qualchecosa”, “il deputato Maria Qualchecosa”, “il sottosegretario Maria Qualchecosa”, ecc., senza del resto che le interessate ci trovino nulla da ridire. E d’altronde sulle loro tessere, esattamente come su quelle dei loro colleghi, sta scritto “Deputato al Parlamento”, “Senatore della Repubblica”, “Sottosegretario di Stato”, ecc.

Il linguaggio ha inerzie e vischiosità che resistono al mutamento più tenacemente della società stessa. Come accennavo sopra, in presenza di mutamenti di sconvolgente radicalità, spesso la lingua rifiuta di nominarli e perciò stesso di legittimarli; e in tal modo di fatto impedisce che il mutamento stesso venga pensato, e dunque esista. Oppure lo nomina, ma nei modi di una tradizione culturale riluttante a recepirlo e riconoscerlo, cioè (vedi gli esempi citati) secondo una implicita valutazione ironica o decisamente negativa: una Presidentessa non potrà mai valere quanto un Presidente, perbacco! Verba sunt consequentia rerum, dicevano i nostri antenati. Non esistono parole per dire cose che non esistono, o che (ed è praticamente lo stesso) l’ordine sociale-culturale-simbolico di cui il linguaggio è espressione tende a ignorare.

Insomma come rispondere alla domanda: vale la pena di sessualizzare la lingua? Non è facile. Perché ogni iniziativa del genere ha sempre un suo valore di disvelamento e accusa, costituisce sempre un piccolo apporto alla grande battaglia. Più difficile che approdi a risultati concreti di qualche rilievo e utilità immediata. Tutti ormai si sentono tenuti a dire “uomini e donne” invece che solo “uomini”, e forse si riuscirà a ottenere che tutti dicano “sindaca” o “ministra”. Ma quando si potrà dire (se mai si potrà) “i bambini e le bambine sono belle”, e non “sono belli”, come a tutti/e insegna la vita prima che la scuola?

Domanda non facile, dicevo. Infatti non ho risposto. Scusatemi.

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