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Merlo, e poi Donati, Benedetto, Virano, Bevilacqua. Il ponte sullo Stretto è di sinistra?
26 Marzo 2004
Il Ponte sullo Stretto
Su Repubblica del 1 ottobre 2003 Francesco Merlo ha scritto un singolare articolo, sostenendo (con argomenti per la verità molto buffi) che il Ponte sullo Stretto di Messina “è di sinistra”, e che la sinistra lo ha finalmente compreso; testimonianza di ciò, un numero di meridiana, la rivista diretta da Piero Bevilacqua, che avrebbe inneggiato alla Grande Opera. L’articolo ha sollevato qualche polemica, sulle pagine del medesimo quotidiano ; ne pubblico tutti gli scritti, con una mia breve premessa.

Non ho ancora letto Meridiana, e mi riservo di farlo e di pubblicare alcuni degli interventi lì pubblicati. Vorrei subito fare due osservazioni.

La prima. Nella sinistra italiana c’è sempre stato chi ha visto con favore il Pontone. Questo atteggiamento è certo collegato con le simpatie ottocentesche che ancora in essa albergano: le Grandi Opere come simbolo delle “magnifiche sorti e progressive”, l’illusione che le Grandi Infrastrutture possano risolvere i problemi del territorio, per non parlare della propensione a privilegiare l’occupazione coute qui coute.

La seconda. Chi attribuisce mitiche funzioni strategiche a una Sicilia finalmente collegata al continente da un ponte, come mai non ha mai pensato ad attribuire quelle funzioni alla Calabria?

Francesco Merlo

Se la sinistra scopre che il Ponte è di sinistra

FOSSE pure vero che non c´è convenienza economica, il Ponte sullo Stretto di Messina andrebbe comunque costruito, senza arroganza verso le ragioni dei ragionieri ma con un filo d´ironia, visto che nessuno ha fatto i conteggi alla Torre Eiffel o alla Statua della Libertà ma tutti capiscono che senza Torre e senza Statua a Parigi e a New York ci sentiremmo persi. Solo grazie ai simboli infatti uno spazio dove ci smarriamo diventa un luogo nel quale ci ritroviamo. Non è insomma per ragioneria che si fanno i ponti, ma per ridurre le distanze. Anche in bocca, tra due denti, si fa un ponte. Tra due feste si fa un ponte. Si fanno ponti per i sospiri, e persino il ballerino di Lucio Dalla «balla su una tavola tra due montagne». Non c´è civiltà che non sia stata edificata attraverso i ponti, non c´è bellezza di città senza ponti, negli Usa come in Portogallo, in Svezia come in Francia, in Scozia come in Australia e in Giappone. Del resto chi fa ponti, in qualche misura diventa pure papa, pontifex, pontefice. Si fanno ponti anche come sberleffo alla natura, quella dei terremoti e quella dei vulcani, e si fanno ponti per dare ordine e bellezza al paesaggio che non è fatto di mitili e di mostri omerici, ma è fatto dagli uomini e dai loro progetti, perché nessun uomo ha mai visto la Terra senza gli uomini. Il Ponte insomma è bello, ed è sempre e comunque sviluppo, è progresso, è darsi la mano, è il binario per il pendolino e per l´Eurostar che si sono fermati a Eboli, è l´adeguamento delle autostrade al flusso di automobili e di camion. Il Ponte sconvolge l´arretratezza del sistema viario perché accelera e parifica. E anche con i bilanci in rosso, il Ponte sarebbe comunque ricchezza, risorse, opportunità straordinarie, nuovi posti di lavoro. Alla fine insomma questo Ponte sullo Stretto è l´opera più bella e più avanzata che l´Italia possa realizzare, è un risarcimento al nostro Sud, ed è - deve essere - un´operazione laico simbolica keynesiana, la fine di un handicap, la fusione di Messina e Reggio nella Città dello Stretto, come una nuova Costantinopoli. Perciò il Ponte è di sinistra, anzi è quanto più di sinistra si possa fare (non dire, ma fare) oggi in Italia.

E infatti, a sorpresa, la sinistra meridionalista sta riscoprendo le ragioni del Ponte sullo Stretto e, senza troppa timidezza, avanzando per riviste e per convegni, si fa ponte verso il Ponte di Berlusconi, vorrebbe spingerlo a passare dal virtuale al reale, posare insieme con lui quella prima pietra prevista nel prossimo mese di maggio, e magari pure sfilargliela di mano, perché i ponti si possono anche discutere, ma poi, alla fine, si fanno, e mai per ragioni contabili, visto che nessuno le ha mai applicate al Ponte di Brooklyn, e si viaggia magnificamente dentro il tunnel che attraversa la Manica, malgrado i bilanci siano ancora drammaticamente in rosso.

Torna dunque il Ponte di sinistra o, meglio, la sinistra del Ponte, proprio quando il più grandioso progetto del governo Berlusconi, il più meridionalista dei suoi progetti, maltrattato dalla burocrazia di Bruxelles, rischia di rivelarsi, già nei prossimi vertici europei della prima metà d´ottobre, un ponte di sabbia o meglio un ponte di carta. Aggredito dall´arcaismo retorico del più candido, ingenuo e peggiore ambientalismo, e trascurato dallo stesso Berlusconi che lo ha usato come strumento propagandistico, uno dei suoi tanti belletti, il Ponte è infatti, come tutte le trovate berlusconiane, un´impresa, ma solo nella dimensione virtuale e mediatica, la dimensione dell´inesistenza. E però l´impresa, perfetta per simulazioni, prove e controprove, disegni, grafici e colonne sonore, non può diventare reale senza gli attrezzi politici e culturali, la voglia di potenziare il territorio, e il rischio degli imprenditori privati che, sia pure con il sollievo dei crediti agevolati della Banca Europea (Bei), dovrebbero affrontare il 60 per cento di un investimento che si avvicina ai 6 miliardi di euro. Ed è inutile cercare un punto mediano tra la virtualità catastrofista della sinistra economicista che prevede, testualmente, "un Ponte frequentato solo dai gabbiani" e la virtualità berlusconiana che lo immagina come "una macchina per soldi" capace di "risolvere i più grandi problemi del Mezzogiorno". Opposte previsioni di spesa si fronteggiano sugli spalti dei giornali avversari, ma sono dati che non andrebbero contrapposti ma invece giustapposti. I vantaggi infatti non andrebbero assolutizzati e gli svantaggi non andrebbero drammatizzati. Bisognerebbe lavorare per ridurre l´area degli svantaggi e accrescere quella dei vantaggi. Questa è la politica.

Ebbene, che la politica, la cultura politica di sinistra, voglia riscoprire il Ponte, aprirsi, articolarsi e magari da subito riprendersi quel Ponte che aveva fatto sognare i suoi migliori meridionalisti, che la sinistra voglia infilarsi nel progetto Ponte, lo si scopre con gioia leggendo il numero 41 della rivista del neomeridionalismo di sinistra, che si chiama appunto Meridiana e che al Ponte è interamente e variamente dedicata, con un bellissimo saggio introduttivo di Lea D´Antone. Con l´idea dinamica, non scontata, che non esiste il Mezzogiorno ma esistono i Mezzogiorni, dove non tutto è sempre e comunque arretrato, la rivista è marcata Donzelli, editore di tutto rispetto e rivista-manifesto degli storici meridionalisti cinquantenni in cerca del simbolo di una generazione.

E difatti leggendola si capisce bene come il Ponte sullo Stretto possa rappresentare, finalmente meglio e più del terrorismo, il simbolo della generazione del Sessantotto. Sono infatti loro che lo vogliono; siamo noi che, giunti alla maturità, vogliamo i ponti mentre prima volevamo dittature e bardature, chiusure e costruzioni anti. Il Ponte per la sinistra italiana potrebbe significare dunque anche il giro di volta della maturità, perché questa generazione del Sessantotto è ancora alla ricerca del suo simbolo, e il ponte è la conclusione logica di quel percorso, di quell´avventura fatta tutta per rottura di ponti.

E la mafia? A Palermo non ci sono ponti, la mafia non è nata né sopra né sotto i ponti. Certo, la mafia c´è e qualsiasi grande investimento corre il rischio della mafia. Ma forse, contro la mafia, non bisogna più investire nel Sud? E non sarebbe, il rinunciare al progresso e allo sviluppo per paura della mafia, la maniera più vile di arrendersi alla mafia? Per alcuni la mafia cresce nella povertà e nel sottosviluppo, per altri nella ricchezza e nello sviluppo, c´è chi la lega al grano e alla terra arida, chi all´arancia e all´acqua. A Gela la mafia è arrivata con l´industria ma a Villalba, Mistretta, Montelepre, Corleone non c´è mai stata industria. La verità è che la mafia si combatte con polizia e magistratura, con la pazienza, l´eroismo e il rischio d´impresa che è fatto di innovazione e dunque anche di ponti. I testi di Morale ci insegnano del resto che l´angoscia d´esser nati può diventare forza criminale quando va verso la disoccupazione, o forza propositiva, ergon, quando va verso il lavoro.

Infine, e di nuovo, Berlusconi. Si può volere il Ponte che vuole Berlusconi e cominciare a farlo insieme a lui. È questo il solo modo per sottrarlo alla sua ormai proverbiale e furba dabbenaggine, il modo per introdurre garanzie, rapporti con il sindacato, e alla fine fare del progetto Ponte un Parlamento con maggioranza e minoranza, prendere il controllo di una grandiosa operazione che non è solo economica e deve essere gestita da tutta la cultura politica italiana, perché riguarda tutta l´Italia, la simboleggia tutta, Ponte tra le due Italie, tra le due culture, tra le due esigenze. Il Ponte che, come la rivista di Piero Calamandrei, unifica senza confondere, e addirittura rinsalda le identità perché le fa diventare identità aperte contro le identità chiuse che ti fanno orgoglioso e spocchioso, ma non ti portano da nessuna parte.

Ecco: il Ponte, per la sinistra, è anche un ponte contro la spocchia, contro la sicumera, contro il complesso di inferiorità coperto di muscoli, il Ponte al posto dei baffi di ferro e dei girotondi, il Ponte per non smarrirsi nello spazio astratto dell´ideologia, nell´Italia-manicomio che, pur di fare un´altra pernacchia a Berlusconi, vorrebbe volare da Scilla a Cariddi con la liana e l´urlo di Tarzan.

Diciamo no al ponte sullo Stretto

Sen. Anna Donati, Capogruppo Verdi

Nel suo provocatorio articolo Francesco Merlo scrive che il "Ponte sullo Stretto di Messina è l'opera più bella ed avanzata che l'Italia possa realizzare, anche se non è conveniente e se non serve, perché è un simbolo, un monumento, il riscatto del Mezzogiorno". Carente solo in un punto: non evoca l'eros, della serie "il mio è più lungo del tuo", implicito nel progetto, che avrebbe aggiunto intima suggestione all'opera. Ma passando dall'articolo alla realtà: il ponte non ha flussi di traffico sufficienti (e quindi unisce poco), lascia un pesante segno sul territorio (e quindi distrugge identità) e costituisce una modesta sfida tecnologica per il nostro tempo. Sarà interamente pagato dai cittadini e soprattutto dalle generazioni future, che si troveranno un pesante debito nel bilancio dello Stato. Peccato che costi solo 6 miliardi euro che potrebbero essere meglio impiegati per realizzare strade, ferrovie, ospedali, reti idriche e riqualificazione delle città di cui il Mezzogiorno ha urgente bisogno. E magari rinunciare al condono edilizio previsto dal governo Berlusconi per fare cassa e realizzare anche le opere strategiche come il ponte tra Scilla e Cariddi. Il ponte è un monumento simbolo troppo caro e per la generazione del '68 sarebbe utile identificarne uno più economico e suggestivo, magari aprendo un concorso d'idee. C'è però un argomento stimolante che Merlo evoca: come si lascia nel terzo millennio, in un paese come l'Italia, pieno di simboli veri, d'opere d'arte, di città uniche al mondo, un'opera del costruito, un segno per la memoria e d'identità del presente. Apriamo una discussione anche su questo.

Non è un simboloè un'opera in perdita

Gaetano Benedetto, Segr. Agg. Wwf

Ormai è chiaro: il ponte sullo stretto di Messina, se mai sarà, verrà realizzato in perdita con soldi pubblici. Il numero dei transiti, anche nelle migliori ipotesi, non consentirà infatti di rientrare degli investimenti. Altrettanto chiaro è che il progetto presentato è un colabrodo e purtroppo sarà la giustizia (che verrà chiamata in causa dagli ambientalisti e non solo) a stabilire se le procedure seguite nella valutazione ambientale e socioeconomica corrispondono a quanto previsto dalla legge. Merlo ripropone il ponte quale simbolo. Ma non si sta realizzando il ponte quale monumento a futura memoria, e proprio perché non è un monumento, ma dovrebbe essere un'opera funzionale alla mobilità del paese, i miliardi d'euro previsti (di certo sottostimati) devono esser valutati rispetto al calcolo costi/benefici della comunità nazionale. Anche considerando una radicale riorganizzazione portuale con la realizzazione di nuove infrastrutture, il ponte rimane comunque un'opera in perdita, la cui costruzione poteva essere motivato solo dalla necessità di realizzare un opera "manifesto", un'opera cioè "simbolo". Il Paese ha questa necessità? E soprattutto, sono questi i simboli di cui oggi abbiamo bisogno? Prescindiamo dunque dai soldi, dalle tecniche costruttive, dai problemi geofisici, prescindiamo da tutto: come sostenere che il ponte non sia uno sfregio in un luogo del mito qual è quello di Scilla e Cariddi? Come non pensare che l'identità di un'isola, qual è la Sicilia, sia proprio nel suo esser isola? Il nostro è certamente un Paese che ha bisogno sia d'opere pubbliche utili che di simboli positivi. Basta intendersi su quali questi siano e debbano essere. Crediamo che le grandi opere pubbliche di cui il nostro Paese ha bisogno siano in realtà una miriade di piccole opere che ricostruiscano la trama d'un territorio massacrato da incultura e malgoverno, che rendano efficienti i sistemi e le reti di servizio esistenti, a cominciare da acquedotti, elettrodotti, ferrovie, strade.

Il Ponte, tabù e sfidedel centrosinistra

Mario Virano, Consiglio amministrazione Anas

L'articolo di Francesco Merlo sulla riscoperta del Ponte come opera "di sinistra" è chiaramente un paradosso sui tabù della cultura progressista e una metafora delle questioni contraddittorie di cui la politica neo keynesiana dell'Ulivo dovrebbe farsi carico per tornare a governare. Nelle prime reazioni "da sinistra" sembra prevalere l'effetto scandalo ma mai come in questo ca¬so vale il detto evangelico "oportet ut scandala evenient". Come uomo "di sinistra" e come amministratore Anas (azionista di peso della Società del Ponte sullo Stretto) vorrei racco¬gliere fino in fondo la provocazione di Merlo e considerare la questione del Ponte come cartina di tornasole fra i tre possibili scenari politici in cui l'opera si colloca: annunciare grande e fare piccolo; fare grande e pensare piccolo; pensare grande e fare conseguentemente. L'azione del governo pare oscillare fra i primi due, con una prevalenza del primo scenario incentrato sull'effetto-an¬nuncio; c'è però il rischio che si af¬fermi il secondo, e un'opera straor¬dinaria come il Ponte venga vista come un qualunque altro ponte, so¬lo più grande, più difficile e più co¬stoso. Questa sarebbe l'eventualità peggiore, perché richiederebbe enormi risorse per fare in grande ciò che si è concepito in piccolo cioè senza una strategia generale degna di questo nome. Infatti, se è vero che le grandi opere valgono anche per il loro valore simbolico, sarebbe im¬possibile motivare il Ponte solo in base all'obiettivo dell'integrazione piena del "mercato interno insula¬re" con quello "continentale". Altra cosa è invece la sfida del Ponte se si immagina la Sicilia come grande piattaforma logistica dell' Europa, protesa nel cuore del Mediterraneo. Il collegamento stradale e ferrovia¬rio attraverso il ponte significhereb¬be il prolungamento via terra di un molo continentale unico sulle rotte fra Suez e Gibilterra, offrendo al si¬stema Italia opportunità assoluta¬mente inedite nell'Europa a 25. Questa visione però comporta una contestuale soluzione dei colli di bottiglia dei valichi alpini, perché solo così, aprendo i collegamenti ferroviari e stradali verso il centro nord dell'Europa, il Ponte può tro¬vare una motivazione reale oltre i paradossi di Merlo. C'è la capacità di impostare un progetto unitario di questa portata con una conseguen¬te politica economica in grado di mobilitare le risorse pubbliche e private in grado di sostenerne l'at¬tuazione? Oggi nel centrodestra non mi pare di vedere questa capa¬cità; spero possa esserci in un cen¬trosinistra che abbandoni definiti¬vamente ogni logica del "piccolo è bello" per sposare la sfida del pen¬sare in grande operando conse¬guentemente.

Pareri sullo Stretto

nella rivista Meridiana

Piero Bevilacqua, Direttore "Meridiana"

L'articolo di Francesco Merlo del 1 ottobre contiene alcune ine¬sattezze e forzature su cui ho l'ob¬bligo di intervenire. Non è vero che Meridiana abbia sposato o perorato la causa della realizzazione di quel¬l'opera. Io ad esempio sono contra¬rio per più ragioni che per brevità non espongo. Ma tutto il numero in questione ha ospitato posizioni di¬verse, perché esso intendeva offrire ai lettori una pluralità di pareri, ana¬lisi, punti di vista, fondati su studi e meditate riflessioni. Questo è tanto vero che Mario Pirani, intervenen¬do su Repubblica all'uscita della ri¬vista, aveva potuto sottolineare e condividere la contrarietà di auto¬revoli studiosi a quell'opera. In realtà, in coerenza con la sua "filo¬sofia" e il suo stile, Meridiana aveva tentato di porre il problema ponte il più possibile al centro di un esame spassionato e complesso e al riparo dalle vulgate ideologiche. Constato che, almeno su quest'ultimo punto, abbiamo fallito lo scopo.

Il numero 41 della rivista Meridia¬na è presentato dall'editore Carmi¬ne Donzelli. L'apertura della discus¬sione, e quindi il tono e il senso della monografia, sono cadenzati dal sag¬gio introduttivo della professoressa Lea D'Antone, che spiega le ragioni storiche e attuali della necessità del Ponte. Ovviamente la rivista ospita, e io l'ho scritto nel mio articolo, altri interventi che, come sempre in que¬sti casi, rafforzano il saggio a cui fan¬no da contorno e dunque forzano - loro non io - la piega del discorso. Del felice risultato complessivo ho già scritto, e Carmine Donzelli me ne è garbatamente grato. Adesso ap¬prendo con interesse che il professo¬re Bevilacqua è contrario al Ponte. Chieda a Donzelli di finanziare un altro numero per argomentare le sue ragioni. (f. mer.)

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