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Tomaso Montanari
I musei non si chiudono: manca solo la carta igienica
11 Ottobre 2012
Beni culturali
L'indignazione, argomentata, per la grottesca situazione del nostro patrimonio che il Mibac cerca di coprire. Colpevolmente. Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2012 (m.p.g.)

Quando parlo con i miei colleghi universitari francesi o americani dei ‘tagli alla cultura’ italiani, la domanda più ricorrente è: «cosa hanno chiuso?». E qui la faccenda si fa particolarmente penosa, perché si tratta di spiegare loro che l’ipocrisia italica non permette quasi mai di sopprimere davvero qualcosa – sarebbe quasi meglio, paradossalmente –, ma costringe tutti a vivere largamente al di sotto della soglia minima di dignità.

Non si chiudono i musei: no, ma nei bagni non c’è la carta igienica, dai soffitti piove sui quadri, le sale sono aperte a rotazione. E il direttore degli Uffizi guadagna 1800 euro al mese (contro gli 8100 dello stipendio base di Franco Fiorito).

Non si sopprimono le soprintendenze: ma i pochi storici dell’arte e gli archeologi rimasti in servizio in organici ridotti all’osso, non possono usare la macchina di servizio (né farsi rimborsare la benzina o le spese del telefono) nemmeno per fare i sopralluoghi sui monumenti colpiti dal terremoto. E i carabinieri del Nucleo di tutela non possono pagarsi i viaggi per le rogatorie internazionali che consentono di recuperare le opere o i libri rubati.

Non si chiudono gli archivi o le biblioteche: ma se si guastano (succede ogni giorno) i montacarichi che servono a distribuire il pesante materiale cartaceo, non è possibile consegnare i pezzi agli studiosi. E d’inverno non si può accendere il riscaldamento, né d’estate l’aria condizionata: d’altra parte, lo studio non deve forse essere matto e disperatissimo?

Non si eliminano gli enti culturali: ma la prestigiosissima Scuola Archeologica Italiana di Atene è decimata nel personale, ed è costretta da anni ad una indecorosa economia di guerra; l’Accademia della Crusca si aggira ogni anni col cappello in mano; la Società di Storia Patria di Napoli (che possiede la più importante biblioteca sul Meridione) è sull’orlo del fallimento.

Non si chiudono le scuole, ma non ci possiamo permettere gli insegnanti di sostegno, la carta (di qualunque tipo) si porta da casa, e gli autobus per portare i bambini a conoscere le loro città non esistono quasi più.

Non si ha il coraggio di dire che l’università italiana non deve più fare ricerca (per trasformarsi anche ufficialmente in un esamificio e in un concorsificio truccato), ma l’ultimo finanziamento per la ricerca che la mia università mi ha erogato ammonta a 600 euro annui. E l’ho ceduto, come altri colleghi, al dipartimento: in una sorta di colletta che potesse portare ad avere qualche assegno di ricerca per non far scappare all’estero proprio tutti i giovani studiosi più meritevoli.

A questo punto del discorso, qualcuno tira invariabilmente fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi». Ma il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza. Una beneficenza che non è a costo zero, visto che – per quanto riguarda, per esempio il patrimonio culturale – si traduce in iniziative contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza. Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono infatti tutti all’insegna del mercato, e producono non cittadini, ma clienti: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. Del resto, l’opzione alternativa è spesso ancora peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.

Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, o che il Palazzo della Regione Lombardia ce n’è costato 400, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po’ difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.

Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna sotto una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.

1. Ministero per i Beni e le attività culturali. Nel luglio del 2008 Sandro Bondi subisce passivamente un taglio da 1 miliardo e 300 milioni di euro. Il Mibac non si riprenderà più: per l’anno prossimo Ornaghi annuncia sereno altri 50 milioni di tagli. Morale: la Pinacoteca di Varallo questo inverno non riaprirà; a Brera fino a ieri non c’erano i soldi per riparare i lucernari; a Capodimonte piove sui quadri; a Pompei non si assumono manutentori: e le case romane, si sfarinano.

Ora il governo Monti, con la spending review, per risparmiare 10.000 euro l’anno taglia i comitati tecnico-scientifici, gettando il patrimonio tra le braccia della burocrazia ministeriale. Ma anche le famose Regioni tagliano: nel 2013 la colta Toscana sottrarrà 1 milione e 750 mila euro all’istruzione, due milioni alla cultura.

2. I tagli al Mibac non riguardano ‘solo’ i musei e i siti monumentali, ma anche gli archivi e le biblioteche. A Firenze l’Archivio di Stato non può più climatizzare i depositi: con 36 gradi e un’umidità fuori controllo la memoria storica del paese è a rischio. A Napoli i 300.000 volumi dell’Istituto di studi filosofici non trovano una sede: basterebbe metà di quel che Fiorito è accusato di aver intascato.

3. A Siena chiude il Santa Maria della Scala, fiore all’occhiello del sistema museale cittadino. La crisi del Comune (commissariato) sembra mettere fine ad una delle esperienze culturali più promettenti d’Italia.

4. L’Istituto Centrale per i beni sonori e audovisivi di Roma (la cosiddetta Discoteca di Stato), cioè la memoria sonora del Paese, spacciata dalla Spending review a luglio, è stata salvata in corner dall’insurrezione dei cittadini. Sul sito, un avviso tuttora ringrazia «quanti hanno testimoniato la loro solidarietà e partecipazione». Ve lo immaginate sul sito di un ente pubblico francese, o tedesco?

5. Il mondo dell’arte contemporanea è in ginocchio: i tagli sono del 33%. Il Madre di Napoli è in smontaggio, il Maxxi è commissariato, il Castello di Rivoli si trascina grazie a bilanci provvisori bimestrali, e la Quadriennale di Roma non si terrà per la prima volta dal 1927.

6. Il terremoto in Emilia, Lombardia e Veneto: non ci sono soldi per i monumenti danneggiati. Un esempio? Per il Palazzo Ducale di Mantova ci vogliono 5 milioni di euro, e ne sono arrivati 300.000 mila. Alla faccia di Mantegna. Il centro dell’Aquila, d’altra parte, aspetta da oltre tre anni, ed è ridotto ad una quinta da Cinecittà.

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