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Perdiamo terreno
21 Agosto 2012
Consumo di suolo
Nell’inchiesta di Salari e il commento di Cianciullo, l’analisi della situazione italiana sul consumo di suolo a partire dal dossier di WWF e Fai “Terra rubata”. repubblica on-line, 20 agosto 2012 (m.p.g.)

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Perdiamo terreno

Data di pubblicazione: 20.08.2012

Nell’inchiesta di Salari e il commento di Cianciullo, l’analisi della situazione italiana sul consumo di suolo a partire dal dossier di WWF e Fai “Terra rubata”. repubblica on-line, 20 agosto 2012 (m.p.g.)

Così stanno uccidendo l'Italia agricola. Quei 600 mila ettari rubati dal cemento

di Gabriele Salari

Una superficie artificializzata grande quanto il Friuli Venezia Giulia. Nonostante la stabilità demografica in 50 anni c'è stato un forte incremento del territorio urbanizzato: 8.500 ettari all'anno. Un aumento del 500% dal Dopoguerra ai primi anni Duemila. Siamo i primi produttori di cemento in Europa e il business alimenta anche la diffusione delle cave di calcare sui fianchi di colline e montagne.

Cinquecento per cento. Di tanto è aumentata la superficie impermeabilizzata dal cemento o dall’asfalto in Italia tra il 1956 e il 2001. Questo crescente consumo di suolo è avvenuto a prescindere dallo sviluppo economico o demografico. Il caso del Molise, la cui popolazione ha una consistenza numerica pressoché costante dal 1861, è significativo: la superficie urbanizzata è passata dai circa 2.316 ettari del 1956 ai 12.030 del 2002, con una variazione positiva quindi di circa 9.700 ettari, pari a un consumo giornaliero di circa mezzo ettaro. Lo stesso si può dire però per tutta l’Italia dove la stabilità demografica contraddistingue gli ultimi decenni, ma dove, tra il 1991 e il 2001, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari l’anno di territorio urbanizzato (il doppio della media europea) e l’Istat ben tre milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo, perso tra il 1990 e il 2005. Gli ultimi anni non sono serviti affatto a invertire questa tendenza.

L’allarme, lanciato da Fai e Wwf nel recente dossier “Terra Rubata”, arriva in un momento in cui a livello globale si riscontra la stessa tendenza. La Cina, ad esempio, cerca di accaparrarsi terreni agricoli in Africa per sopperire alle proprie necessità di produzione alimentare. È il suicidio dell’Italia agricola, giardino d’Europa, che ha rinnegato le proprie origini per inseguire l’industrializzazione e che ora, nell’epoca postindustriale, continua a disseminare il territorio di capannoni, invece di recuperare le aree dismesse ed evitare nuovo consumo di suolo.

In Italia è praticamente impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro senza incontrare un nucleo urbano, con tutto ciò che ne consegue, sia per l’isolamento dei francobolli di natura rimasti che, guardando le cose dal punto di vista opposto, quanto a difficoltà di individuazione di siti idonei per impianti come le discariche che dovrebbero sorgere lontano da un centro abitato.

La nostra economia incentrata sul Pil ha visto nel settore delle costruzioni un suo punto di forza e l’ultimo decennio non ha fatto eccezione, anzi: il 2007 è stato il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l’anno in cui i volumi produttivi hanno raggiunto i livelli più alti dal 1970 ad oggi.

Felici di coprire l’Italia di cemento quindi e pazienza se quel suolo è perso per sempre, non potrà più tornare ad essere suolo agricolo. In un’epoca in cui non si prevede crescita demografica e in cui il paesaggio è forse una delle risorse più importanti del Paese, una scelta poco sensata. Anche l’IMU, introdotta dal federalismo fiscale, si conferma come un introito per i Comuni ancora proporzionale in larga parte alla quantità di edifici senza, almeno per ora, vincoli particolari di utilizzazione e quindi del tutto analoga all’ICI negli effetti nefasti sulla trasformazione del suolo.

In uno studio che ha riguardato circa la metà del territorio italiano, si è visto che l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza dal Dopoguerra ai primi anni 2000, con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata pari quasi a quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.

Il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa, alimenta anche la diffusione delle cave di calcare per cementifici che infliggono pesanti ferite al paesaggio, visto che sorgono sui fianchi di colline e montagne, e risultano visibili a chilometri di distanza, assumendo il tipico aspetto di enormi cicatrici color bianco abbagliante. Eccezionale la situazione nel Casertano, con cave spesso fuorilegge a ridosso di centri abitati, come denuncia il dossier “Terra rubata”, che segnala come questo tipo di cave sia spesso in mano all’ecomafia.

La piaga dell’abusivismo edilizio nel Meridione amplifica a dismisura il fenomeno del consumo di suolo, sia in aree a forte vocazione agricola che in aree dove il buon senso (oltre che la legge Galasso) impedirebbe di costruire, come le pendici dei vulcani. Il Vesuvio è un caso emblematico anche perché a case e altri manufatti, si aggiunge la presenza di cave e discariche, a fronte di un territorio fertile in cui si coltivano diversi prodotti tipici.

Il sacrificio delle pianure dove costruire conviene

Gabriele Salari

Gli operatori immobiliari hanno meno vincoli urbanistici, edificare costa di meno e il diffondersi dei centri commerciali aiuta ad incentivare le lottizzazioni. La geografia dell'Italia è in rapido cambiamento: non più piccoli centri storici tra vigne e uliveti, ma campagne dentro le città. Degli effetti ce ne accorgiamo durante le alluvioni

Quasi il 60% delle aree urbanizzate è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione. Sono bastati alcuni decenni di crollo dell’agricoltura nelle più piccole pianure italiane per provocarne il sacrificio. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.

“La speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli ha generato spesso un intreccio tra costruttori e Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale” spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf Italia. “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Basti considerare che in un’area di fondovalle di Umbria o Marche i terreni ad alta vocazione agricola possono avere costi ad ettaro di 15.000 - 20.000 euro che salgono facilmente a 70.000 - 90.000 euro ad ettaro se il terreno diventa edificabile con un centro residenziale o commerciale che sostituisce i seminativi. O ancora, quanto può rendere di più un agrumeto della Costiera Amalfitana se invece che produrre il limone sfusato di Amalfi, il terreno viene impiegato come parcheggio dai turisti che affollano d’estate la località di mare?

Andando su e giù per lo Stivale si nota come si stia sfaldando il tessuto italiano fatto di piccoli centri storici immersi in orti e vigneti, campi e pascoli. I centri medioevali si svuotano di abitanti perché vengono considerati “scomodi” visto che spesso non si può posteggiare l’automobile sotto casa. Costruire su spazi verdi extra-urbani costa poi meno rispetto ai costi di recupero e di adeguamento del patrimonio immobiliare esistente e gli operatori immobiliari nei territori extra-urbani trovano minori vincoli urbanistici. Non solo, il diffondersi di grandi centri commerciali periferici incentiva ulteriormente la nascita di lottizzazioni extraurbane e l’uso dell’automobile. Più case isolate e più centri commerciali portano alla necessità di più strade e quindi a una crescita esponenziale del consumo di suolo.

“Un’altra causa del fenomeno è rappresentata dalla possibilità per i Comuni di utilizzare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti. In carenza di altre risorse questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno, per aumentare le entrate nei propri bilanci e mantenere i servizi essenziali” spiega Ferroni.

I dati a disposizione indicano che in Pianura Padana il 9,9% della superficie è occupato da opere d’urbanizzazione, cave e discariche, con punte del 12,5% nelle aree dell’alta pianura e del 16,9% in corrispondenza delle colline moreniche. In Versilia e nelle pianure interne della Toscana, Umbria e Lazio il consumo di suolo per attività extra-agricole raggiunge il 10,6% della superficie. Vi sono aree in cui l’urbanizzato copre addirittura il 50% del suolo ed è la campagna a trovarsi all’interno dello spazio urbano e non viceversa.

Accade per esempio nell’ampia regione che ha come vertici Bergamo-Lecco-Como-Varese-Milano oppure intorno a Bologna, da Parma a Cesena. “Negli ultimi 15 anni il diffondersi degli insediamenti si è proposto con forza anche in alcune zone della pianura irrigua che fino a un ventennio fa ne erano rimaste immuni e che da alcuni erano pensate come il possibile cuore verde della megalopoli padana” scrivono Stefano Bocchi e Arturo Lanzani in “Campagna e Città” (Touring Club Italiano).

Il problema è che stiamo assistendo a una “padanizzazione” delle nostre pianure in tutto il Paese. Nonostante già prima della crisi economica molti alloggi e molti capannoni industriali fossero vuoti, si continua a costruirne degli altri e ogni città si sviluppa ormai lungo le principali strade di comunicazione fino a saldarsi con la città successiva. Questo lo si percepisce chiaramente percorrendo la superstrada da Perugia a Spoleto, nella Valle Umbra, oppure la Pontina, da Roma a Latina. Difficile capire dove finisce un centro abitato e ne inizia un altro: è la cancellazione della campagna.

L’impermeabilizzazione delle pianure produce effetti di cui ci accorgiamo in occasione delle alluvioni, visto che l’asfalto limita le aree di espansione naturale delle piene. Servirebbero dunque vincoli sulle modificazioni d’uso dei terreni agricoli, ma anche incentivi per chi intraprende l’attività agricola. Nel 2009, secondo le stime dell’Unione europea, mentre il reddito reale per lavoratore nel settore è sceso in media del 12%, in Italia il calo è stato di oltre il doppio.

In Europa il suolo è un valore e si difende

Gabriele Salari

Mentre in Italia mancano i meccanismi di gestione e controllo del territorio, nel resto del Vecchio Continente si tenta di porre un limite al consumo del territorio. La prima è stata la Francia, con tre leggi negli anni 90. Poi la Gran Bretagna con le 'Green Belts', che impediscono alle città di saldarsi tra loro. La Germania si è posta un obiettivo: non più di 30 ettari al giorno entro il 2020.

La Germania è stato uno dei primi paesi che si è occupato della tutela del paesaggio e ha fissato un limite quantitativo al consumo di suolo, dopo aver rilevato nel 2002 un tasso di crescita di 129 ettari al giorno (in Italia siamo oggi a 75 ettari).

Il limite, da raggiungere entro il 2020, è di 30 ettari al giorno e si sta cercando di raggiungerlo con una politica di riutilizzo dei suoli già impermeabilizzati, ad esempio, prevedendo una diversa tassazione sugli immobili a seconda che siano realizzati o meno su aree già urbanizzate.

Nel 1999 è entrata in vigore una vera e propria legge per il suolo, che vede l’inserimento della tutela dei suoli in tutte le regolamentazioni e norme di settore e l’inserimento del principio di prevenzione. Un approccio normativo così completo e puntuale è stato portato avanti con una contemporanea attività di ricerca e analisi per la misurazione del fenomeno.

In Gran Bretagna, invece, si è riusciti a impedire che le città si saldassero tra di loro, grazie a un’intuizione del 1995: le Green Belts, le cinture verdi che circondano i centri urbani costringendoli in confini non valicabili per l’espansione edilizia. In quell’anno l’estensione delle Green Belts era di 1.556.000 ettari, circa il 12% del suolo inglese, mentre oggi siamo arrivati a una superficie di quasi 1.700.000 ettari. Un vero successo che ha consentito di proteggere la campagna e le attività che vi si svolgono, ma anche di conservare le caratteristiche specifiche delle città storiche con il loro contesto e aiutare la rigenerazione urbana, incoraggiando il riutilizzo di aree urbanizzate abbandonate.

Almeno il 60 % delle nuove abitazioni in Gran Bretagna devono essere realizzate su suolo già urbanizzato, intendendo aree ed edifici che sono stati abbandonati o sono in stato di degrado oppure utilizzati ma che potrebbero essere riqualificati. A sostegno di questa politica, il “National Land Use Database” viene aggiornato annualmente e contiene informazioni sui suoli già impermeabilizzati ed edificati in Inghilterra.

Anche in Francia tre diverse leggi, entrate in vigore alla fine degli anni Novanta si occupano della gestione del territorio, mentre in Italia manca ancora questo tipo di meccanismi di pianificazione e perfino il Catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dalla legge quadro sugli incendi 353/2000, per impedire l’edificazione nei boschi dati alle fiamme, è uno strumento che molti Comuni non applicano, facendo mancare così un ulteriore argine al consumo di suolo.

Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia

Antonio Cianciullo

La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti

Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.

Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.

Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?

Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.

Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.

Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.

Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.

Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.

Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio

Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia

Antonio Cianciullo

La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti

Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.

Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.

Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?

Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.

Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.

Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.

Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.

Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.

Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio.

Su Roma una nuova pioggia di case
la campagna nelle mire dei palazzinari

Di Francesco Erbani

Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?

ROMA - Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.

Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.

Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.

Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.

Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.

Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.

I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.

"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".

A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.

16 luglio 2012

Il boom delle case non aiuta nessuno. Manca un’idea urbanistica di Roma

Giovanni Caudo intervistato da Francesco Erbani

"Costruire nuovi alloggi non basta a fronteggiare l'emergenza abitativa". Si allargherà il disagio delle famiglie e si abbasserà la qualità della vita nella Capitale. Ne risentiranno anche gli operatori immobiliari che ora credono di arricchirsi. Parla Giovanni Caudo, professore di Urbanistica a Roma 3

Giovanni Caudo insegna Urbanistica all'università Roma 3. Da anni studia le trasformazioni della capitale, in particolare il disagio abitativo che a Roma raggiunge livelli di emergenza e le politiche attuate per fronteggiarlo, compiendo raffronti con le principali realtà europee.

Professor Caudo qual è la logica urbanistica degli "ambiti di riserva"?

«Non c'è logica urbanistica. Da anni a Roma si fa urbanistica senza avere a cuore la cura per la città. Le scelte non incontrano i bisogni dei cittadini: si fanno più case, molte restano invendute, ma il disagio abitativo si allarga sempre di più».

Si può quantificare questo disagio?

«Sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato Roma per spostarsi nei comuni della provincia, si tratta della popolazione di una città come Cagliari. Sono gli stessi anni in cui si elaborava il Piano regolatore, con scelte urbanistiche presentate come "moderne" e "innovative"».

Che hanno prodotto quali effetti?

«Un urbanistica senza città e senza un'idea di città. Questo degli "ambiti di riserva", poi, è un provvedimento che ci allontana dalle altre città europee e ci avvicina a quelle del sud America, dove chi ha il suolo costruisce e il resto non conta».

Quale può essere l'effetto sull'emergenza abitativa?

«La prima conseguenza è sulle regole: viene affossato il Piano approvato appena nel febbraio del 2008. Un affossamento, va detto, programmato dagli stessi autori del Piano, che con un articolo delle norme di attuazione, il numero 62, hanno costruito il dispositivo che ne può scardinare il contenuto. Anche se le 160 proposte considerate compatibili non impegnano l'amministrazione, è altrettanto evidente che si alimentano delle aspettative che prima o poi peseranno».

Questo per le regole, e per le case a chi ne ha più bisogno?

«Il Comune con il Piano casa del marzo 2010 ha stimato il fabbisogno abitativo in 25.700 alloggi e ha deciso di utilizzare gli ambiti di riserva per collocarvi la quota di alloggi che non si riesce a reperire con altre iniziative. Non c'è un dimensionamento preciso, ma una stima prudente parla di 7 mila alloggi. Le 160 proposte compatibili portano però a un dimensionamento che è almeno dieci volte superiore».

Quindi l'obiettivo è altro?

«Bisognerebbe fare attenzione a usare il disagio abitativo. Per alcune famiglie è un dramma cresciuto negli stessi anni in cui a Roma si registrava un boom delle nuove costruzioni: dal 2003 al 2007 si sono costruiti quasi 52 mila alloggi, diecimila ogni anno. Un incremento percentualmente doppio di quello di Milano. Negli stessi anni il disagio abitativo è diventato insostenibile. Abbiamo visto quanti romani sono stati espulsi dalla città (il costo medio di un alloggio in provincia è del 43 per cento più basso rispetto alla media di Roma); gli sfratti eseguiti crescevano in un solo anno dell'8 per cento e quelli per morosità erano quasi l'80 per cento».

Ma le diverse amministrazioni hanno riflettuto a sufficienza su questi dati?

«L'espressione "emergenza abitativa" neanche compare nella relazione del Piano. Ripeto: crescevano le case costruite e aumentavano le persone senza casa. Alla Biennale Architettura del 2008, Francesco Garofalo dedicò il padiglione italiano al tema della casa: "Housing Italy. L'Italia cerca casa". In una mostra di architettura sostenevamo che costruire case non basta per contrastare l'emergenza abitativa, che c'è bisogno di politiche per la casa che toccano aspetti diversi e che ruotano attorno a una sola questione: aumentare la dotazione di case a costo accessibile, sia in affitto che per l'acquisto».

Non basta costruire.

«Occorre chiedersi per chi si costruisce, e il per chi si porta appresso il come, sia rispetto ai modelli costruttivi che a quelli della gestione degli immobili. In una parola bisogna fare delle politiche per l'abitare e non solo case. Roma avrebbe bisogno di un piano per "riabitare la città abitata", altro che cementificare l'agro romano».

Il sindaco Alemanno parla di housing sociale. «"Il cavallo di troia dell'housing sociale è ormai un gioco troppo scoperto perché qualcuno possa ancora abboccare. La sola cosa che sta a cuore a questa amministrazione è far costruire, non interessa dove purché sia».

Chi trae vantaggio da questa operazione?

«Gli operatori immobiliari, i proprietari del terreno che da agricolo diventa edificabile e che incassano incrementi di valore consistenti, le imprese che si sono assicurate la promessa di vendita del terreno nel caso che riescano a portare in porto l'operazione. Ma vorrei azzardare che si tratta di vantaggi apparenti, o per lo meno momentanei».

Che vuol dire?

«Nei momenti in cui il sistema economico produce ricchezza reale il settore immobiliare se ne avvantaggia perché patrimonializza quella ricchezza. E questo è stato anche l'uso anticiclico che si è fatto del settore edilizio in Italia. Tutto questo ormai appartiene a un'altra epoca, al secolo scorso. Oggi che il nostro sistema economico è in difficoltà strutturale, che ricchezza da patrimonializzare ce n'è sempre meno ci si illude di poterla inventare costruendo. Il sindaco Alemanno nella sua relazione al seminario sulle varianti urbanistiche dell'aprile scorso l'ha proprio teorizzato questo approccio quando ha parlato di "moneta urbanistica"».

Moneta urbanistica? La città come una banca dalla quale si incassa rendita?

«Più che una banca, direi che Roma diventa una zecca: non possiamo più stampare la lira e allora a Roma stampiamo metri cubi. Le centralità definite dal Piano regolatore, già cariche di cubature, in alcuni casi vedono raddoppiate le previsioni edificatorie; il bando sugli ambiti di riserva; i milioni di metri cubi promessi al privato in cambio della costruzione della metropolitana; le valorizzazioni dei depositi ATAC; poi le caserme e le altre iniziative di questo tipo: si rischia di inflazionare la "moneta urbanistica" e di produrre una perdita di valore complessivo. Gli alloggi invenduti sono il segnale che non basta fare leva sull'offerta; come dire: è inutile portare il cavallo a bere se non ha sete.»

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