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Carlo Petrini
Così il pomodoro “giusto” salva gli schiavi invisibili
5 Luglio 2012
Articoli del 2012
La lotta di classe interessa anche le nostre mense. E' bene esserne consapevoliLa Repubblica, 5 luglio 2012

Sono almeno 400 mila i braccianti arruolati dal caporalato che ogni estate dalla Puglia al Trentino lavorano nelle campagne. I sindacati denunciano lo sfruttamento ma serve una ribellione della società civile. E una legge che punisca i “mandanti”

Tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300 kg sotto il sole a 40 gradi. Due euro e mezzo se si è clandestini. È questa la paga che un immigrato riceve nelle campagne pugliesi, dove fa anche 14 ore al giorno. Lavora a cottimo. I più robusti riescono a portare a casa 20/25 euro al giorno (il 40% in meno di un italiano con le stesse mansioni), al netto di un taglieggiamento su trasporto, cibo, acqua e altre necessità elementari controllate dai caporali che li assumono e distribuiscono il lavoro. Mentre gli italiani iniziano ad andare in vacanza, non lontano dalle spiagge più belle si raccolgono pomodori, meloni e angurie, impiegando migliaia d’immigrati africani extra-comunitari o dei neo-comunitari provenienti dall’Est Europa.

Vogliamo aspettare un’altra drammatica protesta come a Rosarno nell’inverno 2010? O un altro sciopero come quello di Nardò, della scorsa estate, per renderci conto che ciò che mangiamo rischia di essere passato per le mani di uomini ridotti in semi-schiavitù? Non abbiamo garanzie: i pomodori che ci portiamo a casa, o le passate di pomodoro, l’anguria che divoriamo assaliti dalla calura è probabile che siano il frutto di condizioni di lavoro e di vita (in abitazioni di fortuna, senza servizi igienici, elettricità, assistenza sanitaria, sotto costante minaccia) inaccettabili, tanto più per un Paese che si definisce civile.

È una tragedia umana, un incubo per tante persone che si consuma ogni anno, in tutte le stagioni, sotto un pesante velo di omertà e su cui campa buona parte della nostra agricoltura e del nostro decantato made in Italy. Flai-Cgil stima che in Italia ci siano 400mila lavoratori che vivono sotto i caporali. Hanno la loro stagionalità come ce l’ha l’ortofrutta:a luglio e agosto si concentrano in Puglia, soprattutto nella Capitanata in provincia di Foggia o in Salento; subito dopo passano in Basilicata, nella zona di Palazzo San Gervasio dove i pomodori si raccolgono un po’ dopo; ci sono in Campania, nelle province di Salerno (Piana del Sele) e Caserta (Villa Literno e Castel Volturno). In autunno/inverno tocca agli agrumi: la Calabria con la Piana di Gioia Tauro dove si trova Rosarno, la Sicilia dove ci sono fenomeni di caporalato fino a primavera, con la successiva raccolta delle patate e di altri prodotti orticoli.

Ma non è esente il Nord: si segnalano fenomeni in Emilia-Romagna (frutta a Modena e Cesena), in Veneto (Padova), in Lombardia (Mantova e i meloni) e perfino nel civilissimo Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele. Fenomeni settentrionali che sono ancora marginali, ma che vista la crisi sono in forte ascesa. Crisi che colpisce i lavoratori stagionali, gli immigrati che accettano loro malgrado di sottoporsi a condizioni sempre peggiori, ma crisi che colpisce anche l’agricoltura e i suoi imprenditori, i quali devono ridurre al minimo il costo del lavoro, per non fallire o lasciar marcire il cibo nei campi.

È una crisi che accentua l’assurdità del nostro sistema del cibo industriale, in cui diventa facile puntare il dito contro i caporali, ma in cui è ora che anche altri soggetti si assumano delle responsabilità. I caporali sono terribili, e rappresentano un fenomeno che riguarda anche altri settori lavorativi, soprattutto l’edilizia. Oggi non sono più soltanto italiani, spesso sono africani come gli sfruttati, scatenando una guerra tra poveri che non è esente da fenomeni d’infiltrazione mafiosa. Gli imprenditori affidano ai caporali il potere di gestire le vite dei

braccianti lontano dei centri abitati come lontani sono i campi: se l’occhio non vede nessuno s’indigna, tantomeno chiede regolarità e legalità. Tutto in nero: si calcola che per l’agricoltura il sommerso incida per il 90% al Sud, per il 50% al Centro e per il 30% al Nord.Altro che far rispettare i contratti, questi lavoratori neanche esistono.

Per fortuna, dopo lo sciopero di Nardò dell’estate 2011, è stato accelerato l’iter per una legge che preveda il reato di caporalato, che tuttavia è stata approvata solo in parte: per esempio non vi è traccia di sanzioni per le imprese e non ci sono meccanismi di tutela per i lavoratori che denunciano i loro caporali. Sono tanti le associazioni e i sindacati che si stanno impegnando su questo fronte, ma non possiamo andare avanti con la loro limitata capacità strutturale di sopperire alle mancanze dei sistemi istituzionale e agricolo che sembrano non volerci sentire. Bisogna colpire duramente gli imprenditori agricoli coinvolti: che lo facciano le leggi, le forze dell’ordine, le associazioni di categoria. Un primo risultato si è ottenuto proprio a Nardò a maggio, dove insieme ai caporali, dopo una lunga indagine, sono stati arrestati anche gli stessi imprenditori, i “mandanti”. Gente che tra l’altro esporta la quasi totalità del proprio prodotto, e che dunque farebbe l’orgoglio di chi si lamenta che la nostra agricoltura «è poco competitiva».

Intanto però bisogna che si sollevi la società civile. Si può fare in diversi modi: lo fanno le associazioni o i sindacati come Flai/Cgil, che parte in questi giorni con “Gli invisibili delle campagne di raccolta” e un “camper dei diritti” su cui viaggiano medici, insegnanti di lingua, avvocati, sindacalisti, volontari e Yvan Sagnet, il leader dello sciopero di Nardò. Toccheranno la Puglia, poi la Calabria e infine il Trentino. Vogliono risvegliare le coscienze dei lavoratori, spesso inconsapevoli dei loro diritti e del potere che hanno quando incrociano le braccia: la frutta e la verdura non si raccolgono da sole, e vanno raccolte al momento giusto.

Però possono mobilitarsi le persone che vivono in quei luoghi, darsi da fare di più per l’accoglienza, trovare coraggio e protestare, sposare le battaglie dei braccianti, non accettare che nel loro territorio accadano tali nefandezze. Infine tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi, e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare, e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie. Perché è pur vero che bisogna aiutare i bravi agricoltori.

È ora che il sistema Italia rigetti con forza il caporalato in tutte le sue forme. È urgente, perché intanto queste povere persone sono lì nei campi, a soffrire, in alcuni casi a morire. Sono necessari un intervento del governo (in fondo anche queste sono tasse che vanno recuperate) e della politica locale, un coordinamento nazionale delle forze dell’ordine, l’auto-certifcazione delle aziende virtuose, la nostra scelta quotidiana di un cibo che non sia soltanto buono e sostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche giusto: giusto per chi lavora, giusto per chi non vuole diventare complice di questa vergogna italiana.

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