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Stefano Corazza
Possiamo salvarci dalla crescita?
11 Marzo 2012
Invertire la rotta
Una rifessione sui quarant'anni trascorsi da una ricerca e una denuncia che modificarono la consapevolezza comune ma non la sostanza delle politiche dei governanti. Scritto per eddyburg

Il primo marzo scorso sono passati 40 anni dalla presentazione de I limiti dello sviluppo. Anche se negli Stati Uniti, a Washington, vi è stata una celebrazione ufficiale e negli altri Paesi occidentali alcuni giornali hanno pubblicato articoli rievocativi e commenti, la ricorrenza è passata in un generale inquietante silenzio dei media e in una scarsissima attenzione persino della rete e dei social networks.

I limiti dello sviluppo, ma sarebbe meglio usare la traduzione letterale del titolo originale: “I limiti della crescita” (Limits to growth, in inglese), è frutto di un lavoro di ricerca sul futuro del pianeta commissionato e poi presentato dal Club di Roma (dal luogo in cui si riunì per la prima volta nel 1968) e realizzato da un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston. Aurelio Peccei, un imprenditore “illuminato” italiano, Alexander King uno scienziato scozzese consulente di diverse agenzie governative, Elisabeth Mann Borgese intellettuale tedesca figlia dello scrittore Thomas Mann, erano stati fondatori del Club assieme ad un nutrito gruppo di premi Nobel, intellettuali e leader politici e ne erano i più noti rappresentanti.

Il gruppo di ricerca del MIT era coordinato da Donella Meadows, chimica e biofisica. Per la realizzazione del rapporto i ricercatori misero a punto un modello interamente computerizzato in grado di elaborare grandi quantità di dati per produrre scenari che consentissero di prevedere a quale futuro andavano incontro l'umanità e il pianeta. Per inciso, quel modello (World 3) che accrebbe ulteriormente il prestigio scientifico, già alto, del MIT, è arrivato fino ai giorni nostri ed è stato impiegato con poche successive modifiche per produrre aggiornamenti degli scenari originali a distanza di uno, due, tre decenni.

Il modello fu costruito sulla base del concetto, oggi acquisito ma allora non così scontato, di fare interagire tra loro i i diversi “sistemi” di riferimento utilizzati per rappresentare la realtà e la sua dinamica temporale: il sistema “agricolo e della produzione di cibo”; il sistema “industriale”, il sistema “popolazione”, il sistema “risorse non rinnovabili”, il sistema “inquinamento”.

Il “limite” nel titolo del rapporto sintetizzava molto efficacemente le conclusioni della ricerca in cui, detto molto in breve, si sosteneva che, senza modificazioni drastiche all'esistente dinamica (reference run() demografica, industriale, agricola, di sfruttamento delle risorse, di inquinamento, la crescita economica avrebbe incontrato, o per meglio dire generato, un rapido declino entro i cento anni (lo scenario temporale prescelto) successivi, manifestandosi sensibilmente a partire dal 2015-2030.

Il grafico dello scenario “reference run” de “I limiti dello sviluppo”.

Gli autori, tuttavia, comparando i diversi scenari, sostenevano che un'alternativa a tale esito era possibile, modificando profondamente il “modello di sviluppo” per renderlo più “sostenibile” (diremmo oggi) ambientalmente e socialmente. Devono essere proprio queste “fosche” previsioni sulla crescita che, al tempo d'oggi in cui la parola è evocata da ogni parte con identici accenti di venerazione e desiderio passionale, ha fatto sì che l'anniversario sia passato per molti sotto silenzio.

Del resto anche nel 1972 il Rapporto non incontrò che un favore limitato. Da un lato veniva criticata la fonte del Rapporto: il Club di Roma, una élite aristocratica per alcuni, un intreccio sospetto fra scienza e politica sotto l'ombrello di Associazioni semisegrete come la Massoneria per altri. Dall'altro si tentava di screditarlo come scenario apocalittico più vicino ad un romanzo di Asimov (lo scrittore di fantascienza in gran voga al tempo) che come serio e fondato prodotto scientifico. Infine le sue conclusioni parevano, ad alcuni, o conveniva loro considerarle, un cedimento alla “controcoltura” che da un quindicennio stava percorrendo tutto il mondo occidentale.

Già dalla fine degli anni '50, infatti, maturava in America, sulla scia della Beat Generation, la cultura Hippie. Gli Hippies, più che un “movimento” formavano (anche questo è un tratto che li rende attuali) una “comunità” tenuta insieme da valori che ogni individuo sentiva propri e praticava nella sua esistenza. Oltre ad uno spiritualismo mistico di origine orientale, forte era il rifiuto dell'industrialismo e delle convenzioni fondato sull'insegnamento e l'esempio di Henry David Thoreau e di San Francesco che portava gli Hippies a praticare un ecologismo anarchico di profonda matrice etica sostanziato in modelli di vita naturisti e comunitari, liberi costumi sessuali, pacifismo, alimentazione sana (biologica) e vegetariana, rispetto della terra e della natura. Molti di questi valori influenzarono profondamente i movimenti studenteschi dei college e delle università americane e poi anche parte di quelli europei culminati nel '68.

Esattamente dieci anni prima del 1972, Rachel Carson una biologa marina e scrittrice (aveva già pubblicato nel 1951 un libro di successo: (Il mare intorno a noi() diede alle stampe “Primavera silenziosa” nel quale, sulla base di evidenze scientifiche ed epidemiologiche, raccolte in un lungo lavoro di preparazione, si denunciava la morte di ogni forma di vita nelle campagne e di lì nei fiumi, nei laghi e fino al mare, provocata dai pesticidi e in special modo dal DDT (para dicloro difenil tricloroetano), utilizzati indiscriminatamente e fuori di ogni controllo per le colture agricole. Si evidenziava quale incombente minaccia la presenza di tali composti chimici persistenti nella catena alimentare esercitasse sulla salute umana. La Carson fu minacciata e derisa in campagne di discredito scientifico (definita una birdwatcher dilettante) e umano (accusata di isteria) orchestrate dalle potenti lobbies chimiche, agricole e anche accademiche americane, ma il libro diventò un best seller non solo negli Stati Uniti e influenzò profondamente l'opinione pubblica americana e mondiale.

Un decennio, gli anni '60, in cui la riflessione sulle conseguenze di un modello di produzione e consumo portò tra le altre cose a nuove consapevolezze sul rapporto fra l'uomo e la natura sulle quali è largamente fondata l'attuale, seppure ancora poco diffusa, cultura scientifica ed etica dell'ambiente. Un decennio in cui maturano studi come, appunto, “I limiti dello sviluppo”, ma anche positive reazioni istituzionali come la costituzione (1970) della prima agenzia per la protezione dell'ambiente: l'Environmental Protection Agency(EPA) americana o la prima presa di posizione strutturata di un organismo politico: l'ONU con la “Conferenza” e la “Dichiarazione di Stoccolma sull'ambiente umano”, nel Giugno dello stesso 1972. Documento nel quale si pongono le basi dei diritti della natura, dei diritti dell'uomo ad un ambiente sano, dei doveri dei popoli e delle istituzioni per la conservazione del patrimonio naturale per il benessere proprio e delle future generazioni.

Quattro decenni dopo molte conoscenze sono evolute: basti pensare alla sistematizzazione del tema dei servizi ecosistemici e della biodiversità; molte nuove regole sono state introdotte per salvaguardare l'ambiente: il DDT è scomparso per divieto dalle colture agricole del primo mondo (ma non ancora da quelle dei paesi sottosviluppati); i diritti della natura sono stati scritti in convenzioni internazionali e persino in alcune costituzioni, etc. Cambiamenti che, però, non hanno sovvertito le dinamiche previste nel rapporto del Club di Roma.

Uno studio del 2008 di un ricercatore australiano G. Turner del CSIRO (istituto di ricerca per il Commonwealth) e un recentissimo lavoro pubblicato nel Gennaio di quest'anno su (New Scientist( e dovuto a D. McKenzie (solo per citare i lavori più recenti) convengono in buona sostanza sul fatto che lungi dall'avere fallito sia sul piano degli assunti (come molti pretendevano) che su quello delle previsioni, “I Limiti” si è rivelato capace di ritrarre con grandissima approssimazione il divenire della realtà da quarant'anni a questa parte. Basta peraltro osservare con attenzione il grafico originale delle curve che rappresentano i “servizi pro capite” o le “risorse alimentari pro capite”, l'”inquinamento” o la “produzione industriale” per capire che quelle drammatiche inversioni o cadute libere delle curve parlano di noi e di oggi. Di quanto servizi essenziali come la scuola, la sanità, l'assistenza ad anziani e disabili siano ogni giorno ridotti; di quanto l'aria delle città sia dannosa per la salute; di quanto la biodiversità, base di ogni servizio che l'ecosistema fornisce all'umanità sia sempre più compromessa (si vedano i recenti rapporti EU e UNEP); di quanto, ogni anno sempre più precocemente, venga superata la per uno sfruttamento eccessivo delle risorse la “biocapacità” del pianeta cioè la sua capacità di ricostituirle, come ci dice l'elaborazione dell'”impronta ecologica” il più accreditato indicatore di sostenibilità. La crescita, così come intesa dal modello di sviluppo esistente nel 1972 e con poche modifiche, molte delle quali peggiorative (si pensi alla finanziarizzazione senza regole dell'economia), anche oggi, è finita. Persino illustri economisti (Sen, Myrdal, Fitoussi) sostengono che l'identità del PIL (il Prodotto Interno Lordo, l'indicatore moloch della crescita) con la misura del benessere è sempre più falsa.

Che sia proprio la crescita, il problema? e non come preteso da molti-Monti la sua soluzione? Molti dati reali inducono a pensarlo. La semplice affermazione che anche nei paesi ricchi, una crescita, seppure bassa, sia nel tempo sostenibile usando meglio le risorse naturali o sostituendo sempre più le non-rinnovabili con le rinnovabili (la sostanza della Green Economy) non è per nulla convincente. Senza scomodare il secondo principio della termodinamica che ne svelerebbe l'inconsistenza teorica, va notato che nelle politiche di “sviluppo e crescita” che ci si appresta a varare, nel nostro o negli altri paesi, al massimo in modo marginale è presente il tema dei limiti o degli effetti che quelle politiche sono destinate ad avere sulle risorse, sulla natura, sui servizi ecosistemici e in definitiva sul benessere delle persone e della società (devo sottolineare l'attualità di tale aspetto relativamente alla questione della TAV?).

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