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La Manifestazione della FIOM a Roma
10 Marzo 2012
Articoli del 2012
Un commento indirizzato a chi dovrebbe comprendere, e un articolo sui sentimenti di chi ha compreso e agisce di conseguenza. Il manifesto, 10 marzo 2012

ART.18, MONTI CI PENSI SU

di Valentino Parlato

Se Mario Monti, che ritengo persona attenta ai fatti, avesse potuto vedere di persona la grande manifestazione della Fiom a Roma, sicuramente avrebbe riconsiderato alcuni suoi attuali orientamenti. Lo penso perché la manifestazione di ieri è andata ben oltre la Fiom e i lavoratori della metalmeccanica.

Ieri a Roma c'era l'unità d'Italia. Nord e Sud insieme, capoluoghi di regione e piccoli comuni. Rilevante e importante la presenza di lavoratrici. C'era l'Italia con le sue memorie storiche e la volontà di sostenere la democrazia in questo difficile e pericoloso stato di crisi. Dalle crisi - è storia - sono facili e possibili le uscite a destra. In Italia lo sappiamo. Ebbene, la manifestazione di ieri era la testimonianza di quanto la democrazia sia essenziale al mondo del lavoro, alle persone che lavorano «sotto padrone» e che solo nella democrazia piena hanno la garanzia dei loro diritti e della dignità umana.

Una grande manifestazione di democrazia dalla quale non ci si può distaccare (come ha fatto il Pd, con il pretesto della Tav e cedendo alle esigenze della politica politicante) senza indebolire se stessi, senza far crescere il rifiuto della politica, oggi assai diffuso nel nostro paese. Il Presidente Giorgio Napolitano ha detto che la riforma del lavoro va realizzata, ma tenendo fermi il rispetto dei diritti e della dignità del lavoro, che sono - aggiungo io - il fondamento sostanziale della democrazia.

La nostra Costituzione afferma che siamo una Repubblica «fondata sul lavoro». Nell'attuale confronto sulla «riforma del lavoro», va data grande attenzione anche agli aspetti simbolici. E vengo all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale siamo a uno scontro fondamentalmente ideologico, simbolico, a cui anche il Presidente Napolitano dovrebbe prestare più attenzione. Un industriale come Carlo De Benedetti ha detto che l'art. 18 non gli è mai servito nella gestione d'impresa. Cancellare l'art. 18 oggi non serve affatto agli imprenditori. Cancellarlo è solo dare uno schiaffo in faccia a chi lavora e ai sindacati tutti, dire loro che debbono piegare la schiena davanti al padrone.

La grande e democratica manifestazione di ieri dovrebbe dare uno scatto di intelligenza all'attuale governo. La sua rinuncia alla cancellazione dell'articolo 18 (ripeto, di nessuna sostanza nella gestione d'impresa) sarebbe un gesto di grande acume politico. Il governo potrebbe dire: proprio perché sono forte e ho consenso non voglio cancellare l'articolo 18.

La grande manifestazione di ieri, la sua portata nazionale e democratica, dovrebbe indurre a qualche riflessione l'attuale governo e dire chiaramente che non ne vuole più la cancellazione. Ove facesse questa scelta ne uscirebbe anche rafforzato rispetto ai ricatti e alle minacce che stanno emergendo dal mondo della politica. Monti non ha detto a caso di temere l'allargarsi dello spread tra i partiti. Si faccia raccontare bene la manifestazione di ieri e ci pensi.

SCIOPERARE, UN GESTO RISCHIOSO ALLA FIAT

di Loris Campetti

Una bellissima giornata di sole e di speranza, complici il clima romano e una marea operaia che da tutto lo stivale e le isole è tornata a occupare la capitale con le sue bandiere rosse e le sue rivendicazioni. In fondo, si potrebbe pensare, non è una novità. Ciclicamente la Fiom riempie Roma di colore e contenuti politici: capita ogni tre o quattro anni e ogni volta è insieme una prova di forza e mostra una capacità di aggregare intorno a sé donne, uomini, movimenti, figure sociali che, almeno apparentemente, con la Fiom non avrebbero molto a che fare.

E invece lo sciopero generale di ieri per i diritti, i contratti e la democrazia e la grande manifestazione a Roma contengono molte novità. Scioperare oggi alla Fiat e nelle fabbriche metalmeccaniche rappresenta un gesto coraggioso perché rischioso. Il fatto è - lo dicevano i tanti striscioni e cartelli esibiti ieri in corteo - che oggi in Italia c'è meno democrazia che negli ultimi sessant'anni. Se non si firma un accordo o un contratto con cui vengono cancellati i diritti fondamentali dei lavoratori si è fuori dalle fabbriche, la Fiom non ha più agibilità sindacale, non può avere delegati né convocare assemblee. Solo fuori dai cancelli si può invitare allo sciopero, le catene di montaggio sono off limits. Addirittura, a Pomigliano a cui Marchionne ha cambiato nome per poter licenziare tutti e riassumere solo quelli con il cappello in mano, nessun operaio iscritto alla Fiom è stato riammesso al lavoro, perché sono stati marchiati a fuoco. Pensate cosa voglia dire in queste condizioni, forse normali nelle dittature ma impensabili nel cuore dell'Europa, convincere gli operai a scioperare contro i novelli padroni delle ferriere con il rischio di essere a loro volta marchiati a fuoco. Loro che non hanno più neanche il diritto di eleggere i propri rappresentanti, di votare accordi e contratti che modificano le condizioni di vita e di lavoro, addirittura di scioperare contro la nuova organizzazione del lavoro o di mangiare a un'ora normale e non a fine turno. Di andare a pisciare quando gli scappa.

Eppure in tantissimi, tra quelli che non sono stati licenziati, o messi in cassa integrazione o peggio in mobilità, oppure «esodati» e cioè senza salario e senza pensione, hanno scioperato poi si sono infilati in un pullman per atrraversare l'Italia perché i treni speciali sono stati aboliti dalla Ferrovie, solo l'alta velocità per pochi benestanti può correre sulle rotaie. Sono arrivati a Roma per dire no a Marchionne e a chiunque sostenga leggi antioperaie e antidemocratiche, o pretenda di smontare lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione. Per questo i più applauditi sul palco di piazza San Giovanni, insieme a Landini, sono stati Nina di Mirafiori, Ciro di Pomigliano e Giovanni di Melfi, simboli, delegati alla Fiat non riconosciuti dalla Fiat perché per Marchionne, e per chi tace lungo quasi tutto l'arco costituzionale, la Fiom deve morire. O piegarsi.

Pensa, dicono i compagni di Melfi, i nostri delegati non riconosciuti e licenziati hanno vinto anche il processo d'appello, la Fiat è stata condannata grazie all'art. 18 a riassumerli ma si rifiuta di rispettare la sentenza, li paga ma li lascia a casa. E in questa situazione, «il Pd non viene a manifestare con noi perché c'è la Val di Susa? Ma cosa è diventata l'Italia, dov'è finita la sinistra?».

Sta solo in questo la differenza tra il 2012 e gli anni Cinquanta: allora c'era il Pci di Pugno e Garavini, oggi c'è il Pd che promuove a responsabile del lavoro e della Fiat a Torino l'ex segretario nazionale del Sida, il sindacato giallo inventato da Valletta. L'attacco alla democrazia si può declinare in tante lingue diverse: quella degli operai incatenati; quella dei giovani senza diritto allo studio, al reddito e a un lavoro che non sia di merda; quella dei beni comuni violati e mercificati; quella di chi non vuole finire sotto un treno che corre troppo veloce travolgendo ogni presidio; quella di chi aveva raggiunto il diritto alla pensione e non glie la danno o di quelli che ce l'hanno ma glie la sterilizzano o che temono di non avercela mai. Quando il mercato detta legge la democrazia viene rottamata a scuola, in fabbrica, nelle edicole. Per questo studenti, precari, pensionati, popolo No Tav e attivisti dell'acqua e dei beni comuni, lavoratori dello spettacolo in tempi in cui «The show must go off», ieri sfilavano per le strade di Roma insieme alle tute blu: hanno capito che il nemico è comune, è il pensiero unico e loro non cantano nel coro. Non si limitano a difendersi e a resistere, pretendono di orientare l'uscita dalla crisi con regole diverse da quelle che l'hanno provocata. Vogliono un diverso modello di sviluppo, socialmente e ambientalmente compatibile.

La festa per la cacciata di Berlusconi, diventato scomodo anche per la cupola finanziaria che impasta il mondo come una pizza margherita, è finita in fretta. Ora ci sono i bocconiani che terminano il lavoro sporco avviato da chi li ha preceduti, aggiungendo ingiustizie a ingiustizie e i metalmeccanici hanno smesso in fretta di festeggiare. Chi si accontenta della facciata riverniciata non viene capito dai terribili metalmeccanici e dai loro appestati amici montanari che tanto spaventano Bersani. Così tutti devono farsi una ragione per i pochi, rispettosi fischi raccolti dal segretario nazionale della Cgil che è intervenuto dal palco con un atteggiamento decisamente più comprensivo nei confronti dei Monti boys: figurarsi se chi ha osato scioperare e manifestare anche sotto Prodi si può tirare indietro quando c'è da prendersela con Monti, Fornero, Passera e compagnia fischiando. Questi centomila o ancora di più - chi se ne frega quanti, come dice Landini se li conti qualcun altro, la polizia, la Fiat, Monti, Alemanno e anche Bersani - non portano rispetto per chi non li tratta con rispetto. E si incazzano anche per l'assenza di una sponda politica e forse proprio per questo diventano un riferimento per i tanti che vivono le stesse condizioni. Oltre alla rappresentanza, a questi terribili metalmeccanici vogliono togliere con l'attacco al pluralismo informativo persino la rappresentazione, il diritto a veder raccontate le loro battaglie. Sarà per questo che ieri il manifesto è stato accolto in piazza con tanto affetto. Perché lo sciopero generale di ieri della Fiom per i diritti, i contratti e la democrazia e la grande manifestazione a Roma contengono molte novità

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