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Malcom Tomaso; Pagani Montanari
Beni culturali: appalti e vecchi brevetti
24 Febbraio 2012
Beni culturali
L’italica arte del tirare a campare esercitata con sapienza anche agli alti livelli del Mibac. Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2012 (m.p.g.)

Il professor Andrea Carandini, a 75 anni, conosce l’arte della mediazione ma non sempre la professa. Dal padre, fondatore del Partito Radicale, il presidente del consiglio superiore dei Beni culturali ha ereditato la passione per le scelte definitive e le rotture traumatiche. È per questo (ma non solo) che stamattina Carandini potrebbe dimettersi dalla carica. Non ha certezze di essere rinominato e intuisce che Ornaghi aspiri al repulisti. Al rinnovo delle cariche. Alla discontinuità con la vecchia gestione. Carandini è alle corde. Se da un lato nella sua posizione non scorge inopportunità o conflitto di interesse a far richiedere al Mibac dalla casa di produzione della figlia Amalia quasi 40.000 euro per un (premiato) documentario: Looters of Gods regolarmente finanziato nel 2009 come “progetto speciale”, dall’altro valuta le mosse pubbliche come nessun altro. E questo, in mancanza di meglio, potrebbe essere l’istante adatto al beau geste.

Lo scandalo del Castello di famiglia a Torre in Pietra, restaurato con quasi 300 mila euro erogati dallo stesso Consiglio (ed ermeticamente chiuso al pubblico in opposizione alla legge) è solo uno dei problemi di un’istituzione che Carandini presiede con piglio militare e che rischia di trasformarsi da organo di indirizzo culturale a cabina di regia per gestire i ricchi appalti del ministero. In ogni caso, l’aria che spira attorno alle riunioni del Consiglio è pessima. Il 18 novembre, ad esempio, la seduta fu quasi interamente dedicata alla comparazione di due proposte alternative per Pompei. Per il restauro ballano 105 milioni di euro della Commissione europea. Soldi da investire. A metà novembre Carandini demolì radicalmente l’offerta di Carmine Gambardella (preside ad Architettura nella Seconda Università di Napoli), che voleva offrire gratuitamente al Mibac un progetto elaborato da uno spin off di quattro atenei campani, con importanti università internazionali. Carandini affermò che questo progetto “non è certamente in grado di svolgere il lavoro” voluto dal Mibac. Più violente le critiche a Gambardella di un altro componente del Consiglio, Paolo Portoghesi, l’architetto preferito da Bettino Craxi. Nel verbale del consesso, l’invettiva di Portoghesi sfiora l’insulto: “Chi vive nel mondo dell’architettura, quando sente parlare di questo personaggio non può che esprimere molti dubbi ed è giusto avere dedicato una seduta a valutare il primato di una proposta seria di fronte a una proposta che è soltanto espressione di questo presenzialismo, tipico di persone giovani come Gambardella”. Di fronte a questa mazzata baronal-gerontocratica Carandini quasi si commuove: “Ringrazio moltissimo per la sincerità e la chiarezza”. E di chi è, allora, il progetto alternativo, quello ‘serio’? Ma di Roberto Cecchi, allora onnipotente segretario generale del Mibac, già assai discusso, ma non piegato dal caso del finto Michelangelo esploso clamorosamente in questi giorni. Per Carandini, Cecchi si colloca un gradino sotto Winckelmann: egli avrebbe aperto nientemeno che una “terza era dell’archeologia” basata sulla ricomposizione con l’architettura. Dice Carandini: “Questa applicazione ha avuto solo una possibilità di sperimentazione , attraverso il lavoro dell’architetto Cecchi a Roma, che è andato molto bene. Quindi è una sperimentazione recente che è necessario trapiantare a Pompei”. Ma, sempre al Mibac, fanno notare che più che una ricomposizione tra l’architettura e l’archeologia, essa appaia come una cordata dell’architetto (Cecchi) e dell’archeologo (Carandini).

E che il fine del secondo sarebbe quello di riuscire finalmente a piazzare a Pompei un prodotto che non è mai riuscito a vendere a Roma. Nell’aprile 2008 infatti il Mibac firmò un protocollo di intesa con la cattedra di Archeologia classica della Sapienza. Quest’ultima avrebbe ceduto alla Soprintendenza di Roma un brevetto informatico per realizzare il “sistema informativo territoriale archeologico per il centro storico e il suburbio di Roma”. Non una cessione a tinte filantropiche da ambito pubblico a pubblica soprintendenza. Niente di gratuito. La cessione sarebbe dovuta avvenire “alle condizioni di mercato”, da definire in un accordo separato. E la meraviglia non si quieta. Il brevetto (ottenuto grazie a ricerche finanziate dall’università) non era intestato alla Sapienza, bensì “ai professori Andrea Carandini e Paolo Carafa”. In quel momento Carandini era il coordinatore nazionale della Commissione paritetica per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori. Insomma, uno strepitoso modello di rapporto pubblico-privato: il superconsulente accademico vende al ministero il proprio brevetto. Ma il piano alla Totò-truffa non andò in porto per la sollevazione dei funzionari della Soprintendenza di Roma, che trovavano scandaloso comprare da un privato ciò che si poteva avere gratuitamente. Carandini – ormai presidente del Consiglio superiore – ha cercato nuovamente di piazzare il suo progetto dopo il crollo di Pompei, proponendo di realizzare un sistema informatico (che per altro la Soprintendenza già possiede) basato sul suo famoso brevetto. Ma la Direzione generale per l’Archeologia riuscì a fermare anche questo secondo tentativo, e fu a questo punto che Carandini pensò di inserirlo nel progetto milionario di Cecchi per Pompei discusso nella seduta del 18 novembre. Sull’ultimo Giornale del’arte Carandini lancia una “strategia del fare” basata su due pilastri: “L’intervento dei privati” e “l’informatica”. L’editoriale si intitola ‘L’ombelico è qui’. Appunto.

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