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Marco Revelli
Laboratorio Torino
13 Dicembre 2011
Italiani brava gente
Domanda inquietante: «Perché i giovani balordi delle Vallette dovrebbero essere migliori dei loro amministratori e giornalisti?» Il manifesto, 13 dicembre 2011

Un pogrom. Diciamola la parola, per terribile che possa apparire. Quello di Torino è stato un pogrom in senso proprio, come quelli che avvenivano nella Russia ottocentesca. O nella Germania degli anni Trenta. Di quei riti crudeli ha tutti gli elementi, a cominciare dall'uso distruttivo del fuoco, per liberare la comunità dall'intruso considerato infetto (per "purificarla", si dice). E poi l'occasione scatenante, trovata in un presunto - e falso - atto di violenza su una vittima per sua natura innocente (può essere il neonato "rubato", come qualche anno fa a Ponticelli o, appunto, la "vergine" violentata). E lo stato di folla che s'inebria della propria furia vendicatrice, convinta di compiere un "atto di giustizia".

Ora, che il mostro si sia materializzato, in questo dicembre del 2011, a Torino dovrebbe farci riflettere. Qui, nella ex "capitale operaia". Nella città delle lotte del lavoro, dove è nata la nostra democrazia industriale. Né serve ripetere la stanca litania che Torino è un esempio di "integrazione e di accoglienza". Che la maggioranza la pensa diversamente dalle poche decine di invasati che a colpi di fiaccola e di accendino ha tentato una strage. Non è così.

Se una ragazzina spaventata e (per questo) bugiarda ha evocato i "due zingari" per accreditare una violenza mai avvenuta, è perché ha pensato che quell'immagine rendesse credibile - in famiglia e nel quartiere - un racconto altrimenti improbabile. Se centinaia di persone sono scese in piazza in una fredda serata d'inverno per manifestare, non è purtroppo perché si trattava di una violenza sessuale (quante sono passate ignorate in questi anni!), ma perché i suoi presunti (e falsi) autori erano di un'etnia odiata a priori. Se le decine di incendiari hanno potuto agire sotto lo sguardo compiacente degli altri abitanti del quartiere, è perché mettevano in scena un comportamento condiviso.

La verità è che la "città dell'accoglienza" è oggi priva di anticorpi contro i nuovi mostri che emergono dalle sue viscere provate dalla crisi. Politica e informazione ne sono responsabili. Da anni ogni discussione in Consiglio comunale sui "campi nomadi" si apre e si chiude sempre e solo su un unico tema, gli sgomberi. E il quotidiano cittadino La Stampa ha dato notizia del fatto, poco prima che la sedicenne confessasse, sotto l'indecente titolo a quattro colonne: «Mette in fuga i due rom che violentano la sorella». Perché i giovani balordi delle Vallette dovrebbero essere migliori dei loro amministratori e giornalisti? Perché gli abitanti sbrindellati, spaesati e logorati dai debiti e dalla disoccupazione, di questo che era, fino a tre decenni fa, il quartiere dormitorio dov'era stokkata la forza-lavoro di Mirafiori e del Lingotto, e dove ora si accumulano i detriti di una composizione sociale in disfacimento, dovrebbero essere più consapevoli, e "politicamente corretti", delle loro élites?

Torino, da anni, si compiace della bellezza ritrovata del proprio centro, brillante e patinato. Del fascino delle proprie piazze-vetrine e delle dimore sabaude restaurate. Oggi scopriamo che quel centro geometrico e luccicante è un po' come il volto intatto ed eternamente giovane di Dorian Gray - l'inquietante personaggio di Oscar Wilde -, mentre il suo ritratto, invecchiato e sfregiato, lo si può scorgere qua, nel quartiere di periferia dove si è scaricata tutta la carica di degrado e di bruttura accumulata in questi anni: lo sfarinamento della sua industria, l'erosione dei diritti sociali, l'impoverimento e la precarizzazione del lavoro, la crisi della socialità e della solidarietà. Tra il vuoto di diritti e di potere che si è aperto a Mirafiori, e questo pieno di rancore e di passioni funeste che si è condensato nel suo antico dormitorio, corre il filo nero di un'infausta profezia.

Auguriamoci che Torino non sia, ancora una volta, "laboratorio". Che non anticipi i segni di un'involuzione antropologica mortale. Il lungo piano inclinato della crisi, via via più ripido, lascia intravvedere inediti scenari weimariani, minacce fino a ieri impensabili. Il conflitto sociale, rimosso ed esorcizzato al vertice, rischia di ricomparire al fondo della piramide sociale, con il volto sfregiato della "folla criminale", del linciaggio e della ricerca feroce del capro espiatorio. Se la caduta dovesse accelerare, e la situazione precipitare, allora, con molta probabilità, il pogrom di Torino non resterebbe un fatto isolato.

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