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Fabrizio Bottini
Il vialetto d’ingresso all’universo
29 Novembre 2011
Scritti ricevuti
Le frivole uscite di qualche nuovo ministro a proposito di riforma urbanistica, lette alla luce del buonsenso e della recente letteratura anglofona

In questi ultimi giorni, dopo l’ennesima pioggia autunnale trasformata dai giornali e dagli effetti in devastante alluvione, il neoministro dell’Ambiente Clini si è espresso in varie occasioni pubbliche a favore di una “nuova legge urbanistica”. Il tema, giustamente ripreso nei titoli e negli occhielli degli articoli, in realtà poi veniva di fatto eluso: c’è il dissesto del territorio, si è costruito dove non si doveva, occorrono interventi mirati … Insomma della legge urbanistica vera e propria si intuivano solo alcune vaghe istanze, magari si trattava pure di una svista, chissà, o di un parlare alla nuora perché suocera intenda. Emergeva però anche un altro elemento, in realtà ormai consolidato nel dibattito culturale e politico, ma (purtroppo) relativamente nuovo nelle dichiarazioni ministeriali: un efficiente e ordinato assetto del territorio, la tutela degli spazi aperti e dei sistemi ecologici dall’edificazione indiscriminata, è una precondizione indispensabile per lo sviluppo socioeconomico.

Il che, se non si tratta proprio di una sconfessione brutale del mitico “sviluppo del territorio” decantato da lustri a destra e a centrosinistra, ci va molto vicino. Ma si può dire molto di più volendo, a questo proposito: addirittura, capannoni villette e centri commerciali a vanvera sarebbero alla base della crisi mondiale che ci sta attanagliando tutti da qualche anno, e di cui ancora non si intravede la fine. Non è la sparata di un telepredicatore, e nemmeno la constatazione un po’ iperbolica seppur in buona fede di un ambientalista. È invece l’analisi di uno studioso qualificato, ascoltato, con vasta esperienza nel settore immobiliare (sic), nonché fellow della prestigiosa Brookings Institution, ente di ricerca non particolarmente orientato a far sparate a vanvera, per quanto affascinanti e futuristiche, ma a cimentarsi direttamente con la decisione politica e le strategie operative in materia di posti di lavoro, infrastrutture, politica estera, difesa …

Lo studioso è Christopher Leinberger, piuttosto noto da anni perché appartenente a quel variegato fronte multidisciplinare che va dagli architetti di area new urbanism, al sociologo Richard Florida, ai discendenti culturali di Jane Jacobs, insomma a tutti coloro che sostengono un primato dell’ambiente urbano sulla compartimentalizzazione dispersa genericamente detta sprawl, e che invece altri pur prestigiosi e ascoltati commentatori mettono dentro al generico calderone “città”. Non si tratta ovviamente di questione di lana caprina: con una popolazione mondiale in crescita esponenziale e sempre più urbana, dare senso preciso all’aggettivo “urbano” diventa esiziale, tanto quanto decidere quali qualità debba avere il tanto agognato “sviluppo”.

Leinberger, in un recentissimo intervento sul New York Times, generalizza la sua antica convinzione sulla provata “diseconomicità” della dispersione insediativa, individuando la radice della crisi che ci ha travolto proprio nella crisi immobiliare suburbana, e a sua volta le radici di questa crisi, udite udite, nel mercato. Non il mercato che ci raccontano ai telegiornali, oscuro orizzonte fatto di flussi informatici e sadici signori in grisaglia intenti a giocare sulla nostra pelle. Ma il mercato della domanda e dell’offerta. Riassumo in breve (chi vuole si legga la raccolta degli articoli disponibili di Leinberger): dagli anni ’90 si è ribaltata la preferenza di due generazioni discontinue di americani, i baby boomers e i cosiddetti millennials, che non apprezzano più il modello della villetta unifamiliare e di ciò che le sta attorno. I primi stanno andando in pensione e cercano il quartiere urbano ricco di servizi di prossimità, i secondi sono una specie di creative class nel senso di Richard Florida, e vogliono quartieri dove si possa al contempo abitare, lavorare, divertirsi. Entrambi i gruppi non sanno che farsene del barbecue in giardino del sabato sera, o dell’automobile come prolungamento del corpo. Soprattutto non sanno che farsene della casa unifamiliare, che in assenza di domanda crolla di prezzo.

Si badi bene, qui non c’è nessun segnale necessariamente progressista o ambientalista. Per quanto ne sappiamo i pensionati e giovani professionisti possono del tutto coerentemente andare ad abitare in quei ghetti di lusso stigmatizzati da Anna Minton nel suo Ground Control, e illuminarsi e riscaldarsi con energia dalle fonti più micidiali possibili. La tendenza evidenziata da Leinberger però fa proprio pensare a un’idea di sviluppo economico di mercato non più legata al modello petrolifero, automobilistico, in realtà anche consumistico così come siamo abituati a concepirlo, visto che a ben vedere il quartiere urbano induce più consumi di spazio pubblico e immateriali, che di costosa paccottiglia (dalla motofalciatrice al SUV ecc.). Torniamo ora alle dichiarazioni del neoministro italiano per l’Ambiente e al poco che se ne capisce. Non dicono la stessa cosa, in realtà? Non usano allo stesso modo le medesime varianti, mercato, territorio, sviluppo? Se si, qualunque cosa intendesse Clini con la sua “nuova legge urbanistica” si spieghi meglio: qualche presupposto buono dovrà pur esserci. Sicuramente meglio parlare di sviluppo a partire da quella prospettiva, invece di subire tabelline truccate del genere there is no alternative.

p.s. un ragionamento analogo a quello sull'edilizia residenziale suburbana, si applica anche alle attività economich decentrate (f.b.)

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