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Benedetta Craveri
Se il museo è come Disneyland
3 Ottobre 2011
Beni culturali
Nell’intervista a Jean Clair la denuncia della deriva mercantilistica della cultura, sintomo di una perdita della memoria collettiva. Su la Repubblica, 3 ottobre 2011 (m.p.g.)

Prima ancora di apparire in Italia (dove uscirà l’8 ottobre per le Edizioni Skira), L’inverno della cultura di Jean Clair si è imposto all’attenzione pubblica, chiamando in causa il mondo della critica. La sua denunzia della deriva dell’arte contemporanea, ridotta a mero oggetto di speculazione nelle mani di pochi mercanti, non può, in effetti, lasciare indifferenti. Non solo perché viene da un critico insigne, membro dell’Académie française ma anche da uomo del mestiere, già direttore del Museo Picasso e commissario di mostre celebri come quelle monografiche consacrate a Duchamp o a Balthus, o quelle tematiche sulla "Malinconia" o su "Delitto e castigo". La riflessione di Jean Clair non si limita d’altronde ai mali che affliggono il mondo dell’arte.

È, più in generale, la perdita di memoria storica di cui soffre l’Europa, e la crisi di identità che ne consegue, che è al centro delle sue preoccupazioni.

Signor Jean Clair, lei si definisce un reazionario; cosa intende dire con questo?

«Il reazionario è colui che reagisce, obbedendo in questo a una legge quasi generale. In fisica, il mondo è regolato dalla coppia azione/reazione. Nel mondo dell’arte, la vita delle forme è un susseguirsi di azioni e reazioni, il Rinascimento reagisce al gotico, il neo-classicismo al Romanticismo, ecc. Nell’antropologia freudiana, la reazione, l’anamnesi, "il ritorno indietro", è un fenomeno di difesa e di salvezza. Ma senza dubbio mai come ora si è sentita l’urgenza di questa "reazione", di questo ritorno, di questa anamnesi. La celebre formula di Marx: "i filosofi si sono limitati a interpretare in modi diversi il mondo; quel che importa è trasformarlo" è ormai superata. Ciò che oggi importa non è più cambiare il mondo ma conservarlo. Ma un simile sforzo suppone una reazione proporzionale a questo sforzo, senza dubbio smisurato, di salvaguardia. Non sono sicuro che il mondo, almeno quello occidentale moderno, sia ancora capace di provocarla, vista la nostra convinzione della ineluttabilità del progresso, della crescita indefinita, del senso della Storia e via dicendo».

Qual è il posto dell’arte in questa diagnosi?

«L’arte funge da sismografo, da rivelatore estremamente sensibile, soprattutto in quegli empori-depositi che sono i musei. Che senso ha questo accumulo prodigioso di ricchezze? A chi sono destinate e a qual fine? L’arte è sempre stata al servizio di una comunità o di una causa: favorire la caccia presso gli uomini preistorici, conciliarsi la benevolenza delle potenze infere, rappresentare la bontà di un dio, incarnare il progresso dei Lumi, annunciare, accompagnare, illustrare le utopie politiche degli anni ‘30 o, infine, esaltare, come avviene oggi, l’onnipotenza dell’artista: un artista rimasto solo, senza nessuno a cui dovere rendere conto, e che gode del singolare privilegio dell’impunità quali che siano le stupidaggini o le provocazioni senza precedenti delle sue "opere". L’arte per l’arte è al servizio di chi e di che cosa? Quali Lumi e quale Universale possiamo portare noi francesi con la creazione, sotto il patronato del Louvre, di un Museo a Abou Dhabi, nelle sabbie degli Emirati? L’arte ha un senso, una funzione, una destinazione, un pubblico. Un’arte che abbia in se stessa la propria finalità è una buffonata. O, peggio ancora, l’obbiettivo cinico di un mercato di traders».

Qual è stata, a suo giudizio, la frattura irrimediabile, il punto di non ritorno da cui ha preso l’avvio la deriva dell’arte contemporanea?

«Il 1968, l’avvento di una società caratterizzata dall’efebismo e l’edonismo e in cui – a suo dire – non esiste più il male. È anche l’epoca del Women’s Lib, delle manifestazioni contro la guerra del Viet Nam. L’arte non ha più finalità, diventa, con gli happening, le azioni, le installazioni, effimera, transitoria, autodistruttiva. È il momento che Robert Klein chiamerà "L’eclissi dell’opera d’arte"».

Lei dedica pagine di grande interesse alla riproduzione perfetta delle opere d’arte raggiunta dalla tecnologia moderna, in contrasto con la celebre tesi di Walter Benjamin sulla perdita dell’"aura" in un’epoca di riproducibilità delle immagini.

Preferisco un’opera che ritrova la sua destinazione e il suo senso, fosse anche una copia, a un’opera originale dislocata nel vacuum semantico e spirituale di un museo. Benjamin dimenticava che, assieme a quelle popolari, tutte le incisioni da Dürer a Goya, hanno permesso di inondare l’Europa di "repliche" magnifiche. Nel Settecento molte opere d’arte religiosa erano copie originali celebri, magari fatte semplicemente di cartapesta. Solo il culto della firma inimitabile, della mano impareggiabile, del genio unico - tutti fantasmi generati dal culto sfrenato dell’ego romantico - hanno potuto far credere che un’opera non poteva essere riprodotta. In compenso, la delocalizzazione delle opere senza tener conto della loro funzione, com’è avvenuto per la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi, staccata dalla cappella d’origine per essere esposta nella scuola vicina, più adatta ad accogliere folle di visitatori, mi pare uno snaturamento. È quanto avviene oggi con le opere nei musei: il loro accatastamento mi ricorda i cabinets de curiosités, i bric à brac surrealisti, quali che siano i criteri – cronologici, tematici, di paese, di tecniche, di materiali, ecc. – in base ai quali si pretende di ordinarli».

Ne L’inverno della cultura, così come nel precedente Dialogues des morts, lei ribadisce l’esistenza di un legame imprescindibile tra l’arte e il sacro e insiste sulla necessità dell’artista di continuare ad intessere "il filo di un dialogo continuo con il trascendente", sul fatto che l’arte è "un capitale spirituale". Che significato dare oggi a queste parole?

«Tento di descrivere il passaggio dalla "cultura del culto" – quando l’arte, con la musica, la pittura, l’architettura serviva a celebrare Dio nelle cerimonie religiose – al "culto della cultura", una sorta di religione laica e repubblicana che pretende di farci vedere nell’arte la più alta realizzazione del genio umano messo al suo proprio servizio, quello che Nietzsche e i tedeschi hanno chiamato lo Selbstvergötterung, una sorta di auto-deificazione dell’uomo. Tre tappe e, a mio giudizio, tre gradini discendenti: il culto, ossia l’arte e la fede, la cultura, ossia l’arte e l’umanesimo, il culturale, ossia l’arte e il suo mercato».

Lei afferma che "non c’è mai stata cultura senza religione e che quella laica viaggia nel deserto", eppure sembra fare sua la concezione moderna del museo, nato con la Rivoluzione, dove le opere sono esposte secondo una gerarchia dettata dal divenire storico. Non era questa una espressione del tutto laica della cultura?

«Confesso il mio imbarazzo. Il museo come collezione pubblica aperta a tutti è stato creato nel 1793 nel solco della Rivoluzione. Era inizialmente un modo di salvaguardare il patrimonio della Nazione dalle degradazioni, i saccheggi, i vandalismi che accompagnano tutte le rivoluzioni. Era anche il mezzo, per il popolo vincitore, di appropriarsi del passato, della storia, dei suoi testimoni e, grazie al museo e ai suoi tesori, di diventarne in qualche modo il legittimo depositario. Il museo custodiva il patrimonio della Nazione e al tempo stesso serviva da strumento per trasmetterne a tutti la memoria, vale a dire la storia su cui fondare l’identità collettiva. Bisogna però riconoscere che, tre secoli dopo, questo ideale non è stato realizzato. Dei milioni di curiosi rumorosi e indifferenti circolano nelle sale, senza riguardo, senza rispetto per la sicurezza delle opere, ma ugualmente senza più essere in grado di capire, di leggere ciò che hanno sotto gli occhi, che è la loro storia, il loro passato, la loro fede, le loro lotte. Il museo assomiglia ormai a un parco giochi, stile Disneyland. È una cosa derisoria».

Nonostante tutto questo, lei ha espresso più volte il desiderio di potere creare un museo dell’arte europea, stigmatizzando il fallimento di quello di Bruxelles che porta questo nome.

«Sarebbe, in effetti, una grande occasione per restituire al museo, e all’arte che esso racchiude, il suo ideale e il suo significato. Penso a un museo della storia d’Europa, che non solo riunisca una serie di capolavori provenienti da tutti i musei d’Europa a testimoniare l’unicità del suo genio, ma che si sforzi soprattutto di rintracciare la storia del nostro continente, le sue origini, la cristianizzazione, le guerre di religione e quelle di conquista, le imprese coloniali, la nascita dei totalitarismi, l’antisemitismo, i campi di sterminio… Il Deutsches Museum a Berlino ha già tentato di mettere in scena museograficamente una storia della Germania vista attraverso la storia dei suoi vicini europei. È un’iniziativa coraggiosa e spesso sconvolgente. Ma bisognerebbe fare lo stesso su scala europea, perché l’Europa del passato aveva una unità intellettuale e spirituale fatta di circolazione di idee, dove gli scambi letterari, filosofici, artistici erano costanti, immediati, intensi. Ma l’Europa di Bruxelles è un mostro acefalo, un animale senza cervello. Il museo, in quanto entità materiale che espone delle opere aventi l’autorità di capolavori, una autorità che non consenta replica, potrebbe essere quella testa, quel capo superbo e generoso che ci restituirebbe il piacere di guardare, di sentire, di capire e di amare la nostra eredità».

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