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Pietro Barucci
Preferisco il Bauhaus alla Garbatella
11 Ottobre 2011
Luigi Petroselli
La testimonianza di un protagonista dell’edilizia popolare romana. Consensi e dissensi con un grande sindaco, Luigi Petroselli

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Luigi Petroselli moriva tragicamente d’infarto il 7 ottobre 1981, al termine di un appassionato discorso tenuto al Comitato centrale del Pci. Come toccò a un altro famoso parlamentare comunista, Mario Alicata, che qualche anno prima, a soli quarantotto anni, fu schiantato da un ictus dopo un polemico, tempestoso intervento nell’aula di Montecitorio. Per non parlare della prematura fine di Enrico Berlinguer che in circostanze analoghe poneva fine alla sua nobile esistenza nel giugno 1984, dopo il drammatico discorso da una tribuna di Padova. Destini di alto significato umano e politico, comuni ad alcuni esponenti di spicco della sinistra italiana.

Anche Petroselli moriva a quarantanove anni, di cui solo due vissuti nella veste di Sindaco di Roma ed era accreditato, in quanto autorevole uomo di partito, quale ispiratore delle politiche adottate dal Comune fin dal 1976, anno in cui Giulio Carlo Argan era stato eletto primo cittadino di Roma nelle liste del Pci.

Un’elezione che fece epoca, dopo ben tredici Sindaci democristiani e un trentennio dominato dallo scudo crociato; si dice che fosse stato proprio Petroselli a proporre e sostenere la candidatura dell’illustre studioso e storico dell’architettura moderna. Argan, come si sa, restò svogliatamente in carica tre anni, cedendo la poltrona proprio a Luigi Petroselli nel settembre 1979, passaggio forse sollecitato dal Petroselli stesso, deluso dalle gesta del suo protetto, più attento ai rapporti con il Vaticano e con gli illustri visitatori della Città eterna che non agli stringenti problemi della stessa.

Sono peraltro noti i meriti da attribuire a Petroselli, sia nei due anni del suo mandato da Sindaco, sia in qualità di segretario regionale del Pci durante il pontificato di Argan. Nel breve arco di quei cinque anni (1976–1981), nello scenario delle opere pubbliche e soprattutto nella realizzazione dei quartieri romani di edilizia pubblica, accadevano fatti di grande rilievo, a cui la pervicace iniziativa di Luigi Petroselli risultava tutt’altro che estranea e in qualche caso determinante.

Credo sia utile rievocare qui brevemente l’intero decennio, quei “dannati Settanta” e i relativi rivolgimenti, non solo a livello locale, come ho iniziato a fare, ma anche a livello nazionale. Agli inizi, si avvertiva l’influenza degli anni Sessanta, legati al mito dello sviluppo senza limiti, si dava grande importanza all’edilizia pubblica e si aspirava a raggiungere il traguardo di una produzione di trecentomila alloggi annui (limite mai raggiunto). Con la legge 865/71 si promulgava un riordino e un rilancio del settore: la creazione del Cer, organo nazionale di coordinamento, la trasformazione degli Iacp da istituti provinciali a strumenti attuativi di livello nazionale sui quali concentrare i finanziamenti pubblici, le cui leggi ora includevano oltre agli alloggi – udite udite – anche i servizi primari; si confermava inoltre la tendenza a procedere per insediamenti coordinati autosufficienti nelle immediate periferie dei centri urbani. Su queste basi, nella prima metà del decennio, si realizzavano nelle più importanti città italiane grandi quartieri, autoreferenziali e perentori, con i toni di un modernismo europeo. A Roma, oltre ai ben noti Corviale e Vigne Nuove, un esempio tipico fu il Laurentino 38. Nel loro insieme, questi tre quartieri costituivano un programma straordinario omogeneo varato nel 1969–1970, finanziato con settanta miliardi di lire.

Ma l’impatto fu traumatico; si registrò rapidamente un riflusso, l’esigenza di una dimensione minore, di maggiori risparmi, di un habitat più articolato e umano. Nasceva allora la legge 513/77 che introduceva norme edilizie più spartane, con tipologie ridotte e più differenziate, nuovi parametri di controllo economico, l’esclusione dei servizi di base tornati di competenza delle amministrazioni locali. Intanto la cultura scopriva lo storicismo, il recupero, la sostenibilità, una trasformazione del gusto detta post-modern. In parallelo, si adottavano nuove forme operative, quali le concessioni a privati.

Alla fine del decennio, con la legge 25/80 si dava modo ai Comuni, di avviare iniziative autonome, riferite più direttamente alle esigenze e alle risorse produttive locali. A Roma, esempi tipici furono il quartiere di Tor Bella Monaca (dal 1980) e il quartiere Quartaccio (dal1984).

A partire dai primi anni Settanta ho partecipato, con ruoli diversi, alla realizzazione dei quartieri sopra citati, attraversando tutte le tendenze, le normative, le storie che hanno segnato quel periodo, e trovando sul mio percorso tracce dirette o indirette del pensiero e dell’operato di Petroselli, che peraltro non ho mai avuto modo di incontrare di persona. Quelle esperienze, nel loro insieme, sono state tali da indurre Vezio De Lucia a includermi fra coloro che potrebbero fornire qualche testimonianza sui fatti dell’epoca, utile ai fini delle rievocazioni in corso per la ricorrenza dei trent’anni dalla morte di Luigi Petroselli.

Non appena eletto Sindaco, nel 1976, Argan dovette occuparsi di una grana concernente la realizzazione del quartiere Laurentino 38 (per 30/32 mila abitanti), di cui avevo diretto il gruppo di progettazione urbanistica, poi di quella di edilizia sovvenzionata, e di cui a quel punto ero uno dei responsabili della realizzazione nelle vesti di coordinatore generale delle progettazioni e condirettore dei lavori. Il progetto del quartiere Laurentino era nato sotto una spinta innovativa che aveva reso necessario un lungo iter burocratico (ben quattro passaggi in Commissione urbanistica), da cui nascevano forti attese psico-sociali e disciplinari. L’idea fondante del progetto, cosi come quella di altri quartieri Iacp, nasceva sotto l’influsso dei recenti interventi di edilizia pubblica realizzati in Gran Bretagna e in Francia, che fra l’altro avevo visitato di recente.

La grana di cui sopra consisteva nel ritrovamento di resti archeologici di epoca preromana in seguito al quale fu decretato il fermo dei lavori, peraltro in fase avanzata, malgrado la regolare autorizzazione rilasciata dalla Sovrintendenza competente. Gli interessi in ballo erano cospicui e contrapposti, in quanto si doveva scegliere fra il rispetto dell’antico e le urgenze dell’attualità e del moderno. Tutti i rappresentanti delle varie fazioni erano mobilitati e i contrasti apparivano irriducibili. Argan lo studioso, il massimo storico dell’architettura moderna, sembrava il Sindaco ideale per risolvere la questione, e difatti convocò una riunione generale al Campidoglio, fissata per il 13 dicembre 1976 nel suo studio. Le attese erano alle stelle.

L’esito fu deludente, Argan evitò di addentrarsi nella questione, trascurandone la gravità. Esigeva un compromesso e rimandò tutto a un comitato dei rappresentanti delle tre maggiori autorità presenti sul campo: il Comune, l’Iacp e la Soprintendenza. Gli architetti, a cominciare dal sottoscritto, ne furono esclusi. Il comitato – composto da Marcello Girelli, Direttore tecnico della XVI ripartizione comunale per l’edilizia economica e popolare, da Luigi Petrangeli Papini, Direttore centrale tecnico dell’Iacp, e dal Soprintendente La Regina – stilò un accordo che teneva conto solo degli interessi delle amministrazioni da essi rappresentate. Furono disposte tutte le modifiche necessarie alla creazione di un nuovo comprensorio vincolato a parco archeologico. Un classico rattoppo all’italiana, nessuno si curò delle conseguenze che quelle affrettate modifiche avrebbero avuto sulla qualità e sul destino del quartiere.

A mio parere, Argan si comportò da burocrate e non da esponente della cultura internazionale. Venne a mancare quella mediazione colta e illuminata che la situazione esigeva e in cui tutti, a cominciare dal sottoscritto, speravamo. Sta di fatto che da quegli eventi prese avvio una profonda avversione, che peraltro covava da tempo, fra i due corpi separati della pubblica amministrazione, responsabili locali degli interventi sul territorio: il Comune di Roma e l’Iacp romano. I quali presero a fronteggiarsi a tutto campo anteponendo le ragioni di parte agli interessi collettivi, in forza di una profonda differenza fra le loro rispettive origini e culture, fra i loro modi e tempi di lavoro, fra le loro ultime finalità.

Oltre a riconoscere, dopo più di trent’anni, i danni che questa avversione ha causato alla vita dei quartieri realizzati dall’Iacp, e in modo particolare al Laurentino 38, è interessante risalire alle cronache dei tardi Settanta onde cogliere i presupposti culturali di questa diversità, poi degenerata nel caos amministrativo e gestionale. Dal quale, occorre dirlo, discese il totale abbandono di quei quartieri, che fra l’altro condusse alle recenti demolizioni di alcuni edifici ponte al Laurentino 38. Può essere considerato un primo segnale di quella avversione un articolo di Renato Nicolini, trentacinquenne Assessore alla Cultura nella Giunta Argan, apparso sul «Corriere della Sera» nel 1977 in coincidenza con i ritrovamenti archeologici al Laurentino, nel quale il giovane studioso protestava per il carattere insolito dei nuovi quartieri di edilizia popolare, così diversi dalle tradizioni dell’Icp di Sabbatini e di Quadrio Pirani. Più che di un moto momentaneo di fastidio si trattava della classica punta emergente di un iceberg di notevoli dimensioni .

Non si può non ricordare, fra le cause lontane di tanta avversione, la ventata di interesse sollevata nei Sessanta dallo strepitoso housing britannico, nonché da quello olandese e scandinavo e dalla progressista tecnologia industriale francese, tutte conquiste di livello europeo che, come sopra ricordavo, avevano fortemente influenzato i quartieri Iacp varati nei primi Settanta, sull’onda di un nuovo slancio nella ricerca progettuale sostenuta peraltro dalla dirigenza di quell’istituto. Eventi che avevano colto del tutto impreparato il Comune, anche sul piano psicologico oltre che operativo. Troppo grande la differenza fra la mole degli impegni, improvvisi e pressanti, richiesti dalla realizzazione dei nuovi quartieri Iacp e il pigro andazzo degli uffici municipali, incapaci di uscire dalla routine quotidiana. I nuovi quartieri così poco tradizionali, ma soprattutto Corviale e Laurentino, diventavano il classico pomo della discordia, una vetrina delle abissali diversità fra l’attivismo innovatore dell’Iacp e l’inerzia dell’amministrazione capitolina.

Ne fanno fede i comportamenti riluttanti e dilatori delle strutture comunali preposte alle opere di urbanizzazione di quegli odiati quartieri e infine il clamoroso rifiuto degli organi centrali dell’ amministrazione comunale di gestire quei quartieri una volta ultimati, malgrado le intese iniziali di ben diverso tenore. Ne fanno altresì fede alcune scelte di politica amministrativa quale ad esempio l’accordo patrocinato nell’estate 1978 da un Petroselli non ancora Sindaco, fra l’Italstat, l’Isveur e la Lega delle cooperative per un rilancio dell’edilizia pubblica e privata a scala comunale, in certo modo contrapposta ai grandi interventi promossi dallo Stato. Si trattava di un orientamento complessivamente romanista, aperto verso l’imprenditoria locale, sensibile agli aggiornamenti legislativi a scala nazionale, ma lontano da quel modernismo europeo di matrice anglosassone che aveva ispirato i quartieri appena ultimati dall’Iacp. Se ne condannavano l’esotismo, la grande dimensione, il carattere perentorio delle architetture, la disumanità, i sistemi costruttivi, i costi, le difficoltà di gestione, le procedure di affidamento degli appalti.

In antitesi a quel corso, si affermava una cultura locale di stampo più nostrano e dimesso, post-moderna, che guardava alle tradizioni dell’Icp romano, sostenuta dalla rivista «Controspazio» e dal numeroso gruppo di pressione culturale che faceva capo a Paolo Portoghesi. Per ricordare quanto questa avversione fosse profonda e avesse conquistato larghi strati socio-culturali, devo ricordare che essa nacque e prosperò durante tutto l’arco dell’influenza petroselliana culminando, dopo la sua morte, in quel pubblico processo organizzato dal Comune al San Michele nella sala detta dello Stenditoio, nel quale fu nominato quale presidente della Corte improvvisata il noto urbanista milanese Bernardo Secchi, pubblico ministero Paolo Portoghesi, cancelliere moderatore Carlo Aymonino. Si trattò di una messa in scena, il cui fine era quello di screditare i quartieri moderni realizzati dall’Iacp processandone i responsabili: Fiorentino per Corviale, Passarelli per Vigne Nuove, Barucci per Laurentino, De Feo per Val Melaina, tutti presenti al banco degli imputati. La pubblica accusa, sostenuta da Portoghesi e fortemente ispirata dagli ambienti comunali, ebbe la meglio e, senza mezzi termini, in quell’aula fredda e solenne la condanna risuonò così: gli autori di quei progetti non sono stati all’altezza della situazione!

Precedendo largamente tali conclusioni, Luigi Petroselli, prima da “grigio funzionario di partito” e poi da Sindaco aveva coltivato rapporti di collaborazione con importanti operatori privati e pubblici del settore edilizio locale, in vista di una trasformazione radicale del settore stesso, imperniata sul nuovo istituto della concessione a imprenditori privati e che avrebbe dato carattere al successivo periodo Settanta-Ottanta.

Fra tutti, restava fondamentale l’incontro fra Luigi Petroselli e Carlo Odorisio, manager di alto profilo, animatore e presidente dell’Isveur, qualificato istituto privato in cui si associavano i più importanti costruttori romani e che sarebbe diventato uno dei maggiori enti concessionari del Comune di Roma.

Fu in questo quadro che Petroselli, oltre a dare il meglio di sé nella sistemazione dell’area archeologica centrale (ispirata da Antonio Cederna), immaginò la sua creatura prediletta, il nuovo quartiere di Tor Bella Monaca, operazione di punta di cui gli organi tecnici del Comune (Canali, Anna Maria Leone, Paolo Visentini) stesero il progetto urbanistico nel 1979, all’avvio del suo mandato da Sindaco. Il progetto risultò un mirabile compendio delle tendenze maturate in quel periodo: un elaborato urbanistico per 28 mila abitanti volutamente, polemicamente elementare e semplicistico, un ritorno ai primordi. Nulla a che vedere con la complessità, la carica sperimentale dei quartieri moderni dell’Iacp messi sotto accusa, ma fortemente espressivo del nuovo corso immaginato e promosso da Luigi Petroselli.

Devo precisare a questo punto, ancorché non ce ne sia forse bisogno, che questo mio discorso ricorda il procedere incerto di un funambolo sul cavo teso nel vuoto, che impugna il bilanciere di sicurezza (sto leggendo il romanzo Let the Great World spin di Column McCann). Anche io difatti ho intrapreso una traversata pericolosa, parlando della figura di Petroselli in modo favorevole, data la ricorrenza celebrativa, ma non senza riserve, data la mia posizione culturale che spesso mi ha visto schierato in campo opposto. Il pericolo che corro è di cedere d’improvviso al tentativo di denunciare i casi in cui Petroselli si è comportato in modo a mio parere biasimevole e di precipitare così nel baratro della maldicenza, cosa a cui mi devo opporre dato il mio ruolo attuale: il mio compito resta quello di spigolare fra gli argomenti probanti dei suoi meriti, ma è un procedere incerto.

Ma dovendo scegliere fra il localismo (il campanile) e l’internazionalità (Bauhaus e dintorni) ho sempre scelto la seconda, come posso dimenticarlo? Quando il Comune ha rifiutato di prendere in gestione i ponti e le scuole del Laurentino, come concordato, Petroselli come non poteva “non sapere”, che ruolo ha avuto? Quando nel dicembre 1979 la scelta del Comune, come risulta dal rapporto riservato del Direttore centrale tecnico dell’Iacp, Petrangeli Papini del 1° maggio 1984, “di innescare un quartiere della qualità e delle caratteristiche del Laurentino con 100 famiglie di abusivi, sgomberati dal centro della città proprio per eliminare quella che il Comune riteneva una piaga anche per l’ordine pubblico, ha voluto significare compromettere per almeno l’arco di una intera generazione il futuro del quartiere”: e il Sindaco Petroselli ne era il principale responsabile, come posso dimenticarlo?

È sufficiente un ricorso al bilanciere (restare nell’agiografico) per evitare di precipitare? Forse no. La mia partecipazione alla repentina vicenda di Tor Bella Monaca fu intensa e molteplice. L’incarico più importante mi fu affidato dall’Isveur per la progettazione del famoso comparto R5, indicato nel progetto urbanistico originario come una coppia di grandi corti chiuse, per complessivi 1.200 alloggi e 5 mila abitanti. Data l’importanza dell’intervento, il presidente Odorisio aveva ordinato all’uopo un gruppo di ben dieci studi professionali, poi ridotti a otto, di cui mi affidò la direzione, fra cui era in particolare evidenza lo studio di Elio Piroddi, importante e stimato collega con cui ebbi un ottimo rapporto di lavoro. Progettare l’R5 fu un’operazione campale, data la difficoltà e le dimensioni del tema, i tempi iugulatori concessi, la complessità del quadro operativo.

L’organigramma attuativo del quartiere fu un capolavoro, un ingranaggio perfetto finalizzato alla realizzazione contemporanea delle urbanizzazioni, delle abitazioni e dei servizi primari, in tempi estremamente contenuti. Il tutto affidato a un apposito Consorzio concessionario Tor Bella Monaca, formato da Isveur, Consorzio cooperative costruzioni, Interedil e Cooperative Roma, presieduto da Carlo Odorisio. Tutte le progettazioni furono organizzate dall’Isveur, suddivise fra le sezioni di edilizia abitativa, opere di urbanizzazione, edilizia scolastica, verde e arredo urbano, con un efficiente coordinamento esercitato dallo studio Passarelli, che garantì tempi assai contenuti; la direzione lavori fu svolta dallo studio Lotti & Associati per conto dell’Isveur. Furono realizzati, a seguire, il centro civico (studio Passarelli) e il complesso parrocchiale (Pier Luigi Spadolini), architetture di notevole qualità.

Si deve riconoscere che la collaborazione Petroselli-Odorisio, almeno sul piano operativo, ha dato frutti eccellenti. Nell’ottobre 1981, alla prematura scomparsa di Petroselli, i cantieri erano in avanzato corso di lavorazione e sarebbero stati rapidamente ultimati.

Nello stesso quartiere progettai inoltre, stavolta con il mio studio, altri due importanti comparti edilizi denominati rispettivamente M4 e R11, per 300 e 280 alloggi, con finanziamento Iacp, per incarico dell’impresa concessionaria Lamaro. Il mio contributo complessivo alla realizzazione dell’intero quartiere fu pertanto tutt’altro che secondario. A prescindere dagli aspetti attuativi decisamente positivi, devo dire che la riuscita generale del quartiere Tor Bella Monaca non fu migliore di quella dei precedenti quartieri Iacp ai quali si contrapponeva, anche perché rispetto ad essi la qualità complessiva era decisamente inferiore, o solo volutamente diversa quanto ai contenuti strettamente disciplinari.

Quartiere spartano ma unitario nelle architetture, con modesto “effetto città” anche per i grandi spazi vuoti richiesti dagli standard urbanistici, condizionato dalla qualità dell’utenza, condannato al rapido degrado dalla dura realtà della inesistente gestione comunale. La solita musica, con il coro dei benpensanti scandalizzati per i disagi sociali. A cui, incredibilmente, si associa oggi lo stesso Comune, unico responsabile dei rovesci, che ne propone per bocca del Sindaco Alemanno, la totale demolizione!

Trascinato dalla foga narrativa, ho fin qui messo in evidenza due argomenti contrapposti e rappresentativi di un’epoca e che, fra l’altro, mi riguardano particolarmente: il Laurentino 38 (1971-1978) e Tor Bella Monaca (1980-1982). Ho tralasciato la descrizione della breve ma importante fase intermedia (1978-1980) che ha visto la mia partecipazione, assieme agli illustri colleghi Lucio Passarelli e Marcello Vittorini, alla stesura della legge 513/77 che, come ho accennato prima, apportò fondamentali trasformazioni all’edilizia residenziale pubblica sotto il profilo normativo e tipologico.

Seguendo lo spirito dei tempi e gli intenti fondativi della legge, con Passarelli e Vittorini, abbiamo allestito e pubblicato uno studio approfondito delle nuove tipologie edilizie, contribuendo inoltre a stabilire i nuovi parametri di riferimento delle economie e delle semplificazioni perseguite dalla legge in campo progettuale. A riprova e in applicazione del portato della legge, abbiamo anche avuto l’incarico di progettare a Roma il quartiere di Torrevecchia, che fu realizzato dal 1979 e che, nella considerazione generale, resta uno dei migliori quartieri romani di edilizia residenziale pubblica. Alla legge 513/77, oltre a un generale rinnovamento sul piano progettuale, hanno fatto seguito altri provvedimenti di natura affine, fra cui la 457/78 e la 25/80. Fu quest’ultima uno dei principali strumenti che permisero al Sindaco Luigi Petroselli di immaginare e avviare a rapida realizzazione il quartiere di Tor Bella Monaca.

Petroselli resta il Sindaco di Roma più amato e rimpianto, per la sua origine popolare, per la passione con cui si è dedicato all’esercizio del suo mandato.

Spero che in questo ultimo tratto della mia traversata il bilanciere abbia funzionato a dovere.

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