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Giovanni Losavio
In vendita la Mutina trovata sotto l’Ippodromo?
26 Settembre 2011
Beni culturali
Continuano, in maniera perfettamente bipartisan, le deliranti proposte di svendita del nostro patrimonio culturale. Il caso di Modena. Scritto per eddyburg, 26 settembre 2011 (m.p.g.)

A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali.

Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città. E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio.

La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi? Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo.

Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park. Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.

A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali. In vendita la Mutina trovata sotto l’Ippodromo?Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città.

E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio. La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi?

Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo. Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park.

Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.

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