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Serena Righini
Cronache di Milano e provincia, dove la ‘ndrangheta è di casa
1 Novembre 2011
Recensioni e segnalazioni
Le mani sulla città di Gianni Barbacetto e Davide Milosa (Chiarelettere): la criminalità componente accettata del sistema imprenditoriale padano

Sono molti i nomi della politica locale e nazionale (dall’ex Sindaco di Buccinasco, Loris Cereda, arrestato per corruzione nel 2011 fino al Senatore della Repubblica, Marcello Dell’Utri, passando per ex consiglieri comunali ed ex assessori regionali) che, nelle pagine di “Le mani sulla città”, compaiono affiancati a cognomi imbarazzanti della criminalità organizzata, della ‘ndrangheta in particolare. Relazioni tra politici e mafiosi così intricate da apparire come una matassa: intercettazioni telefoniche, appuntamenti e strette di mano che hanno come sfondo i locali più alla moda della movida milanese. Qui si concludono i migliori affari: voti in cambio di appalti, sia pubblici che privati. Seppure alcune ipotesi siano, per stessa ammissione degli autori, ancora da dimostrare, le coincidenze e gli intrecci con le sentenze delle inchieste “Infinito”, “Parco Sud” e “Cerberus”, tutte coordinate dalla Procura di Milano e che hanno portato all’arresto di centinaia di ‘ndranghetisti domiciliati nella provincia milanese, delineano uno scenario lùmbard degno della Palermo dei tempi d’oro, quelli di Vito Ciancimino.

Le vicende della Palermo del Secondo Dopoguerra, che sono passate alla storia con il nome di “Sacco di Palermo”, hanno portato a una delle più grandi speculazioni edilizie dell’intera storia italiana: in 4 anni, dal 1959 al 1964, furono concesse più di 4.000 licenze edilizie, di cui l’80% intestate a cinque prestanome mafiosi. Un intreccio di politica, corruzione e criminalità che Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, riassume così nel libro scritto con Francesco La Licata “Don Vito”: “Sono gli anni in cui si definisce il profilo di una città ostaggio della mafia e di una politica fortemente condizionata dal malaffare. Una sinergia tra amministratori e politici da un lato e capi di Cosa Nostra dall’altro”. Massimo Ciancimino spiega inoltre come avveniva la spartizione degli appalti pubblici e la gestione dei conseguenti subappalti: per stabilire gli accordi fra i soggetti interessati venivano convocate riunioni che si tenevano in luoghi ogni volta diversi, a seconda degli interlocutori coinvolti, alle quali partecipavano rappresentanti delle diverse famiglie mafiose, elementi del mondo dell’imprenditoria siciliana e uomini delle istituzioni.

A Milano ci sono soprattutto le cosche calabresi ma le dinamiche e i rapporti tra esponenti istituzionali, politici e capi clan appaiono tragicamente simili.

A Milano e hinterland “l’edilizia è roba loro”

Molte delle vicende narrate nel libro riguardano l’edilizia milanese e raccontano la metamorfosi dei clan calabresi: i capi-bastone domiciliati al Nord parlano correttamente l’italiano, amano la bella vita, frequentano i locali alla moda e fanno shopping in via Montenapoleone ma la sostanza dei loro affari è la stessa dei loro parenti rimasti nella Locride. Si occupano soprattutto di scavi e movimento terra ma anche di edilizia, ristorazione, gestione dei locali notturni, gioco d’azzardo e di droga, naturalmente.

I Barbaro e i Papalia sono famiglie di spicco della ‘ndrangheta milanese che, con il matrimonio che ha unito i rispettivi rampolli, si sono fuse (come se si trattasse di una normale operazione tra società per azioni) per diventare il clan più potente di Milano e hinterland. Risiedono a Buccinasco, un paesone della periferia sud-ovest di Milano formato da palazzine e villette immerse nel verde; a guastarne l’atmosfera incantata c’è solo qualche bar sport con la strana abitudine di avere sentinelle all’ingresso che pedinano i clienti non abituali. In questi locali i boss calabresi, in giacca e cravatta, si incontrano e decidono le prossime mosse.

I loro uomini fissano le percentuali sui lavori di scavo e sulle opere di urbanizzazione della zona, stabiliscono i cantieri di rilievo nei quali occorre esserci e selezionano i nominativi delle ditte subappaltatrici, ricorrendo anche alla violenza per far valere i propri interessi, se necessario. Incendi di capannoni e automezzi sono le operazioni tipiche alle quali ricorrono per convincere quelle ditte che ancora non vogliono cedere alle estorsioni oppure per regolare i conti con le altre cosche presenti sul territorio, con le quali l’apparente pax è sempre precaria. Antichi rancori e nuove vendette sono le cause delle esecuzioni consumate nel profondo Nord, molte delle quali hanno trovato spazio nelle sezioni di cronaca nera locale senza che nessuno però ne cogliesse i veri moventi.

Limpide ragioni sociali a servizio dei clan

Impossibile comprendere come sia potuta avvenire questa colonizzazione mafiosa di Milano se si tralascia il ruolo della cosiddetta “zona grigia”, cioè quella parte di società costituita da imprenditori puliti ed incensurati che si offrono come prestanome per aggiudicarsi appalti che verranno poi ceduti ai clan grazie al meccanismo del subappalto. La “zona grigia” offre, così, la propria ragione sociale pulita per nascondere affari illeciti. Operazioni rischiose ma certamente convenienti per bilanci aziendali che non potrebbero registrare simili fatturati senza il supporto dei boss calabresi.

L’economia lombarda viene così distorta, l’intero tessuto imprenditoriale è inquinato e tutto questo si ripercuote negativamente sulla competitività dell’intero sistema produttivo e sulla qualità del territorio.

Dal 1988 i Barbaro e i Papalia, grazie all’appoggio di qualche imprenditore locale “dal carattere mite e dallo stile di vita normale e senza eccessi” che accetta di diventare loro socio in affari, realizzano una serie di operazioni immobiliari che fanno esclamare al boss: “Ma ti rendi conto? Abbiamo fatto una città!”. Una città di complessi residenziali la cui edificazione prevede appalti per il movimento terra per due milioni di euro, tutti affidati alle imprese amiche, di capannoni che rimangono vuoti, edificati per ripulire denaro proveniente dal traffico di cocaina, di cantieri nei quali lavora mano d’opera proveniente direttamente da Platì, spesso ricercati che lavorano gratis in cambio di protezione, di giardini pubblici realizzati su terrapieni riempiti con macerie contaminate da sostanze tossiche provenienti da chissà dove. Questo è il biglietto da visita di Buccinasco, poco più di mezz’ora di strada da Piazza Duomo.

Chi paga?

Un sistema in cui, se da un lato le imprese prestanome applicano prezzi gonfiati per garantire i guadagni di tutta la filiera malavitosa, dall’altro quelle che accettano di pagare il pizzo per poter lavorare in pace inseriscono nuove voci nei propri bilanci per giustificare uscite altrimenti sospette. Peccato che il conto finale sia poi destinato ad essere pagato da qualcun altro, le comunità locali, di solito. La ‘ndrangheta fa affari con una classe di imprenditori consapevoli e consenzienti, pronta ad assecondare i propri estorsori in cambio di lauti guadagni il cui onere ricadrà completamente sull’inconsapevole e sprovveduto compratore finale non solo in termini strettamente economici ma anche sanitari: case e strutture pubbliche costruite su terreni inquinati hanno, come è facilmente immaginabile, effetti deleteri sulla salute dell’intera cittadinanza.

Le prime pagine del libro riportano una dichiarazione di Ilda Boccassini, procuratore aggiunto a Milano, che denuncia l’esistenza in Lombardia di un tessuto imprenditoriale che trae massimi vantaggi a fare affari con la ‘ndrangheta: “continua a non esserci una folla di imprenditori davanti alla mia porta, nonostante non si fermino i danneggiamenti, gli atti di intimidazione, gli incendi… Non è solo per paura che gli imprenditori non denunciano”.

Dopo aver letto queste ricostruzioni ci si può forse ancora stupire di come molte analisi economiche sul contesto milanese denuncino una progressiva perdita di competitività di questo territorio? Qui, peraltro, per far fronte alla crisi, le istituzioni hanno attuato una forte de-regolamentazione del sistema che, in nome della sburocratizzazione e dell’efficienza, favorisce, di fatto, le infiltrazioni dell’economia illegale che, come è noto, in un contesto normativo di sregolazione, traggono i massimi benefici. In tutto questo tempo dov’era la tradizione di moralità della società civile milanese? E quel tessuto produttivo così all’avanguardia e operoso (ma forse è rimasto tale solo per qualche politico che usa questi slogan per giustificare istanze di secessione improponibili) che si è arreso così presto alla conquista dei clan? E dove sono, ora, quegli anticorpi padani così attivi a tuonare contro Roma ladrona? Tutti ipnotizzati, chi per convenienza e chi per quieto vivere, dal mantra della coppia Moratti – Lombardo, che per anni si è sgolata assicurando che “la mafia a Milano non c’è. Non esiste. Non qui”?

Strappare le mani dalla città

La speranza è che libri di denuncia come questo servano per convincere irrevocabilmente qualche anima bella (per la verità in costante diminuzione dopo le operazione di sensibilizzazione promosse dalla nuova Giunta di Pisapia) che la mafia, o meglio, la ‘ndrangheta, a Milano c’è, esiste, è di casa oramai da parecchio tempo e che il problema non attiene solo al campo sociale e culturale: la criminalità organizzata si infiltra nel tessuto economico e lo plasma a suo uso e consumo, per i suoi interessi, che sono in antitesi con quelli di chi persegue (o dovrebbe perseguire) il bene comune. Un sistema economico infiltrato dagli interessi mafiosi oltre che arricchire interessi privati e criminali compromette il futuro del territorio, lo inquina per guadagnare, lo cementifica per speculare e ostacola il radicarsi delle realtà imprenditoriali emergenti e innovative che possono guidare l’intera area milanese verso uno sviluppo sostenibile.

Alla nuova Giunta cittadina, che ha dato prova di conoscere la reale portata del problema e di volerla affrontare, anche in vista dei lavori per l’Expo, l’arduo compito di recidere ed estirpare queste mani che, nel corso degli anni, hanno progressivamente oppresso Milano e l’hinterland comprando, con automobili di lusso e conti all’estero, una classe di dirigenti pubblici e di imprenditori che Milano - e l’Italia - non si merita.

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