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Stefano Guidarini
1938. Il tradimento delle immagini: il piano Milano Verde del 1938
16 Agosto 2011
Pagine di storia
Le contraddizioni (a dir poco) della cultura urbanistica di una intera generazione di “maestri” del razionalismo italiano, in una interessante lettura critica da Territorio n. 57, 2011 (f.b.)

(per motivi di spazio sono state omesse Note, immagini e Bibliografia, per cui naturalmente si rinvia alla pubblicazione cartacea)

Il piano Milano Verde, elaborato nel 1938 da un gruppo di progettisti legati a Giuseppe Pagano e alla rivista Casabella, rappresenta un singolare caso di scollamento tra immagine e realtà. Come ne La liahison des images di Rene Magritte, che raffigura una pipa seguita dalla dicitura ceci n' est pus une pipe, tra la rappresentazione di un oggetto e la sua realtà vi è la stessa distanza che possiamo trovare tra l‘immagine di questo piano urbanistico e i suoi reali contenuti insediativi. Che il piano Milano Verde abbia affermato e consolidato il proprio ruolo soprattutto in quanto icona è confermato dal fatto che, negli ultimi 40 anni, sono stati presentati esemplari del plastico in diverse esposizioni, senza tuttavia che si entrasse mai compiutamente nel merito qualitativo e quantitativo del progetto. Ed è proprio grazie alla forza della sua immagine 'dimostrativa' che il piano è stato ideologicamente assunto dalla storiografia contemporanea come un vero e proprio quartiere-modello.

Ad esempio, nel 1979 Francesco Dal Co affermava che questo «rigoroso» progetto rappresentava una delle «testimonianze» delle «battaglie degli architetti razionalisti» nel periodo tra le due guerre; secondo Antonino Saggio, Milano Verde «presenta una gerarchizzazione tra i volumi, una calibrazione attenta dei servizi e del verde, un corretto orientamento degli edifici che si richiamano alle esperienze di Gropius e di Oud, che faranno scuola tra i giovani architetti». Anche per Arturo Carlo Quintavalle il rapporto più ovvio di Milano Verde «è ancora con la progettazione di Gropius per i quartieri popolari di Dessau»; mentre per Cesare De Seta il piano divenne addirittura un punto di riferimento per il razionalismo, al punto che «il piano per un quartiere operaio a Rebbio di Terragni e Sartoris può considerarsi un [suo] ideale completamento».

Lo stesso Ignazio Gardella, uno dei progettisti del piano, nel 1986 lo aveva legato alle esperienze tedesche, riconoscendone peraltro i limiti culturali: «il progetto di Milano Verde del gruppo Pagano, di cui anch'io facevo parte, aveva un'evidente parentela con le famose 'Siedlungen' delle città tedesche e un impianto molto rigido, con il costante ossessivo allineamento dei fabbricati secondo un unico, asse di orientamento. Non è certo un modello da riproporre oggi, neanche come modello di riferimento».

Questi giudizi, che accomunano frettolosamente Milano Verde ad altre esperienze del tutto eterogenee tra loro di quartieri popolari, le Siedlungen tedesche, Gropius, Oud, Terragni e Sartoris, ecc.) potrebbero far pensare a un'idea di coesione e di coerenza del razionalismo che non è assolutamente mai esistita ne in Europa ne tantomeno in Italia. Rispetto alle polemiche e alle divisioni culturali del Movimento Moderno in ambito europeo, la vicenda dell'architettura italiana degli anni Venti e Trenta si presentava ancora più sfaccettata e sfrangiata, tra una tradizione accademica molto forte e radicata, tra le esperienze artistiche autoctone del Novecento, dell'arte Metafisica e dell'avanguardia Futurista e tra un codice linguistico 'moderno' d'importazione europea. In quel periodo l'architettura rivestiva un ruolo politico di primaria importanza come strumento di regime per ottenere il consenso popolare. In Italia l'architettura moderna era soprattutto una questione di stile, nel tentativo - quanto mai votato all'insuccesso- di promuoversi come «arte di Stato», secondo la formula coniata da Pietro Maria Bardi.

Non a caso già ne1 1933, in occasione della V Triennale, Edoardo Persico aveva decretato la fine del razionalismo italiano, da lui ritenuto niente più che «un bisogno artificioso di novità» o un'«imitazione dell'estero», per sottolineare come sotto l'ombrello di comodo del razionalismo si radunassero troppi architetti, pochi per reale convinzione e molti per convenienza professionale. L'architettura moderna italiana si riduceva quindi, in molti casi, a un tentativo di autopromozione tramite l'espressione di uno stile d'importazione mescolato ad alcuni equivoci linguistici quali la 'mediterraneità' e la 'romanità', che avrebbero dovuto confermare una presunta tradizione italica della modernità, incrociata con il classicismo quale carattere genetico dell'arte italiana.


Lo stesso contesto milanese in quel periodo era tutt'altro che unito, nonostante molti storici abbiano esaltato a più riprese, con toni epici" il luogo comune delle cosiddette «battaglie degli architetti razionalisti». Tra il 1933 e il 1936 i principali riferimenti milanesi erano costituiti dalle redazioni delle riviste: Domus di Gio Ponti, Casabella-Costruzioni diretta da Persico e Pagano (attorno alla quale si riunivano soprattutto Albini, Palanti, Romano e Gardella) e Quadrante, alla quale erano maggiormente legati i Bbpr, Figini e Pollini, Terragni.

Quindi, sotto le etichette dei termini 'razionalismo' e 'moderno' in quegli anni si accavallavano diverse linee culturali e progettuali, all'insegna di una volontà d'innovazione e, soprattutto, di affermazione professionale. Non vi era assolutamente una tendenza predominante, ma una compresenza d'atteggiamenti diversi, accomunati dalla volontà di contribuire a costruire l'espansione di Milano secondo il nuovo Piano Regolatore di Cesare Albertini de1 1934.

Il Piano Milano Verde fu presentato su Casabella-Costruzioni nel 1938, con un saggio introduttivo di Giuseppe Pagano dall'impegnativo titolo L'ordine contro il disordine, nel quale si scomodava perfino il Libro della Genesi per introdurre il tema del reticolo ortogonale come conquista della civiltà. Il disordine rispetto al quale Milano Verde voleva intervenire non era tanto quello della situazione esistente, quanto quello della pianificazione allora in atto, il Piano Albertini, che in quell'area prevedeva la lottizzazione della Fiera e dell'ex-scalo ferroviario lungo via Pallavicino, con un disegno piuttosto complesso di strade diagonali.

Il settore urbano interessato dall'intervento, compreso tra l'area della Fiera e Corso Sempione, aveva un'estensione territoriale di circa un milione e mezzo di metri quadri. Milano Verde nasceva anche come esplicito tentativo di concretizzare una serie di rilevanti trasformazioni urbane che si presentavano a quel tempo, con alcune impressionanti coincidenze con la Milano contemporanea di questo primo decennio del XXI secolo. Ne1 1938, infatti, oltre che della trasformazione dell'area dello scalo ferroviario di smistamento s'iniziava a parlare anche del trasferimento della Fiera e dello spostamento delle caserme tra via Mario Pagano e via Reggimento Savoia di Cavalleria, altri temi d'attualità dopo oltre settant'anni. È soprattutto su queste aree di proprietà pubblica e su quelle private ancora libere che il piano Milano Verde giocava le proprie possibilità di realizzazione. In questo senso, questo progetto aveva senz'altro una valenza culturale ma, privo com'era di una vera e propria committenza, assumeva anche i connotati di un vero e proprio progetto promozionale.

Come già detto, Milano Verde si presentava con la nitida immagine del quartiere fondato sul principio dell'edilizia aperta, nel quale assumeva una certa importanza il corretto distanziamento degli edifici e una caratterizzazione specializzata degli spazi aperti ('verde' pubblico e privato, strade, giardini, parcheggi). Quello che viene proposto è un vero e proprio masterplan ante-litteram, cioè un sistema di lottizzazione di iniziativa privata destinato a un mercato di edilizia borghese di livello medio-alto. A questo proposito, uno delle letture più attente di questo piano urbanistico è stata quella di Guido Canella il quale, pur senza addentrarsi in un'analisi puntuale, ha osservato come Milano Verde risulti «funzionalmente distorto dal paradigma del quartiere razionalista e che è improprio attribuirgli un 'ideologia ed una strategia aderenti al Movimento Moderno internazionale», per la sua destinazione al ceto borghese medio-alto anziché alla classe operaia; per la " dimensione di molto superiore all'unità minima teorizzata dai Ciam (il piano prevede un insediamento di 45.000 abitanti contro quella che è l'unità minima di 6.000-7.000); per la sua stretta dipendenza e complementarietà al centro storico; per non essere un quartiere auto-sufficiente e per la dotazione, la qualità e la gestione dei suoi servizi.

In effetti, saranno ben altri i progetti nei quali gli architetti milanesi affronteranno più compiutamente il tema della residenza popolare e del quartiere autosufficiente. Nel 1940 Giuseppe Pagano, Irenio Diotallevi e Franco Marescotti presentano il ben più radicale Progetto di città orizzontale applicato al caso pratico di Milano tra via Brera e via Legnano19. Nel 1940 L'Istituto Fascista Autonomo Case Popolari (Ifacp) commissiona a un gruppo abbastanza eterogeneo, composto da Albini, Bottoni, Cerutti, Minoletti, Palanti, Pucci e altri il progetto di Quattro città satelliti alla periferia di Milano da realizzarsi in aree esterne rispetto alla città. Questi quattro progetti rappresentano uno dei contributi più significativi al tema del quartiere popolare. Inoltre, verranno realizzati, sempre per l'lfacp, i quartieri Fabio Filzi (1936-1938), Gabriele d’Annunzio (1939), Ettore Ponti (1939) su progetto Franco Albini, Renato Camus e Giancarlo Palanti.

Un montaggio di questi progetti del triennio 1938-1940 su una planimetria di Milano del 1936 mostra l'estensione dimensionale degli interventi rispetto al corpo della città. Da questo collage si nota come l'orientamento principale dei progetti sia prossimo a quello nord-sud, con due significative eccezioni, costituite dai progetti localizzati lungo la strada del Sempione: il quartiere Ifacp Costanzo Ciano in viale Certosa e proprio il piano Milano Verde. Soprattutto in quest'ultimo caso, è evidente come sia stato assunto l'orientamento del tessuto urbano già consolidato del Piano Beruto lungo Corso Sempione.

Milano Verde è un progetto di ricucitura urbana, che riallaccia i fili della maglia berutiana impostata sull'asse del Sempione, assumendone le direttrici principali. La viabilità è risolta secondo un principio di gerarchia funzionale legato al nuovo ordine ortogonale che viene impresso a tutto il settore urbano. Sono cancellate in modo definitivo le diagonali e i tracciati fuori squadra della Fiera e dell'ex-scalo di smistamento. All'interno delle direttrici principali che si legano ai tracciati esistenti si sviluppa una serie di strade secondarie di distribuzione ai lotti residenziali, vere e proprie «strade giardino», come sono definite dagli stessi autori.

Di fatto, Milano Verde tentava di coniugare due modelli urbani tra loro inconciliabili: quello dell'edificazione intensiva e quello della città-giardino. Il tentativo dei progettisti milanesi era quello di dimostrare che l'urbanistica moderna poteva essere conveniente dal punto di vista immobiliare, facendo coesistere in modo realistico e pragmatico la densità urbana con la qualità dell'abitare.

Il tema della densità era legato alla specificità del luogo e rappresentava la volontà di rispondere realisticamente alle opportunità del mercato immobiliare utilizzando i suoi stessi strumenti. Infatti, questa zona della città era già allora considerata di notevole pregio, al punto da essere definita come «il salvadanaio di Milano».

I lotti residenziali si inquadrano in un sistema di isolati di circa 110 x 220 m, che si sviluppa secondo le misure e gli orientamenti del Piano Beruto. Benché sia un concetto improprio in questo caso, è possibile quindi individuare un 'tessuto' prevalente di edifici in linea di 6 piani fuori terra (chiamati dai progettisti «case basse»), che insistono su lotti edificabili con un giardino privato. In totale vi sono 152 lotti di case a sei piani. Questo tessuto di «case basse» è interferito da due elementi principali. Il primo è costituito dalle «case alte», di 20 piani fuori terra, che sono in totale 15 (4 lungo Corso Sempione e 11lungo la Via Trionfale, prolungamento di via Vincenzo Monti) .Coerentemente con i principi dei Ciam, gli edifici sono distanziati in base all'altezza (il rapporto è più o meno 1/1).

L'indice di utilizzazione territoriale è di 1,06 mq/mq. È importante notare il peso che ha la viabilità urbana, pari a 658.719 mq per un totale del 42% del totale, addirittura superiore alle aree edificabili, di 638.685 mq (41 %). Ogni trenta metri era prevista una strada di accesso alle abitazioni, il che non permetteva certo di risolvere al meglio la distribuzione. Se gli isolati fossero stati accorpati a due a due si sarebbero ottenuti giardini più grandi e si sarebbe ridotta quasi della metà la superficie stradale. Un gruppo di 17 ville urbane si dispone lungo la fascia verde, con un peso insediativo del tutto trascurabile. Altre interferenze puntuali inglobate nel disegno sono costituite dalle preesistenze, come il velodromo Vigorelli.

Il secondo tema, quello della dttà-giardino, per sua natura estensivo e quindi antitetico a quello della densità, vuole costituire una critica alla città ottocentesca. Al principio moderno dell'edilizia aperta viene abbinato il tema del verde privato diffuso. In questa combinazione di verde privato e di edificazione in linea (nella relazione di progetto si usa il termine «edifici a .schiera» ) si possono trovare le principali analogie con la città giardino. Ma una città-giardino densa come Milano Verde è un ossimoro urbanistico; gli edifici di sei piani con i giardini privati antistanti sono di fatto inconciliabili con i principi della città-giardino.

Paradossalmente, in Milano Verde il peso insediativo del verde è molto basso. Il verde pubblico è solo il 12% della superficie territoriale, come dichiarato dagli stessi autori. Quello che è chiamato «parco» in realtà è un giardino urbano, più o meno delle stesse dimensioni di quello attuale di via Pallavicino sull'ex- scalo ferroviario. Il verde privato è più del doppio: in totale i giardini condominiali incidono per il 25,5% della superficie. Resisi conto della scarsità di verde, i progettisti hanno sommato le due quantità, dichiarando che il verde totale è il 37,5 % , anche se più di due terzi è privato.

Lo stesso Pagano aveva evidentemente sentito il bisogno di ritoccare le foto del plastico pubblicate su Casabella-Costruzioni per accentuare la percezione del verde. Anche gli spazi per i parcheggi pubblici sono molto ridotti, solo il5 % della superficie territoriale totale. Un confronto con la pianificazione attuale non ha ovviamente alcun valore critico, ma è comunque utile come termine di paragone: se Milano Verde fosse un odierno piano attuativo sarebbe ben al di sotto della dotazione di servizi richiesti. La realizzazione del piano si doveva articolare in tre fasi, anche in relazione alla demolizione degli edifici esistenti .La prima fase prevedeva la lottizzazione delle aree libere, dell'ex scalo ferroviario e degli isolati ancora non lottizzati. La seconda fase prevedeva la demolizione della Fiera e delle caserme di via Mascheroni. La terza e ultima fase rappresentava un completa- mento del disegno urbano.

Nonostante il plastico e le prospettive d'insieme mostrino una totale omogeneità architettonica, questa viene sorprendentemente negata nelle due viste prospettiche ravvicinate, che raffigurano una strada residenziale secondaria e la Via Trionfale. Il piano insegue infatti una notevole flessibilità realizzativa, in quanto i lotti lineari si possono suddividere secondo diverse modalità, come si vede nella tavola degli «schemi delle varie possibilità di suddivisione dei lotti per abitazione». Fatti salvi alcuni parametri fondamentali (il principio dell'edilizia aperta, lo spessore del corpo di fabbrica, l'altezza di gronda) ciascun edificio può quindi essere progettato e realizzato da operatori diversi. A detta degli stessi progettisti, infatti, «il regolamento di lottizzazione offre la possibilità dei più svariati raggruppamenti di volumi, di colori e di forme per ottenere, pur nell 'indispensabile controllo di un ordine generale, una varietà nel particolare e una vivacità nel dettaglio in modo da eliminare quella eventuale 'monotonia' che è l'ossessione del borghese, che pur si compra i vestiti fatti e sogna l'automobile 'di serie'»26. Quindi, pur auspicando una «sorveglianza artistica e tecnica totalitaria» per tutte le opere d'urbanizzazione, il verde, gli edifici pubblici egli spazi di uso pubblico, il piano accetta il tema della varietà architettonica degli edifici privati.

L'immagine urbana che ne consegue è dunque molto lontana da quella uniforme dei quartieri popolari di quegli anni, ma è molto più vicina alla varietà della città ottocentesca. Edifici moderni si accostano l'uno all'altro, accanto a diversi esempi novecentisti. La possibilità di suddivisione degli isolati lineari, peraltro regola- ta nel dettaglio e illustrata in ben tre elaborati grafici, è del tutto simile ai meccanismi di frazionamento immobiliare dell'isolato ottocentesco. E proprio qui nasce una delle più interessanti contraddizioni di questo piano: di fatto, i lotti residenziali con giardino non sono altro che degli isolati ottocenteschi 'stirati' e trasformati in elementi lineari, dove il giardino prende il posto del cortile condominiale. La differenza sta nel passaggio dalla forma chiusa dell'isolato a quella aperta dell'elemento in linea, ma il meccanismo di costruzione della città è lo stesso. Inoltre, gli edifici affacciati sul giardino non fanno altro che riproporre, in forma diversa, i rapporti della città ottocentesca. È difficile pensare che gli affacci sul giardino siano del tutto equivalenti a quelli sulla strada posteriore. Questi apparenti edifici lineari hanno poco in comune con il principio dell'edilizia aperta, sono pezzi di isolato con un fronte verso i giardini e un retro verso la strada posteriore.

Milano Verde non fornisce alcuna idea tipologica degli edifici residenziali. L'unica indicazione è quella relativa allo spessore dei corpi di fabbrica, di 13 metri. Questa vaghezza è dovuta al fatto che non c'era alcun bisogno di ulteriori indicazioni in quanto, essendo un piano fondato sull'iniziativa privata, doveva avere il massimo grado di generalità e di flessibilità. Le piante degli alloggi sarebbero quasi sicuramente risultate del tutto simili a quelle della città ottocentesca, con il tradizionale corpo doppio, il muro (o i pilastri) di spina e il corridoio di distribuzione centrale.. È negli spazi pubblici che Milano Verde esprime i suoi aspetti più interessanti. Anche in questo caso si misura comunque una significativa presa di posizione rispetto al tema della strada. In- fatti la via 1ìionfale, costituita da carreggiate stradali e tramviarie e da un percorso pedonale porticato su due livelli, recupera in pieno il ruolo della strada urbana come «valore di architettura civile» e non solo come arteria di scorrimento veicolare. Il percorso in quota conduce a una piazza sopraelevata situata al centro del progetto, intorno alla quale si trovano gli edifici di uso pubblico: un caffè, un cinema-teatro, una loggia.

Da questo punto una passerella conduce al parco, suddiviso in due parti dal prolungamento di via Domodossola. Il disegno degli spazi pubblici è studiato con molta accuratez- za. Particolarmente interessante è anche l'uso dell'acqua nel disegno urbano.

Il piano Milano Verde non ha avuto seguito, anche per il sopraggiungere della guerra. Tuttavia vi sono state alcune significative ricadute di questa esperienza, soprattutto per la chiarezza dimostrativa, quasi didattica, del suo impianto urbano. Nel 1948 viene presentata una proposta progettuale denominata «Fiume verde» sull'area dell'ex-scalo ferroviario, ad opera di Giulio Minoletti e Gio Ponti. Minoletti, uno dei progettisti di Milano Verde, cita espressamente l'esperienza di dieci anni prima, rispetto alla quale viene ripreso il tema del rapporto con gli spazi aperti, ma con una maggiore libertà compositiva ed una maggiore varietà tipologica. Proprio sulla base di quest'ultima esperienza, che riprende il tema dell'edilizia aperta alternando edifici a torre e palazzine di limitata dimensione, viene redatto negli anni' 50 il Piano Particolareggiato della zona Sempione- Fiera29, come attuazione del Prg del 1953 (fig. 19). La planimetria generale del Piano Particolareggiato ha pochissime congruenze planimetriche con I' analoga porzione di Milano Verde, il cui orientamento sud-est/nord-ovest è alternato con orientamenti ad esso ortogonali.

Di Milano Verde rimane comunque una evidente conseguenza architettonica, che mostra una singolare continuità con il progetto originale: il Palazzo Ina di Piero Bottoni in Corso Sempione a Milano, realizzato nel 1953-1958, che riprende alla lettera la volumetria e la collocazione del quarto degli edifici alti disposti a pettine lungo Corso Sempione.Questo edificio isolato, forse troppo isolato, rappresenta un vero e proprio frammento di quest'esperienza milanese de1 1938, la cui vera natura è rimasta a lungo celata dietro la sua candida immagine.

La vera natura, sfuggente e contraddittoria, di questo progetto contribuisce a mettere in crisi, con la sua ambiguità tra idealismo e realismo, quel quadro semplicistico dell'architettura moderna fatto di fragili catalogazioni e di rassicuranti luoghi comuni. Questa vicenda è la riprova di come il razionalismo a Milano si realizzi nella sua progressiva scomparsa, o se vogliamo nella sua progressiva trasfigurazione in entità espressive difficilmente catalogabili o, peggio ancora, etichettabili. Realismo, sperimentazione, rapporto con la storia, tradizione/tradizioni, compromessi, illusioni: in questa vicenda ci sono tutte le parole-chiave delle diverse vie che caratterizzeranno una parte significativa dell'architettura italiana nel secondo dopoguerra.

Questa rilettura di Milano Verde è basata solo su documenti noti e alla portata di tutti da 73 anni, cioè dalla data della loro pubblicazione. Ritroviamo qui la conferma dell'importanza dello studio delle opere e dei documenti per ricostruire la realtà dei fatti e la storia delle idee. Il fatto che molti studiosi si siano fermati a un livello di lettura quantomeno parziale di questo piano è abbastanza sorprendente, e si può forse spiegare proprio da un punto di vista metodologico.

Tralasciando gli episodi di superficialità, da escludere in quasi tutti i casi citati, le vicende dell'urbanistica e dell'architettura viste attraverso la lente deformante dell'ideologia permettono di cogliere solo aspetti parziali e distorti della realtà, legati a contenuti dimostrativi e propagandistici. Ma forse il ruolo che Milano Verde ha assunto nella storiografia moderna è stato proprio ciò che la cultura architettonica voleva inconsciamente sentirsi raccontare. In fondo, le ambiguità di questo progetto sono talmente inquietanti da essere state rimosse. L'immagine di «ordine contro il disordine» propagandata da Pagano è forse poco veritiera ma certamente rassicurante. I plastici che abbiamo avuto sotto gli occhi, sia quello originale (andato perduto, a quanto risulta), sia quelli realizzati per le varie esposizioni, mettono in scena un'immagine urbana ordinata e convincente, spesso impropriamente imitata da molti progettisti come una sorta di antidoto contro il caos metropolitano contemporaneo.

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