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Dacia Maraini
Là dove c’era l’erba ora c’è una città...
15 Giugno 2011
Consumo di suolo
Riflessioni niente affatto scontate della nota scrittrice e intellettuale sul degrado del territorio a partire da stimoli personali e non. Corriere della Sera, 14 giugno 2011 (f.b.)

Il paesaggio è il grande malato d’Italia, come scrive Salvatore Settis? Dovunque ci si volti, si trova che il cemento cresce e diminuiscono l’erba, la terra, l’acqua in libertà. La volontà di dominio degli uomini sulla natura non conosce misura. Le lezioni tipo Fukushima non spaventano gli esaltati del cemento, i quali, nella convinzione che ogni filo d’erba costituisca un impedimento al guadagno, non riescono mai a rivolgere uno sguardo verso il futuro. Eppure il futuro dovrebbe esserci caro, poiché è sul futuro che possiamo piantare le nostre speranze, i nostri progetti. Ma lo stiamo inondando di rifiuti. Segno, come dicono gli studiosi del comportamento animale, che ci stiamo disamorando del nostro stare al mondo.

Secondo l’Istat, fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata (Sau) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme: «Abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17%del nostro suolo agricolo» . Cito dal bel libro di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento. Gli effetti sono: «La riduzione dei terreni agrari, boschivi e il dissesto idrogeologico, che creano una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni» . Secondo l’Istat, «l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti» . Eppure c’è la crisi, le case costano sempre piu care, gli affitti si fanno improponibili, e i giovani sono affamati di abitazioni. Ma le gettate di cemento non risolvono la questione, anzi l’aggravano. È questo il punto.

Come scrive Franco La Cecla ( Per un’antropologia dell’abitare): «L’equilibrio storico fra popolazione e territorio è già compromesso o sul punto di collassare» . Insomma: a cosa serve tutto questo cemento se non a soddisfare l’ingordigia di guadagno e l’induzione di nuovi inutili bisogni? E non si tratta, come dicono alcuni, di ubbie ambientaliste: la devastazione del territorio costa alla comunità un mucchio di denaro. Secondo il rapporto Ispra del 2009, l’uso irrispettoso «delle vocazioni naturali del territorio ha generato negli ultimi 7 anni danni per almeno 5 miliardi di euro» . Per non parlare degli incendi che ogni anno distruggono in media 45.000 ettari di aree boschive (dati del Corpo forestale), di cui oltre il 90%provocati dall’uomo. Questo non impedisce a molti amministratori di essere vittime di quello che Settis chiama «la retorica dello sviluppo» , parola d’ordine che incanta sia le destre che le sinistre. Il motivo è nobile: creare posti di lavoro.

Ma è chiaro che si tratta di un vecchio modo di guardare alle cose. Se non si cambiano i criteri di valutazione sui rapporti dell’uomo con la natura, ne usciremo sempre più poveri e malati. Il rimedio? Meno pretesa di dominio, meno speculazione, meno voracità. Più attenzione, più ascolto, più rispetto, più pianificazione. Non ci sono alternative. Pena la dipendenza sempre più drammatica dalle reazioni di una natura che si rivolta furibonda e senza pietà.

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